lunedì 29 ottobre 2007

Un verso vi seppellirà, e addio ai veli neri

Corriere della Sera 28.10.07
Dal Marocco allo Yemen, le voci represse dell'altra metà del cielo
Un verso vi seppellirà, e addio ai veli neri
Le poetesse arabe sfidano la censura in nome della libertà e di eros
di Dario Fertilio

Confessano d'aver peccato, le poetesse di lingua e cultura araba tradotte e raccolte in antologia da Valentina Colombo. Loro colpa è essersi ribellate all'ortodossia coranica, alla dittatura maschilista, all'ideologia della sottomissione e del silenzio, alle millenarie regole sacrali del fare versi, alla repressione degli istinti sessuali e degli slanci del cuore.
Sono testimonianze estreme, dunque, le loro, che esprimono sentimenti ugualmente radicali ed escludono richieste di perdono. Strofa dopo strofa, le protagoniste di «Non ho peccato abbastanza » (Oscar Mondadori, pagine 286, e 9) scagliano parole come pietre, sotto forma di versi lirici, appassionati e spesso sensuali, qualche volta disperati, ma anche duri, non di rado irridenti nei confronti dell'universo maschile; e per farlo si espongono ogni giorno a tutte le possibili conseguenze, incluse la censura, le perdite del posto, le persecuzioni, persino le minacce di morte. Scrivono, insomma, in uno slancio estremamente femminile di dedizione totale, con una specie di sereno coraggio che non conosce mezze misure. Così alzano la voce, le poetesse del mondo arabo (islamiche, cristiane, agnostiche, inclassificabili), soprattutto per scuotere i loro compagni, fratelli, padri, figli e amanti, per risvegliare chi si è smarrito nel sonno dogmatico delle abitudini coraniche e dell'ortodossia, chi nega per pigrizia o conformismo l'autonomia e la personalità giuridica delle donne, chi accetta di seppellire la splendida, divina differenza di genere sotto una coltre— purtroppo non solo simbolica — di veli neri. E dunque «Non ho peccato abbastanza» si collega idealmente a un'altra antologia, «Basta! », dedicata dalla stessa curatrice pochi mesi fa alle testimonianze dei musulmani liberali.
Le personalità delle poetesse chiamate da Valentina Colombo a comporre questa antologia sono — e probabilmente rimarranno a lungo — sconosciute ed esotiche agli occhi degli occidentali. Così della irachena Nazik al Malaika o della emiratina Zhabiya Khamis, della bahrenita Hamda Khamis o della libanese Joumana Haddad, giungono fino a noi, evocate dai loro versi, soltanto immagini sfocate, imprecise, tanto da impedirci spesso di decifrarne i nomi, individuarne le origini, ritrovare sulla carta geografica i luoghi dove vivono e soffrono. Eppure, nel momento stesso in cui ci si abbandona al ritmo dei loro versi, si viene colti dalla sensazione di conoscerle molto bene, da sempre, queste donne. Provano rabbia, disperazione, lutto ma soprattutto amore, spesso esagerato ed eccessivo rispetto al suo oggetto, però caparbiamente deciso a non lasciarsi intimidire e ad esprimersi sino in fondo, contravvenendo a tutte le regole correnti dell'Islam. Perché, come ricorda la curatrice dell'antologia, le ventinove poetesse che rappresentano un'area geografica e culturale vastissima, dal Marocco all'Iraq, dalla Siria allo Yemen, commettono già scrivendo un triplice sacrilegio. In quanto donne, di per sé tenute al silenzio; perché seguaci aperte del dio eros, in tutti i luoghi e in tutti i tempi refrattario alle imposizioni delle dottrine; e infine come dissacratrici della rigida tradizione metrica araba, condizionata dall'idea della lingua coranica.
Impariamo anche, immergendoci in questa antologia, che le ispiratrici di un simile universo poetico portano i nomi di Endhuanna e Lilith. La prima, sacerdotessa sumera del terzo millennio prima di Cristo, seppe infrangere tutti i cliché letterari dell'epoca con le sue composizioni nell'alfabeto cuneiforme; la seconda, nota come demone notturno in una tradizione mesopotamica giunta fino a noi, è l'archetipo della donna che non accetta di sottomettersi all'uomo. Ma al di là di forme e simboli, è proprio la loro ricerca incessante dell'altro da sé, cioè dell'uomo libero, il principio maschile in grado di renderle complete, che le poetesse arabe arrivano a concepire, quindi affermare e infine difendere la loro idea di libertà.
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commento:
Queste donne dimostrano un coraggio incredibile, possono essere d'esempio anche per molti occidentali. In Europa ci sono in giro troppi "laici devoti", politici pronti ad inchinarsi ad ogni richesta che venga dalle chiese cristiane.
Questa notizia è anche l'ennesima dimostrazione che non vi è alcun "scontro di civiltà", i monoteisti sono sempre uguali, non vi è differenza alcuna tra un monoteista ebreo, cristiano, cattolico o mussulmano. Come non vi è differenza alcuna tra chi in Europa lotta contro la sottomissione e chi si impegna nella medesima lotta all'interno dei paesi islamici.
Francesco Scanagatta

Giordano Bruno brucia ancora

l’Unità 29.10.07
Il processo al filosofo e la Chiesa in una bella lettura di Augias
Giordano Bruno brucia ancora
di Lorenzo Buccella

Brucia ancora Giordano Bruno. Nonostante i «rammarici» post-datati giunti dalle tonache ufficiali della Chiesa e le contrizioni parziali dilazionate nel tempo. Brucia ancora, visto che le parole di quell'eretico «impenitente», finite nel fuoco assieme al suo corpo in un febbraio romano del 1600, finiscono ancora oggi per far da torcia simbolica davanti a polemiche che attraversano il mondo contemporaneo. Per carità, cambiano metodi e maniere, ma non certo l'irritazione verso le scomodità di un pensiero difforme che dirotta i sensi comuni, sovvertendo le vulgate cardinali delle autorità. E a darcene traccia, ricongiungendo le pupille strabiche del tempo in un racconto che ritrasporta l'esempio estremo del passato sulle punte dell'oggi, ci può anche pensare la semplicità scabra di un leggio e di uno sgabello piantonati in mezzo al palcoscenico di un teatro. Com'è successo l'altra sera all'Herberia di Rubiera (Reggio Emilia) dove, in anteprima nazionale, l'aplomb divulgatore di un Corrado Augias ha ripercorso gli ultimi spigoli di vita di Giordano Bruno nello spettacolo Le fiamme e la ragione.
Dalla formazione religiosa del monaco-filosofo, avviata su strade irregolari rispetto ai dogmi del tempo, alla prima denuncia veneziana d'eresia, per poi scivolare nel tunnel dei 22 interrogatori in cui s'inabissano gli otto anni del processo, prima di arrivare alla condanna definitiva. Quel rogo di Campo de' Fiori con tanto di morsa alla lingua, divenuto improrogabile per l'insistenza del «no» di fronte alle richieste d'abiura. Del resto, perché mai rinunciare a sostenere che l'universo è infinito e che Copernico ci aveva imbroccato sulla non-centralità della terra, se tutte le più intime convinzioni ti portano là? Il tempo, galante ma tragicamente ritardatario, darà ragione, ma intanto l'immediato impone altre risposte: «forse con più tremore annunciate voi la sentenza rispetto a quanto ne abbia io nell'accoglierla». Fila più o meno così la frase storica di Bruno che farà da esergo a tutti i martirii per la libertà di pensiero. E che la ripresa di questo omicidio voglia uscire dal semplice pugno di un episodio shock, lo testimonia l'intero telaio didattico su cui Augias fa girare il racconto, prendendo in mano lo spago della storia. Con tanto di flashback all'indietro e salti in avanti, testimoniati fin dall'incipit riservato a Galileo Galilei, sospeso 33 anni dopo Bruno, e qui saldato idealmente sul fronte di quel pensiero moderno che la Chiesa post-tridentina, agitata da un secolo di scissioni, cercò di esorcizzare nella maniera più intransigente. Da lì, il viaggio è svelto per andare a stanare la lunga scia di eredità che mette insieme Locke, Newton e Voltaire. Tutti annodati in quella convergenza di pensiero che vede la libertà della fede inscritta soltanto nella sfera intima del singolo, mentre al quaderno dei doveri dello Stato viene asportata ogni sorta di ingerenza etica. Il solito doppio binario dialettico, da sempre a rischio di dirottamenti, tanto da indurre a un'esplicita confessione delle ragioni che hanno riportato Giordano Bruno a teatro. Augias le butta lì in coda alla lettura come una sorta di post-it morale. Qui e là, nel «lontano» delle culture del mondo dove la mancata divisione tra reato e peccato pone l'emergenza che episodi del genere si ripetano, così come nel «vicino» della nostra Chiesa dove affiora la nostalgia verso il magistero di un papa buono come Giovanni XXIII, aperto a quelle forme di dialogo che le alte sfere ecclesiali di oggi sembrano invece disdegnare nella loro chiusura a riccio contro il nuovo nemico, quel tanto «deprecato» relativismo culturale.
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Commento:
Se oggi, Lunedì 29 ottobre 2007, leggendo i quotidiani possiamo apprendere che il signor Ratzinger chiede, per i farmacisti cattolici, il diritto di rifiutarsi di fornire mediciali ritenuti non rientranti nell'ottica cristiana... c'è da ipotizzare che tran non poco altre possano essere le sue richieste...
Francesco Scanagatta

domenica 28 ottobre 2007

Spagna, Concordato da rivedere

Corriere della Sera 23.10.07
Spagna, Concordato da rivedere
Zapatero vuole un Paese più laico
Si studia l'abolizione del rito cattolico dai protocolli di Stato L'ala progressista spinge per la svolta. I vertici smentisconodi Elisabetta RosaspinaMADRID — Era già improbabile che passasse alla Storia come «José Luis, il Cattolico». Dopo la legittimazione dei matrimoni omosessuali, l'introduzione di un'educazione civica e soprattutto laica a scuola, il ritocco al trattamento fiscale riservato alla Chiesa, il Vaticano ha ricevuto forte e chiaro il messaggio laico della politica di Zapatero. Ma, ora che il Partito socialista medita addirittura di rimettere mano, dopo quasi 30 anni, al Concordato, la Santa Sede rischia di ritrovarsi in mezzo al campo di battaglia elettorale nei prossimi mesi.I vertici del Psoe smentiscono, ma le indiscrezioni filtrate sul programma in gestazione nelle sue stanze sono piuttosto circostanziate: l'ala progressista del partito sostiene un sospetto di incostituzionalità nel ruolo che la Chiesa ancora ricopre dentro le istituzioni dello Stato. Per esempio, le forze armate.Perché, si chiedono i revisionisti, i cappellani del Vicariato Castrense possono far carriera, fino a indossare il grado di generale? Perché l'assistenza religiosa ai soldati è soltanto cattolica, quando si sa che sta crescendo, fra gli arruolati (ormai soltanto volontari), il numero dei musulmani? E perché gli atti protocollari dello Stato seguono unicamente il rito cattolico? Tutto ciò è conforme al pluralismo religioso di cui la Spagna del XXI secolo vuole farsi portabandiera? Si rimugina sui funerali di Stato alle vittime del terrorismo, celebrati da vescovi e arcivescovi: «Eppure — qualcuno nota — tra le vittime dell'attentato alla stazione di Atocha, l'11 marzo del 2004, c'erano anche morti di altre confessioni».Fondata o no, la discussione è scoppiata sicuramente troppo presto tra le mani dei socialisti, perché ad avvantaggiarsene non finiscano per essere i rivali del PP, il partito popolare, già in guardia sulla nuova «offensiva laica» della maggioranza.Pedro Zerolo, segretario dei Movimenti sociali del Psoe, esclude che, nei progetti del partito, ci siano misure anticlericali o anche solo le più blande intenzioni di mettere in discussione le prerogative ecclesiastiche in terra iberica. Si ammette, però, che i gruppi di lavoro che stanno elaborando i temi della prossima campagna elettorale di Zapatero hanno vari argomenti all'ordine del giorno. E quello del pluralismo religioso è uno dei tanti.Gli analisti politici, che cominciano a esprimersi sulla stampa sulla questione, considerano poco utile alla causa dei socialisti una vertenza con Santa Romana Chiesa, visto che già nell'ultima legislatura non sono mancati i motivi di tensione. La Conferenza Episcopale, per esempio, aveva incoraggiato quest'estate i genitori degli studenti ad avvalersi dell'obiezione di coscienza, per salvaguardare i figli dall'educazione civica introdotta per legge dal governo e troppo aperta, per esempio, in materia di famiglie omosessuali e coppie di fatto. La nuova materia scolastica, entrata in vigore quest'anno in molte comunità autonome rette dai socialisti, era stata denunciata dal cardinale Antonio Cañizares come una grave inadempienza ai patti tra Stato e Chiesa. E il governo certamente non dimentica il milione e mezzo di cittadini che gli ambienti cattolici riuscirono a mobilitare il 18 giugno di due anni fa in difesa della famiglia tradizionale.I primi accordi erano stati firmati nel luglio del '76, alla fine della dittatura franchista, ma i trattati concordati nel gennaio del 1979 tra la Spagna e il Vaticano riformavano il Concordato stipulato nel '53, sotto il regime di Franco, ed erano stati ratificati dal parlamento eletto dopo il varo della Costituzione. Ciò basta, secondo i conservatori, a considerarli legittimi e in buona salute.

sabato 27 ottobre 2007

Religione, il dogma in aula un'ora che vale un miliardo

Repubblica 24.10.07
Religione, il dogma in aula un'ora che vale un miliardo
di Curzio Maltese
L´insegnamento in classe è la seconda voce di finanziamento dello StatoSono infinite le diatribe legali intorno al "regalo" del posto fisso ai docentiLa Spagna studia la revisione degli accordi con la Chiesa, in Italia non se ne parlaL´ultimo dato ufficiale (2001) parla di 650 milioni di stipendi agli insegnanti ma nel frattempo sono diventati più di 25000, dei quali 14mila di ruoloL´ultima ondata di bullismo nelle scuole ha convinto il governo a istituire dal prossimo anno due ore di educazione civica obbligatoria, chiamata Cittadinanza e Diritti Umani, in ogni ordine d´insegnamento, dalle materne ai licei. Durissima la protesta dei vescovi, che hanno parlato di «catechismo socialista» e invitato le associazioni di insegnanti e genitori cattolici a scendere in piazza e avvalersi dell´obiezione di coscienza.Il presidente del consiglio ha risposto in televisione che, nel rispetto totale della maggioranza cattolica del paese, la laicità dello Stato resta un valore fondante della democrazia e l´educazione civica non è né può essere in competizione con l´ora facoltativa di religioni (cattolica come ebraica, islamica o luterana) già prevista nei programmi. Il premier ha aggiunto di voler confermare i tagli ai finanziamenti delle scuole private cattoliche e non, definiti «un ritorno alla legalità costituzionale» rispetto alla politica del precedente governo di destra.A questo punto forse il lettore si sarà domandato: ma dov´ero quando è successo tutto questo? In Italia. Mentre la vicenda naturalmente si è svolta altrove, nella Spagna del governo Zapatero, otto mesi fa. Il braccio di ferro fra stato laico e vescovi è andato avanti e oggi il governo spagnolo studia addirittura una revisione del Concordato del 1979. Una realtà lontana da noi. Nelle scuole italiane, più devastate dal bullismo di quelle spagnole, l´ora di educazione civica è abolita nelle primarie e quasi inesistente nelle superiori. Lo Stato in compenso si preoccupa di tutelare il più possibile l´ora di religione, al singolare: cattolica. Quanto ai finanziamenti alle scuole private cattoliche, in teoria vietati dall´articolo 33 della Costituzione («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»), l´attuale governo di centrosinistra, con il ministro Fioroni all´Istruzione, è impegnato al momento a battere i record di generosità stabiliti ai tempi di Berlusconi e Letizia Moratti.L´ora facoltativa di religione costa ai contribuenti italiani circa un miliardo di euro all´anno. E´ la seconda voce di finanziamento diretto dello Stato alla confessione cattolica, di pochi milioni inferiore all´otto per mille. Ma rischia di diventare in breve la prima. L´ultimo dato ufficiale del ministero parla di 650 milioni di spesa per gli stipendi agli insegnanti di religione, ma risale al 2001 quando erano 22 mila e tutti precari. Ora sono diventati 25.679, dei quali 14.670 passati di ruolo, grazie a una rapida e un po´ farsesca serie di concorsi di massa inaugurati dal governo Berlusconi nel 2004 e proseguita dall´attuale.Il regalo del posto fisso agli insegnanti di religione è al centro d´infinite diatribe legali. Per almeno due ordini di ragioni. La prima obiezione è di principio. L´ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo. Per giunta, gli insegnanti di religione sono scelti dai vescovi e non dallo Stato. Ma se la diocesi ritira l´idoneità, come può accadere per mille motivi (per esempio, una separazione), lo Stato deve comunque accollarsi l´ex insegnante di religione fino alla pensione.L´altra fonte di polemiche è la disparità di trattamento economico fra insegnanti «normali» e di religione. A parità di prestazioni, gli insegnanti di religione guadagnano infatti più dei colleghi delle materie obbligatorie. Erano già i precari della scuola più pagati d´Italia. Nel 1996 e nel 2000, con due circolari, i governi ulivisti avevano infatti deciso di applicare soltanto agli insegnanti di religione gli scatti biennali di stipendio (2,5 per cento) e di anzianità previsti per tutti i precari della scuola da due leggi, una del 1961 e l´altra del 1980. Il vantaggio è stato confermato e anzi consolidato con il passaggio di ruolo, a differenza ancora una volta di tutti gli altri colleghi. L´inspiegabile privilegio ha spinto prima decine di precari e ora centinaia di insegnanti di ruolo di altre materie a promuovere cause legali di risarcimento. Nel caso, per nulla remoto, in cui le richieste fossero accolte dai tribunali del lavoro, lo Stato dovrebbe sborsare una cifra valutabile fra i due miliardi e mezzo e i tre miliardi di euro.A parte le questioni economiche e legali, chiunque ricordi che cos´era l´ora di religione ai suoi tempi e oggi chiunque trascorra una mattinata nella scuola dei figli non può evitare di porsi una domanda. Vale la pena di spendere un miliardo di euro all´anno, in tempi di tagli feroci all´istruzione, per mantenere questa ora di religione? Uno strano ibrido di animazione sociale e vaghi concetti etici destinati a rimanere nella testa degli studenti forse lo spazio d´un mattino. Pochi cenni sulla Bibbia, quasi mai letta, brevi e reticenti riassunti di storia della religione.In Europa il tema dell´insegnamento religioso nelle scuole pubbliche è al centro di un vivace e colto dibattito, ben al di sopra delle vecchie risse fra clericali e anticlericali. Nello stato più laico del mondo, la Francia, il regista Regis Debray, amico del Che Guevara e consigliere di Mitterrand, a suo tempo ha rotto il monolitico fronte laicista sostenendo l´utilità d´inserire nei programmi scolastici lo studio della storia delle religioni. In Gran Bretagna la teoria del celebre biologo Roger Dawkins ( «L´illusione di Dio»), ripresa dallo scienziato Nicholas Humprey, secondo il quale «l´insegnamento scolastico di fatti non oggettivi e non provabili, come per esempio che Dio ha creato il mondo in sei giorni, rappresenta una violazione dei diritti dell´infanzia, un vero abuso», ha suscitato un ricco dibattito pedagogico. Ma è un fatto, sostiene Dawkins, che «noi non esitiamo a definire un bambino cristiano o musulmano, quando è troppo piccolo per comprendere questi argomenti, mentre non diremmo mai di un bambino che è marxista o keynesiano, Con la religione si fa un´eccezione». In Germania, Spagna, perfino nella cattolicissima Polonia di Karol Woytjla, il dibattito non si è limitato alle pagine dei giornali ma ha prodotto cambiamenti nelle leggi e nei programmi scolastici, come l´inserimento di altre religioni (Islam e ebraismo, per esempio) fra le scelte possibili o la trasformazione dell´ora di religione in storia delle religioni comparate, tendenze ormai generali nei sistemi continentali.In Italia ogni timido tentativo di discussione è stroncato sul nascere da una ferrea censura. L´ora di religione cattolica è un dogma. La sola ipotesi di affiancare all´ora di cattolicesimo altre religioni, come avviene in tutta Europa con le sole eccezioni di Irlanda e dell´ortodossa Cipro, procura un immediata patente di estremismo, anticlericalismo viscerale, lobbismo ebraico o addirittura simpatie per Al Quaeda. Quanto ad abolirla, come in Francia, è un´ipotesi che non sfiora neppure le menti laiche. Gli unici ad avere il coraggio di proporlo sono stati, come spesso accade, alcuni intellettuali cattolici. Lo scrittore Vittorio Messori, per esempio: «Fosse per me cancellerei un vecchio relitto concordatario come l´attuale ora di religione. In una prospettiva cattolica la formazione religiosa può essere solo una catechesi e nelle scuole statali, che sono pagate da tutti, non si può e non si deve insegnare il catechismo. Lo facciano le parrocchie a spese dei fedeli… Perciò ritiriamo i professori di religione dalle scuole pubbliche e assumiamoli nelle parrocchie tassandoci noi credenti». Messori non manca di liquidare anche gli aiuti di Stato alle scuole cattoliche, negati per mezzo secolo dalla Democrazia Cristiana, inaugurati con la legge 62 del 10 marzo 2000 dal governo D´Alema con Berlinguer all´Istruzione, dilagati nel periodo Berlusconi-Moratti (con il trucco dei «bonus» agli studenti per aggirare la Costituzione) e mantenuti dall´attuale ministro Fioroni, con giuramento solenne davanti alla platea ciellina del meeting di Rimini. «Lo Stato si limiti a riconoscere che ogni scuola non statale in più consente risparmio di danaro pubblico e di conseguenza conceda sgravi fiscali. Niente di più».Il cardinale Carlo Maria Martini, da arcivescovo di Milano, aveva dichiarato che l´ora di religione delle scuole italiane doveva ritenersi inutile o anche «offensiva», raccomandando di raddoppiarla e farne una materia seria di studio oppure lasciar perdere.La Cei ha sempre risposto che l´ora di religione è un successo, raccoglie il 92 per cento di adesioni, a riprova delle profonde radici del cattolicesimo in Italia. Ma se la Cei ha tanta fiducia nei fedeli non si capisce perché chieda (e ottenga dallo Stato) che l´ora di religione sia sempre inserita a metà mattinata e mai all´inizio o alla fine delle lezioni, come sarebbe ovvio per un insegnamento facoltativo. Perché chieda (e sempre ottenga) il non svolgimento nei fatti dell´ora alternativa. In molte materne ed elementari romane ai genitori è stato comunicato che i bambini di 5 o 6 anni non iscritti all´ora di religione «potevano rimanere nei corridoi». Prospettiva terrorizzante per qualsiasi madre o padre. D´altra parte la sicurezza ostentata dai vescovi si scontra con l´allarme lanciato nella relazione della Cei dell´aprile scorso sul progressivo abbandono dell´ora di religione, con un tasso di rinuncia che parte dal 5,4 delle elementari e arriva al 15,4 per cento delle superiori (con punte del 50 non solo nelle regioni «rosse» come la Toscana o l´Emilia-Romagna ma anche in Lombardia e nelle grandi città), man mano che gli studenti crescono e possono decidere da soli.Alla fine nessun argomento ufficiale cancella il dubbio. L´ora di religione, così com´è, costituisce davvero un insegnamento del catechismo («che in ogni caso ciascuno si può portare a casa con poche lire» ricordava don Milani) o non piuttosto un altro miliardo di obolo di Stato a san Pietro?
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

Democrazia e religione

Repubblica 25.10.07
Democrazia e religione di EZIO MAURO
"Finiamola". Con questo invito che ricorda un ordine il Cardinal Segretario di Stato della Santa Sede, Tarcisio Bertone ha preso ieri pubblicamente posizione contro l'inchiesta di Repubblica sul costo della Chiesa per i contribuenti italiani, firmata da Curzio Maltese. "Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa - ha detto testualmente il cardinal Bertone - : l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". Per poi aggiungere: "C'è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere. L'ora di religione è sacrosanta".Non ci intendiamo di santità, dunque non rispondiamo su questo punto. Ma non possiamo non notare come il tono usato da Sua Eminenza sia perentorio e inusuale in qualsiasi democrazia: più adatto a un Sillabo.L'attacco vaticano riguarda un'inchiesta giornalistica che analizza i costi a carico dei cittadini italiani per la Chiesa cattolica, dalle esenzioni fiscali all'otto per mille, al finanziamento alle scuole private, all'ora di religione: altre puntate seguiranno, finché il piano di lavoro non sia compiuto.Finiamola? E perché? Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev'essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza? E' convinta che basti chiedere la chiusura anticipata di un'indagine giornalistica per evitare che si discuta di "questa storia"? Infine, e soprattutto: non esiste più l'imprimatur, dunque persino in Italia, se un giornale crede di "tirar fuori iniziative di questo genere" può farlo. Salvo incorrere in errori che saremo ben lieti di correggere, se riceveremo richieste di rettifiche che non sono arrivate, perché nessun punto sostanziale del lavoro d'inchiesta è stato confutato.La confutazione, a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede, non prevista per le altre istituzioni italiane e straniere, ma tipica soltanto di Paesi non democratici. In più, Sua Eminenza è il Capo del governo di uno Stato straniero che chiede di "finirla" con il libero lavoro d'indagine (naturalmente opinabile, ma libero) di un giornale italiano. Dovrebbe sapere che in Occidente non usa. Mai.Stupisce questa reazione quando si parla non dei fondamenti della fede, ma di soldi. E tuttavia se la Chiesa - com'è giusto - vuole far parte a pieno titolo del discorso pubblico in una società democratica e trasparente, non può poi sottrarsi in nome di qualche sacra riserva agli obblighi che quel discorso pubblico comporta: per tutti i soggetti, anche quelli votati al bene comune. Anche questo è un aspetto della sfida perenne, e contemporanea, tra democrazia e religione.

Tra Vaticano e «Repubblica» ora è scontro

l’Unità 26.10.07
Le inchieste del giornale fanno infuriare Bertone.
Mauro: «Inaccettabile» Tra Vaticano e «Repubblica» ora è scontro
Le “spese” dello Stato per assicurare ovunque l’ora di Religione (e l’assenza di quella di Educazione civica), l’Ici pagato dalla Chiesa di malavoglia, con molti edifici delle curie esenti (e i Comuni ci rimettono 400 milioni di eruo l’anno), i percorsi non sempre limpidi dell’8 per mille (fra opere di bene e pubblicità): le inchieste de La Repubblica mandano su tutte le furie la Chiesa. E il segretario di Stato Vaticano s’arrabbia: «Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa: l’apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società» è la evangelica “teoria” di Tarcisio Bertone. Cita i cartelli dei lavoratori dell’ospedale pediatrico voluto dal vaticano (e gestito insieme alla Regione Lazio) che contestano il mancato rispetto di alcuni accordi lavoro. «Problema vero, reale». Condanna il manifesto sull’omosessualità con al centro un neonato. Insomma, parla di tuto a margine della conferenza stampa per ricordare il concerto di Ennio Morricone e dell’Arma che si terrà in Vaticano. Ma i toni più aspri li lascia al giornale romano: «C’è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere».Quel «finiamola» chiama il direttore del quotidiano Ezio Mauro ad una risposta: «Finiamola? E perché? - si domanda il direttore - Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev’essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza?». La Chiesa va all’attacco di chi esercita diritti costituzionalmente garantiti, come quello d’informare. «La confutazione - scrive Mauro, che ricorda come nessuna precisazione è stata mai mossa agli articoli a firma Curzio Maltese, l’ultimo del quale è uscito proprio - a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede».

venerdì 26 ottobre 2007

«Padre Pio, un immenso inganno»

Nel libro di Sergio Luzzatto ricostruite anche le diffidenti valutazioni del pontefice
«Padre Pio, un immenso inganno»
Giovanni XXIII annotava: «I suoi rapporti scorretti con le fedeli fanno un disastro di anime»


«Stamane da mgr Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giov. Rotondo. L’informatore aveva la faccia e il cuore distrutto». L’informato è Giovanni XXIII. P.P. è Padre Pio. E queste sono le parole che il Papa annota il 25 giugno 1960, su quattro foglietti rimasti inediti fino a oggi e rivelati da Sergio Luzzatto. «Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi ad una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia ad una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente» annota il Pontefice. «L’accaduto—cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona— fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti».

«Disastro di anime». «Immenso inganno ». Una delle «tentazioni» con cui il Signore ci mette alla prova. Espressioni durissime. Che però non si riferiscono alla complessa questione delle stigmate, su cui si sono concentrate le prime reazioni al saggio di Luzzatto, «Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento», in uscita la prossima settimana da Einaudi. All’inizio dell’estate 1960, Papa Giovanni è appena stato informato da monsignor Pietro Parente, assessore del Sant’Uffizio, del contenuto delle bobine registrate a San Giovanni Rotondo. Da mesi Roncalli assume informazioni sulla cerchia delle donne intorno a Padre Pio, si è appuntato i nomi di «tre fedelissime: Cleonilde Morcaldi, Tina Bellone e Olga Ieci», più una misteriosa contessa che induce il Pontefice a chiedere se il suo sia «un vero titolo oppure un nomignolo». Nel sospetto—cui il Papa presta fede—che la devozione delle donne nei confronti del cappuccino non sia soltanto spirituale, Roncalli vede la conferma di un giudizio che aveva formulato con decenni di anticipo.

Al futuro Giovanni XXIII, Padre Pio non era mai piaciuto. All’inizio degli Anni ’20, quando per due volte aveva percorso la Puglia come responsabile delle missioni di Propaganda Fide, aveva preferito girare alla larga da San Giovanni Rotondo. Ma è soprattutto la fede ascetica, mistica, quasi medievale di cui il cappuccino è stato il simbolo, per la Chiesa modernista di inizio secolo come per la Chiesa conciliare a cavallo tra gli Anni ’50 e ’60, a essere estranea alla sensibilità di Angelo Roncalli. Che, sempre il 25 giugno, annota ancora: «Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili». E, dopo aver ordinato una nuova visita apostolica a San Giovanni Rotondo, ad appunto quasi quarant’anni da quella compiuta nel 1921, il Papa conclude che «purtroppo laggiù il P.P. si rivela un idolo di stoppa».

Gli appunti di Roncalli rappresentano uno dei passaggi salienti dell’opera di Luzzatto. E, se letti con animo condizionato dal pregiudizio, possono indurre a giudicarla o come una demolizione definitiva della figura del santo, o come un’invettiva laicista contro un fenomeno devozionale duraturo e interclassista. Ma sarebbero due letture sbagliate. Il giudizio di Luzzatto su Padre Pio non è quello sommariamente liquidatorio, che si è potuto leggere ad esempio nel recente e fortunato pamphlet di Piergiorgio Odifreddi. Luzzatto prende Padre Pio molto sul serio. E, con un lavoro durato sei anni, indaga non solo sulla sua biografia, ma anche e soprattutto sulla sua mitopoiesi: sulla costruzione del mito del frate di Pietrelcina e sulla sua vicenda, profondamente intrecciata non solo con quella della Chiesa italiana, ma anche con la politica e pure con la finanza. Unmito che nasce sotto il fascismo (Luzzatto dedica pagine che faranno discutere al «patto non scritto» con Caradonna, il ras di Foggia; ed è un fatto che le prime due biografie di Padre Pio sono pubblicate dalla casa editrice ufficiale del partito, la stessa che stampa i discorsi del Duce). Ciò non toglie che l’esito di quella ricerca sarà inevitabilmente elogiata e criticata, com’è giusto che sia. Ma anche gli stroncatori non potranno non riconoscere che uno studioso estraneo al mondo cattolico ha affrontato la figura del santo con simpatia, nel senso etimologico, e non è rimasto insensibile al fascino di una figura sovrastata da poteri—terreni prima che soprannaturali—più grandi di lei, e (comunque la si voglia giudicare) capace di alleviare ancora oggi il dolore degli uomini e di destare un interesse straordinario.

Scrive Luzzatto che «l’importanza di Padre Pio nella storia religiosa del Novecento è attestata dal mutare delle sue fortune a ogni morte di Papa». Benedetto XV si dimostrò scettico, permettendo che il Sant’Uffizio procedesse da subito contro il cappuccino. Più diffidente ancora fu Pio XI: sotto il suo pontificato si giunse quasi al punto di azzerarne le facoltà sacerdotali. Pio XII invece consentì e incoraggiò il culto del frate. Giovanni XXIII autorizzò pesanti misure di contenimento della devozione. Ma Paolo VI, che da sostituto alla segreteria di Stato aveva reso possibile la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza, da Pontefice fece in modo che il frate potesse svolgere il suo ministero «in piena libertà». Albino Luciani, che per poco più di un mese fu Giovanni Paolo I, da vescovo di Vittorio Veneto scoraggiò i pellegrinaggi nel Gargano. Mentre Wojtyla si mostrò sempre profondamente affascinato dalla figura del cappuccino, che sotto il suo pontificato fu elevato agli altari.

Non è in discussione ovviamente la continuità morale e teologica tra i successori di Pietro.Però è impossibile negare che i Pontefici succedutisi nel corso del Novecento abbiano guardato a Padre Pio con occhi diversi, comprese le asprezze giovannee. E, come documenta Luzzatto, quando «La Settimana Incom illustrata» sparò in prima pagina il titolo «Padre Pio predisse il papato a Roncall »”, compreso il dettaglio di un telegrammadi ringraziamento che il nuovo Pontefice avrebbe inviato al cappuccino, Giovanni XXIII ordina al proprio segretario di precisare all’arcivescovo di Manfredonia che era "tutto inventato": «Io non ebbi mai alcun rapporto con lui, né mai lo vidi, o gli scrissi, né maimi passò per la mente di inviargli benedizioni; né alcuno mi richiese direttamente o indirettamente di ciò, né prima, né dopo il Conclave, né mai».

Aldo Cazzullo
25 ottobre 2007

dal "corriere della sera"

Padre Pio, il giallo delle stigmate

IL LIBRO DELLO STORICO SERGIO LUZZATTO APRE NUOVI DUBBI SUL FRATE DI PIETRaLCINA
Padre Pio, il giallo delle stigmate
Un farmacista: «Nel 1919 fece acquistare dell'acido fenico, sostanza adatta per procurarsi piaghe alle mani»

Il cerchio intorno a padre Pio aveva cominciato a stringersi fra giugno e luglio del 1920: poco dopo che era pervenuta al Sant'Uffizio la lettera- perizia di padre Gemelli sull'«uomo a ristretto campo di coscienza», «soggetto malato», mistico da clinica psichiatrica. Giurate nelle mani del vescovo di Foggia, monsignor Salvatore Bella, e da questi inoltrate, le testimonianze di due buoni cristiani della diocesi pugliese avevano proiettato sul corpo dolorante del cappuccino un'ombra sinistra. Più che profumo di mammole o di violette, odore di santità, dalla cella di padre Pio erano sembrati sprigionarsi effluvi di acidi e di veleni, odore di impostura.


Il primo documento portava in calce la firma del dottor Valentini Vista, che a Foggia era titolare di una farmacia nella centralissima piazza Lanza. Al vescovo, il professionista aveva riferito anzitutto le circostanze originarie del suo interesse per padre Pio. La tragica morte del fratello, occorsa il 28 settembre 1918 (per effetto dell'epidemia di spagnola, possiamo facilmente ipotizzare). La speranza che il frate cappuccino, proprio in quei giorni trafitto dalle stigmate, potesse intercedere per l'anima del defunto. (...) Il dottor Valentini Vista era poi venuto al dunque. Nella tarda estate del '19, il pellegrinaggio a San Giovanni era stato compiuto da una sua cugina, la ventottenne Maria De Vito: «Giovane molto buona, brava e religiosa», lei stessa proprietaria di una farmacia. La donna si era trattenuta nel Gargano per un mese, condividendo con altre devote il quotidiano train de vie del santo vivo.

Il problema si era presentato al rientro in città della signorina De Vito: «Quando ella tornò a Foggia mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome di lui e in stretto segreto dell'acido fenico puro dicendomi che serviva per Padre Pio, e mi presentò una bottiglietta della capacità di un cento grammi, bottiglietta datale da Padre Pio stesso, sulla quale era appiccicato un bollino col segno del veleno (cioè il teschietto di morte) e la quale bottiglietta io avrei dovuto riempire di acido fenico puro che, come si sa, è un veleno e brucia e caustica enormemente allorquando lo si adopera integralmente. A tale richiesta io pensai che quell'acido fenico adoperato così puro potesse servire a Padre Pio per procurarsi o irritarsi quelle piaghette alle mani».


A Foggia, voci sul ritrovamento di acido fenico nella cella di padre Pio avevano circolato già nella primavera di quel 1919, inducendo il professor Morrica a pubblicare sul Mattino di Napoli i propri dubbi di scienziato intorno alle presunte stigmate del cappuccino. Non fosse che per questo, il dottor Valentini Vista era rimasto particolarmente colpito dalla richiesta di acido fenico puro che il frate aveva affidato alla confidenza di Maria De Vito. Tuttavia, «trattandosi di Padre Pio», egli si era persuaso che la richiesta avesse motivazioni innocenti, e aveva consegnato alla cugina la bottiglia con l'acido. Ma la perplessità del farmacista era divenuta sospetto poche settimane dopo, quando il cappuccino di San Giovanni aveva trasmesso alla donna – di nuovo, sotto consegna del silenzio – una seconda richiesta: quattro grammi di veratrina.


Rivolgendosi a monsignor Bella, Valentini Vista illustrò la composizione chimica di quest'ultimo prodotto e insistette sul suo carattere fortemente caustico. «La veratrina è tale veleno che solo il medico può e deve vedere se sia il caso di prescriverla», spiegò il farmacista. A scopi terapeutici, la posologia indicata per la veratrina era compresa fra uno e cinque milligrammi per dose, sotto forma di pillole o mescolata a sciroppo. «Si parla dunque di milligrammi! La richiesta di Padre Pio fu invece di quattro grammi! ». E tale «quantità enorme trattandosi di un veleno», il frate aveva domandato «senza la giustificazione della ricetta medica relativa», e «con tanta segretezza»... A quel punto, Valentini Vista aveva ritenuto di dover condividere i propri dubbi con la cugina Maria, raccomandandole di non dare più seguito a qualsivoglia sollecitazione farmacologica di padre Pio. Durante il successivo anno e mezzo, il professionista non aveva comunicato a nessun altro il sospetto grave, gravissimo, che il frate si servisse dell'una o dell'altra sostanza irritante «per procurarsi o rendere più appariscenti le stigmate alle mani». Ma quando aveva avuto notizia dell'imminente trasferimento di monsignor Bella, destinato alla diocesi di Acireale, «per scrupolo di coscienza» e nell'«interesse della Chiesa» il farmacista si era deciso a riferirgli l'accaduto.


La seconda testimonianza fu giurata nelle mani del vescovo dalla cugina del dottor Valentini Vista, e risultò del tutto coerente con la prima. La signorina De Vito confermò di avere trascorso un mese intero a San Giovanni Rotondo, nell'estate del '19. Alla vigilia della sua partenza, padre Pio l'aveva chiamata «in disparte» e le aveva parlato «con tutta segretezza», «imponendo lo stesso segreto a me in relazione anche agli stessi frati suoi confratelli del convento». Il cappuccino aveva consegnato a Maria una boccetta vuota, pregando di farla riempire con acido fenico puro e di rimandargliela indietro «a mezzo dello chauffeur che prestava servizio nell'autocarro passeggieri da Foggia a S. Giovanni». Quanto all'uso cui l'acido era destinato, padre Pio aveva detto che gli serviva «per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che egli praticava ai novizi di cui era maestro ». La richiesta dei quattro grammi di veratrina le era giunta circa un mese dopo, per il tramite d'una penitente di ritorno da San Giovanni. Maria De Vito si era consultata con Valentini Vista, che le aveva suggerito di non mandare più nulla a padre Pio. E che le aveva raccomandato di non parlarne con nessuno, «potendo il nostro sospetto essere temerario ».


Temerario, il sospetto del bravo farmacista e della devota sua cugina? Non sembrò giudicarlo tale il vescovo di Foggia, che pensò bene di inoltrare al Sant'Uffizio le deposizioni di entrambi. D'altronde, un po' tutte le gerarchie ecclesiastiche locali si mostravano scettiche sulla fama di santità di padre Pio. Se il ministro della provincia cappuccina, padre Pietro da Ischitella, metteva in guardia il ministro generale dal «fanatismo » e dall'«affarismo» dei sangiovannesi, l'arcivescovo di Manfredonia, monsignor Pasquale Gagliardi, rappresentava come totalmente fuori controllo la situazione della vita religiosa a San Giovanni Rotondo.


Da subito nella storia di padre Pio, i detrattori impiegarono quali capi d'accusa quelli che erano stati per secoli i due luoghi comuni di ogni polemica contro la falsa santità: il sesso e il lucro. E per quarant'anni dopo il 1920, il celestiale profumo intorno alla cella e al corpo di padre Pio riuscirà puzzo di zolfo al naso di quanti insisteranno sulle ricadute economiche o almanaccheranno sui risvolti carnali della sua esperienza carismatica. Ma nell'immediato, a fronte delle deposizioni di Maria De Vito e del dottor Valentini Vista, soprattutto urgente da chiarire dovette sembrare al Sant'Uffizio la questione delle stigmate. Tanto più che il vescovo di Foggia, inoltrando a Roma le due testimonianze giurate, aveva accluso alla corrispondenza un documento che lo storico del ventunesimo secolo non riesce a maneggiare – nell'archivio vaticano della Congregazione per la Dottrina della Fede – senza una punta d'emozione: il foglio sul quale padre Pio, forse timoroso di non poter comunicare a tu per tu con la signorina De Vito, aveva messo nero su bianco la richiesta di acido fenico. Allo sguardo inquisitivo dei presuli del Sant'Uffizio, era questo lo smoking gun, l'indizio lasciato dal piccolo chimico sul luogo del delitto. «Per Marietta De Vito, S.P.M.», padre Pio aveva scritto sulla busta. All'interno, un unico foglietto autografo, letterina molto più stringata di quelle che il cappuccino soleva scrivere alle sue figlie spirituali: «Carissima Maria, Gesù ti conforti sempre e ti benedica! Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di aver da duecento a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare. Ti prego di spedirmela la domenica e farmela mandare dalle sorelle Fiorentino. Perdona il disturbo».


Se davvero padre Pio necessitava di acido fenico per disinfettare le siringhe con cui faceva iniezioni ai novizi, perché mai procedeva in maniera così obliqua, rinunciando a chiedere una semplice ricetta al medico dei cappuccini, trasmettendo l'ordine in segreto alla cugina di un farmacista amico, e coinvolgendo nell'affaire l'autista del servizio pullman tra Foggia e San Giovanni Rotondo? Ce n'era abbastanza per incuriosire un Sant'Uffizio che possiamo immaginare già sospettoso dopo avere messo agli atti la perizia di padre Gemelli. Di sicuro, i prelati della Suprema Congregazione non dubitarono dell'attendibilità delle testimonianze del dottor Valentini Vista e della signorina De Vito, così evidentemente suffragate dall'autografo di padre Pio. Agli atti del Sant'Uffizio figurava anche la trascrizione di una seconda lettera autografa del cappuccino a Maria De Vito, il cui poscritto corrispondeva esattamente al tenore della deposizione di quest'ultima: «Avrei bisogno di un 4 grammi di veratrina. Ti sarei molto grato, se me la procurassi costì, e me la mandassi con sollecitudine».


Sergio Luzzatto
24 ottobre 2007

dal "corriere della sera"

Padre Pio, battaglia senza fine

da "la Stampa.it" 26/10/2007 (7:49)
Padre Pio, battaglia senza fine

Un libro riapre il caso:
«impostore lussurioso o
«vittima di Papa Giovanni»?
GIACOMO GALEAZZI
CITTA' DEL VATICANO
Padre Pio «impostore e lussurioso» o vittima di Giovanni XXIII, suo «spietato persecutore e calunniatore». Spaccano il mondo ecclesiale gli appunti privati (rivelati da «L’Altro Cristo», biografia dello storico Sergio Luzzatto) in cui il Papa bolla come «un immenso inganno e un disastro di anime» l’opera del cappuccino proclamato Santo da Karol Wojtyla, deplorandone «i rapporti scorretti con le fedeli». Fu una persecuzione per «togliere di mezzo un tradizionalista scomodo per la Chiesa modernista di Roncalli» oppure erano fondate le accuse arrivate in Vaticano sulle «truffe economiche e gli scandali sessuali» del cappuccino?

«E’ prassi in questi casi inviare sul posto un “missus dominicus” a fare un’inchiesta e così fece Giovanni XXII - puntualizza il cardinale di Curia, Pio Laghi -.Non sempre chi indaga è oggettivo e bisogna vedere come l’inviato papale Carlo Maccari ne riferì al Pontefice, che veniva da famiglia contadina e amava le cose semplici e concrete. In tanto scalpore la sua volontà era mettere in chiaro i fatti». Il teologo Giovanni Franzoni, ex abate della basilica romana di San Paolo, ricorda il giudizio negativo di padre Gemelli e le diagnosi cliniche di Cancrini sull’«istrionismo pulsionale e la necessità di mettersi in mostra» di Padre Pio. «Le stimmate sono una nota malattia della pelle. Le ho viste anche in persone che nulla avevano di santo - puntualizza don Franzoni -.Padre Pio non è mai parso monastico e ritratto in se stesso, ma idolatrato e sovraesposto già da un’iconografia miracolistica».

«Erano gli uffici a trasmettere notizie negative su quanto avveniva a San Giovanni Rotondo: il Pontefice non aveva alcun pregiudizio ma non poteva che prenderne atto - spiega l’arcivescovo Loris Capovilla, segretario personale di papa Roncalli -. Il suo timore nasceva dalle informazioni degli incaricati della Santa Sede». Roncalli allarmato dal «gran giro di denaro» e «sviato» dalla Curia: «Era un uomo e come tale non era infallibile. Avrà commesso i suoi errori». Dissente lo scrittore cattolico Antonio Socci: «Già durante il processo di beatificazione, Capovilla cercò di tenere fuori Roncalli dalla persecuzione di Padre Pio, scaricando la colpa sui cardinali Tardini e Ottaviani. Ma ora da questo documento sappiamo che, oltre alle registrazioni sacrileghe e illegali nel confessionale, il Papa credeva esistessero “filmine” di Padre Pio sorpreso in atteggiamenti equivoci con ragazze. In realtà erano tutte menzogne come ha dimostrato la canonizzazione. E quanto all’acido fenico per procurarsi le stimmate, non era più in vendita a San Giovanni Rotondo dal 1920 proprio per fugare ogni ombra».

La verità, secondo Socci, è che nel passaggio da Pio XII che definì il frate «salvezza dell’Italia» a Giovanni XXIII «ostile all’irrompere del soprannaturale» si usarono contro Padre Pio «la segregazione e metodi da Inquisizione». In realtà, evidenziano in Curia, lo scandalo finanziario Giuffrè che nel 1958 aveva sconvolto i Cappuccini è il retroscena del giudizio negativo di Giovanni XXIII su Padre Pio per il suo rifiuto ai superiori di usare le offerte di San Giovanni Rotondo per «salvare l’onore dell’Ordine».