sabato 31 maggio 2008

INCAPACI MENTALI, DIRITTO ALL'EUTANASIA

Corriere della Sera 23 mag. ’08

INCAPACI MENTALI, DIRITTO ALL'EUTANASIA

Etica e malattia Il progetto apre anche ai pazienti che non hanno espresso il
consenso in precedenza
Belgio, la proposta per estendere la dolce morte. I critici: si torna a Hitler
Iniziativa del partito liberaldemocratico dell'ex premier Verofstadt. In Belgio
l'eutanasia è legale dal 2002
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES -
Prima proposta: lasciar morire, o meglio uccidere con un'iniezione o con una manciata
di pastiglie, un paziente che sia «mentalmente incapacitato». Seconda proposta:
lasciar morire o uccidere anche, sempre per sottrarlo al dolore di una malattia
non più controllabile, chi per la legge è minorenne, troppo giovane per decidere
da solo. Questo ed altro chiedono 4 progetti di legge - presentati dal partito
liberaldemocratico fiammingo - che stanno dividendo ancora una volta il Belgio
cattolico: prevedono cioè che l'eutanasia, già legalizzata dal 2002 per i
maggiorenni e a determinate condizioni, possa essere estesa legalmente anche ai
minori - come già avviene in Olanda - e ai «dementi», cioè a persone che non
siano in grado di intendere e di volere per effetto di una incurabile forma di
demenza. Stando agli oppositori dell'idea, soprattutto a quelli dell'area
cattolica, si tratta poco meno che di un ritorno al «T4», il piano per
l'eutanasia di massa messo in cantiere da Hitler subito prima della guerra.
Stando ai sostenitori, le ideologie naziste non c'entrano proprio nulla: si
vorrebbe solo combattere la condanna della sofferenza inutile, e offrire a tutti
la possibilità di una «morte con dignità». Sostenitori e oppositori sono
disposti in file trasversali, si trovano più o meno in tutti i partiti. Ma a
firmare i 4 progetti di legge sono i liberaldemocratici dell'Open Vld, il
partito dell'ex primo ministro Guy Verofstadt e anche il primo partito in vaste
zone delle Fiandre. Il clima politico è già appesantito dalle tensioni etnico-
linguistiche, e in tema di eutanasia non si è ancora spenta l'eco della morte di
Hugo Claus, lo scrittore che ha scelto la «dolce fine» pur di non arrendersi al
morbo di Alzheimer: secondo il quotidiano fiammingo De Standaard, dalla morte di
Claus sono raddoppiate le richieste di eutanasia in tutto il Paese. Ma Claus,
appunto, era ancora in possesso delle sue facoltà mentali. Quelli di cui oggi si
discute sono casi probabilmente molto diversi. Per un «mentalmente
incapacitato», si dice, potrebbe comunque far testo una sua volontà espressa in
precedenza, e la decisione del medico dovrebbe sottostare alle stesse condizioni
previste oggi: che la malattia sia grave e incurabile; che le sofferenze
«fisiche o psichiche» siano «costanti, intollerabili e non sedabili»; e che vi
sia stata, appunto, una richiesta «volontaria, ripetuta e libera da ogni
pressione esteriore». Ma se quest'ultima richiesta non vi fosse stata, se
l'incapacità psichica - o anche l'età troppo giovane del paziente (o tutt'e due,
nel caso di ragazzi gravemente handicappati) - l'avesse resa impossibile?
Basterebbe l'accordo del medico con i parenti stretti del paziente? Qui c'è una
zona opaca, di ambiguità giuridica, in cui si concentrano le polemiche. In
Olanda, questi ostacoli sono stati aggirati da una legge che permette
l'eutanasia per i ragazzi dai 12 ai 16 anni purché vi sia il consenso dei
genitori o dei tutori; e per quelli di 16-17 anni, anche senza questo consenso
(ma dietro richiesta del ragazzo, naturalmente). In Belgio, finora, si è sempre
proceduto con il sistema della «notifica a posteriori»: una volta accertate le
condizioni prescritte, il medico somministra la «dolce morte», o iniettando dei
farmaci o «aiutando» il paziente a prenderli per bocca. Poi, entro 4 giorni
dalla morte, avverte la Commissione cui spetta il giudizio finale. E lo fa con
un modulo scaricabile anche da Internet, poiché la burocrazia imbriglia pure la
morte. Luigi Offeddu Le «macchine» per morire Il «dottor morte» Jack Kevorkian,
80 anni di cui passati 8 in cella per aver aiutato a morire circa 100 malati
terminali, con il suo «Thanatron». A destra, la macchina della morte «fai da te» del tedesco Peter Kusch Il progetto belga Incapaci Se il progetto di legge sarà approvato, i medici belgi potranno compiere l'eutanasia attiva su soggetti incapaci di intendere e di volere, purché questi abbiano espresso questa volontà In Europa Ad oggi l'eutanasia attiva è consentita solo in Belgio, Olanda (che la autorizza anche per i ragazzi dai 12 anni in su) e Lussemburgo. In Svizzera è previsto, invece, il «suicidio assistito» Attiva È prevista l'eutanasia attiva (iniezione di farmaco neuro-paralizzante che conduce alla morte), distinta da quella passiva (rifiuto dell'accanimento terapeutico e/o somministrazione di forti sedativi-palliativi) I funerali Lo scrittore belga Hugo Claus, morto con l'eutanasia

La famiglia. Storia di un legame complicato

La Repubblica 31.5.08
La famiglia. Storia di un legame complicato
di Piergiorgio Odifreddi

Per gli Inuit dell´Alaska i rapporti sessuali tra partner istituiscono legami permanenti e permettono unioni intrecciate
Diversamente dalla poliginia la poliandria, diffusa in Congo, Kerala e Tibet, crea problemi per riconoscere la paternità
È stato il Concilio di Trento ad imporre l´indissolubilità del matrimonio ai cattolici: il Vangelo non è così categorico Un pamphlet dell´antropologo Francesco Remotti

Nel 1859 il re Vittorio Emanuele II concesse con Regio Decreto alla sua amante, la Bela Rosin, il casato di Mirafiori e Fontanafredda, il cui motto era ironicamente «Dio, Patria e Famiglia». Nel 1945 il duce Benito Mussolini fu fucilato dai partigiani insieme alla sua amante, Claretta Petacci, dopo che il fascismo aveva proclamato lo stesso motto per un ventennio. E ancora nel 2007 i leader della destra Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini, tutti regolarmente divorziati e risposati, hanno partecipato a un Family Day ispirato ancora una volta ai valori dell´imperituro motto.
Passando dai comportamenti individuali ai pronunciamenti ufficiali, l´articolo 29 della Costituzione recita: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», con una formulazione di compromesso raggiunta il 22 dicembre 1947 dall´Assemblea Costituente fra le opposte formulazioni della destra («la famiglia è una società naturale») e della sinistra («la famiglia è un´istituzione morale»).
Dal canto suo, l´articolo 338 del Compendio del Catechismo afferma che «l´unione matrimoniale dell´uomo e della donna, fondata e strutturata con leggi proprie dal Creatore, per sua natura è ordinata alla generazione dei figli ed è indissolubile, secondo l´originario disegno divino». E l´articolo 502 enumera tra le offese alla dignità del matrimonio «l´adulterio, il divorzio, la poligamia, l´incesto, la libera unione (convivenza, concubinato) e l´atto sessuale prima o al di fuori del matrimonio».
Naturalmente, se il matrimonio eterosessuale, monogamico, procreativo e indissolubile fosse veramente espressione di una volontà divina, anche solo nel senso debole di essere stata enunciata esplicitamente da un testo ritenuto sacro, ci sarebbe poco da discutere, almeno per i fedeli. Il fatto è che questa supposta volontà divina non sembra invece essere altro che l´espressione dei desideri delle gerarchie ecclesiastiche: almeno per quanto riguarda la monogamia e l´indissolubilità tutto si può dire, infatti, meno che la Bibbia ebraica impedisse la poligamia e il divorzio, come testimoniano le storie di patriarchi come Abramo o Giacobbe, o di re come Davide o Salomone. E i l comandamento «non desiderare la donna d´altri» intendeva semplicemente preservare i beni del prossimo, in un ordine d´importanza in cui la moglie veniva prima degli schiavi e delle bestie, ma dopo la casa!
Coerentemente, gli Ebrei rimasero poligami a lungo. Verso l´anno 1000 un decreto del rabbino Gershom di Magonza proibì la poliginia agli Aschenaziti (gli Ebrei europei, che vivevano in ambienti cristiani), ma ancora nel 1578 il vescovo di Feltre rilasciava a un ebreo della sua diocesi il permesso di avere una seconda moglie, «secondo la legge del sacrosanto Antico Testamento». I Sefarditi (gli Ebrei della penisola iberica e del Mediterraneo meridionale, che vivevano in ambienti islamici) rimasero invece poligami in teoria, e in molte comunità anche in pratica, fino a che nel 1950 il rabbinato di Israele estese la proibizione a tutti gli Ebrei.
Se anche Dio ha parlato, è chiaro dunque che è stato inteso diversamente da chi l´ha udito. E non solo dagli Ebrei e dagli Islamici, ai quali com´è noto il Corano (IV, 3) permette fino a quattro mogli, ma anche dai Cristiani: ad esempio, nel 1534 gli Anabattisti fondarono a Munster una comunità protosocialista e poliginica, benché di breve durata, e dal 1830 al 1980 la Chiesa dei Santi dell´Ultimo Giorno, cioè la comunità dei Mormoni dello Utah, ha ammesso ufficialmente la poliginia.
Quanto all´indissolubilità del matrimonio, nemmeno il Vangelo è così categorico come il Catechismo», visto che Gesù ammette esplicitamente il concubinato come motivo di divorzio nel Discorso della Montagna, e nel suo commento ad esso Agostino fa lo stesso con l´adulterio. In realtà è stato il Concilio di Trento a imporre nel 1563 l´indissolubilità ai Cattolici, costringendoli a fare i salti mortali nella rimozione di quel passo evangelico: i Protestanti e gli Ortodossi, che leggono invece il testo com´è scritto, accettano il divorzio, ed è proprio su questa questione che si consumò nel 1533 lo scisma tra Anglicani e Cattolici.
Essendo in gravi difficoltà teologiche a proposito della sua dottrina matrimoniale, oggi la Chiesa cerca di difenderla usando un argomento di tipo scientifico, tra l´altro più consono ai tempi moderni: sostenendo, cioè, che il matrimonio eterosessuale, monogamico, procreativo e indissolubile è «naturale», nel senso di essere la vera espressione della natura dell´uomo. Anzi, arrivando più generalmente a sostenere che il Cristianesimo è una religione naturale, il che giustificherebbe le pretese di universalità suggerite dal termine «cattolico».
Ma questa nuova strategia è ancora più fallimentare dell´appello ai testi sacri, perché richiede la rinuncia alla proclamazione delle opinioni e l´accettazione della discussione dei fatti. E ha facile gioco un antropologo come Francesco Remotti a snocciolare in Contro natura. Una lettera al Papa (Laterza, pagg. 281, euro 15) l´evidenza contraria di mezzo mondo, e a mostrare che la supposta «famiglia naturale» non è altro che l´espressione di un particolare relativismo culturale limitato nello spazio e nel tempo, che la Chiesa pretende di elevare ad assolutismo universale ed eterno.
L´aspetto forse più interessante di questa confutazione scientifica è la dimostrazione della mutua indipendenza delle varie caratteristiche del matrimonio cattolico, in genere presentate in un pacchetto ritenuto a sua volta indissolubile. E invece, anzitutto, per la maggioranza delle società al mondo il matrimonio non richiede la monogamia, benché la Chiesa aborrisca la poligamia sia sincronica, che diacronica: cioè, non solo proibisca di avere più coniugi in parallelo, ma scoraggi anche l´averli in serie (ad esempio, il rimatrimonio di vedovi), secondo la formula del «dato antropologico originario sic per cui l´uomo dev´essere unito in modo definitivo a una sola donna e viceversa» (Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, 13 marzo 2007)
Più interessante del fatto ovvio che il matrimonio è compatibile col divorzio, è quello meno ovvio che la poligamia è compatibile con l´indissolubilità: lo dimostrano ad esempio gli Inuit dell´Alaska, per i quali i rapporti sessuali tra partner istituiscono legami permanenti, benché temporaneamente disattivabili con una separazione, e permettono co-matrimoni intrecciati in cui più uomini sono sposati con una stessa donna, e più donne con uno stesso uomo (in Occidente queste situazioni si verificano informalmente negli scambi di coppia duraturi).
Diversamente dalla poliginia, la poliandria (diffusa in molte società, dal Congo al Kerala al Tibet) crea problemi per il riconoscimento della paternità, ed è anzi un mezzo di contenimento della popolazione: spesso essa si realizza quando una stessa donna è sposata da più fratelli, come la Draupadi andata in moglie ai cinque Pandava nel Mahabharata. A volte, addirittura, come nel caso dei Nayar del Malabar indiano o dei Na dello Yunnan cinese, la società è organizzata su famiglie consanguinee di fratelli e sorelle che convivono e cooperano non solo economicamente, ma anche nell´allevamento e nell´educazione dei figli che le donne concepiscono in rapporti sessuali occasionali: il che dimostra che la famiglia procreativa è compatibile con l´assenza sia di coniugi che di genitori (in Occidente l´analogo più vicino è forse quello dei bambini adottati da individui singoli, ma ci sono anche esempi di famiglie consanguinee che vanno dalla natolocalità galizia alla famiglia mezzadrile toscana).
Insomma, a chi tiene gli occhi aperti, o anche solo socchiusi, l´antropologia mostra che «paese che vai, famiglia che trovi». E´ solo chi tiene gli occhi ben chiusi che può illudersi che le proprie usanze siano «naturali», e quelle degli altri «contro natura». Soprattutto se non vede che il matrimonio non richiede la procreazione, come dimostrano gli sposalizi tra bambini, diffusi dalla Siberia alla Nuova Guinea all´America del Sud, o i matrimoni vicari in cui si affida la procreazione a qualcuno che non è il coniuge istituzionale, praticati dai Nuer del Sudan. O se non vede che l´omosessualità non è contro natura, come dimostrano non solo gli atteggiamenti di Greci e Romani, ma soprattutto il fatto che essa sia praticata in natura, appunto, da centinaia di specie animali in un´impressionante molteplicità di forme.
Ironicamente, volendo descrivere la sua memorabile osservazione che non c´è niente di comune fra i vari usi di una parola, il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche non trovò di meglio di notare che fra essi c´è solo una «somiglianza di famiglia», appunto.

venerdì 30 maggio 2008

«L’addio naturale invece dell’agonia»

«L’addio naturale invece dell’agonia»

Corriere della Sera del 30 maggio 2008, pag. 23

di Mario Pappagallo

«E’ la conferma che non occorre una legge per applicare le volontà di una persona riguardo alla scelta di una morte naturale rispetto ad un’agonia prolungata attaccati a dei macchinari. In fin dei conti il testamento biologico da me portato avanti è proprio in questa linea: decidere fin quando si è lucidi e coscienti che cosa i medici devono fare, dirlo a un notaio e delegare chi deve far rispettare la volontà nel caso di incoscienza».



Il senatore Umberto Veronesi, da chirurgo oncologo è da anni che porta avanti la battaglia affinché il testamento biologico sia accettato in Italia. Con la Fondazione che porta il suo nome è promotore di libri e iniziative verso questa linea. E ora plaude alla scelta attuata a Modena.



Ma c’è chi vorrebbe una legge?

«Non serve. Un medico è deontologicamente chiamato a rispettare la volontà di un paziente, sia per quanto riguarda il consenso informato sia per quanto riguarda il non accanimento terapeutico. E sottolineo che tutte le religioni sono favorevoli alla morte naturale. Quindi, di fronte alla volontà espressa da un malato quando è ancora in grado di intendere e volere è come se si dovesse applicare il consenso informato rispetto all’essere per forza mantenuti in vita artificialmente, pur sapendo che non ci sono prospettive. In più dico che i fatti sconfiggono la politica: il caso di Modena apre una strada legittima mentre ancora in Parlamento si discute».



Un esempio di legge?

«Per esempio quella spagnola. E’ stata approvata di recente. Si chiama "testamento vidal", farà parte di un Registro Nazionale e i medici saranno tenuti per legge a rispettarlo. E molto significativo che il modulo del testamento si trovi sul sito web della Conferenza episcopale spagnola».



Senza limitazioni?

«Due: non si possono sollecitare trattamenti illegali, come l’eutanasia, o che vadano contro la buona pratica medica».



In Germania però, come in Italia, non c’è nessuna norma approvata dal Parlamento...

«Sì, ma a seguito dell’iniziativa popolare in due anni sono stati depositati 7 milioni di testamenti biologici. E si applicano».

«Il dovere alla vita non c'è a Modena seguita la legge»

«Il dovere alla vita non c'è a Modena seguita la legge»

Liberazione del 30 maggio 2008, pag. 6

di Davide Varì
Due notizie squarciano il silenzio che incombe sui temi etici in questo inizio di legislatura. La prima arriva da Modena dove il marito di una donna in coma - in qualità di "amministrazione di sostegno" - ha deciso di evitarle una vita imprigionata dentro un polmone d'acciaio facendo rispettare la sua volontà: la volontà di morire senza inutili sofferenze.
Non si tratta del primo caso di testamento biologico in Italia ma, in ogni caso, di un'importante successo sul piano del diritto alla vita inteso come diritto di disporre della propria esistenza.
L'altra notizia, di segno opposto, arriva dall'Ospedale Bambin Gesù di Roma dove un neonato è stato sottratto alla patria potestà dei genitori per garantirgli le «cure necessarie». Il neonato, affetto dalla sindrome di Potter, per stessa ammissione dei medici non ha alcuna possibilità di sopravvivere. Ciononostante ai genitori, indecisi se sottoporlo ad un «calvario di terapie in una vita d'inferno», il Tribunale ha tolto la patria potestà.
Chiara Lalli, bioeticista dell'Università di Roma, parla di «diritto alla vita, come diritto assoluto della persona di decidere del proprio destino». E nel caso del neonato, dove questo diritto è affidato ai genitori, la linea da seguire dovrebbe essere quella di «garantire al bambino inutili sofferenze, inutili torture».

Professoressa Lalli, per la prima volta in Italia è stato rispettato il diritto di una persona a interrompere la propria esistenza segnata da una malattia devastante. D'altra parte, il Tribunale di Roma ha tolto la patria potestà ad una coppia di genitori per garantire il diritto di cura ad un neonato che non ha alcuna possibilità di sopravvivere...
Sono due notizie molto diverse tra loro. Nel primo caso, nel caso della donna, è stato messo in crisi il valore assoluto dell'obbligo alla vita. E' stata rispettata la volontà del paziente sulla base di vari di codici normativi in cui c'è scritto a chiare lettere che non si può costringere nessuno a trattamenti sanitari. E' stata accertata la volontà della signora grazie alla figura dell'amministratore di sostegno, in questo caso il marito, che ha garantito il diritto della moglie.

E nel caso del bambino?
Nel caso del neonato, ovviamente, non c'è alcuna possibilità di consenso diretto. Sono i genitori che decidono per il figlio. Il fatto è che questo diritto è stato tolto loro. Su quale base? C'è una ragione medica oggettiva? A quanto pare no, sembra proprio che la malattia di quel bambino non dia alcuna speranza. Nel caso in cui la patologia sia fonte di sofferenze inutili è ragionevole e umano pensare che il dovere dei genitori e dei medici sia quello di assisterlo e accompagnarlo verso il suo ineluttabile destino. Voglio dire che è inutile torturare un bambino. E' inutile fargli passare mesi di inferno. Se fosse una malattia meno grave, che garantisse un'esistenza degna e serena il discorso, ovviamente, sarebbe diverso. Ma in questo caso par di capire che l'unica certezza è la sofferenza delle cure.

Forse il punto di contatto tra le due vicende sta proprio qui: garantire a entrambi un sostegno adeguato...
Certo, non c'è nessuna ragione di prolungare le sofferenze, sofferenze spesso terribili, senza il consenso dei diretti interessati. Il vero aiuto medico sta quindi nella gestione di questa sofferenza e non nell'accanimento. E in questo senso il segnale che arriva da Modena è una conquista molto importante. Una donna è stata sottratta a terapie dolorose e inutili grazie alla legittimazione dell'amministratore di sostegno, una persona indicata dal malato che ha il diritto dovere di far rispettare le sue volontà.

Eppure in Italia non c'è nessuna legge sul testamento biologico, come è stato possibile arrivare a questo risultato?
Come è noto la norma sul testamento biologico è ferma da anni. In questo caso è stata "sfruttata" una legge del 2004 la quale prevede che le scelte individuali possono essere rispettare attraverso l'individuazione di un amministratore di sostegno (art. 408 C.C.), che può essere designato dallo stesso interessato in previsione della propria futura incapacità.

Una vittoria?
Una vittoria nel senso che è stata evitata l'imposizione di una sopravvivenza dentro un polmone d'acciaio. Se una persona non vuole passare il resto dei suoi giorni dentro una macchina, lo Stato ha il dovere di rispettare la sua volontà, il suo progetto di vita. Imporre ad altri il valore assoluto della vita è un sopruso. Solo la persona, l'individuo proprietario della propria vita può stabilire se la sua esistenza è degna di essere vissuta oppure no.

Le interferenze della Chiesa e le debolezze dello Stato

Le interferenze della Chiesa e le debolezze dello Stato

Il Gazzettino del 30 maggio 2008, pag. 14

di Massimo Fini

Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, cioè dei vescovi italiani, all’apertura dell’assemblea annuale di questo consesso, ha indicato, sia pur nel linguaggio curiale che gli si conviene, la priorità dell’agenda politica del governo Berlusconi, l’emergenza rifiuti, "l’aiuto a chi ha perso potere d’acquisto", le questioni della sicurezza e degli immigrati, ha attaccato - qui senza troppe perifrasi - le linee-guida della legge 140 che consente l’indagine pre-impianto sugli embrioni nella fecondazione assistita e ha infine auspicato "un’operosa stabilità politica alla quale contribuiscono maggioranza e opposizione".



"Ma di Gesù Cristo ha parlato?" ha commentato sarcasticamente il filosofo Massimo Cacciari, che pur non è un laico trinariciuto, ma anzi molto attento alle tematiche religiose (sono noti i suoi studi sull’angelismo). Ed Emma Bonino ha constatato: "Non conosco Paese al mondo in cui si alza un vescovo e dà indicazioni su qualsiasi cosa, neanche fosse un altro governo ombra". Difficile darle torto. Stiamo diventando una repubblica teocratica o quantomeno un Paese dove le autorità religiose si affiancano a quelle di governo non solo sulle questioni etiche ma anche su quelle politiche. Non è detto che ciò sia di per sé un male. In fondo tutto il medioevo europeo si è basato sui precetti della Chiesa, sia in campo etico che sociale, economico e politico, che poi venivano recepiti dagli statuti civili. E si deve alla generosa, e per molti secoli vittoriosa, battaglia degli scolastici, di Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Nicola Oresme, Giovanni Buridano, Gabriel Biel, Molina, De Lugo, contro non solo l’usura (come oggi si fa credere) ma contro l’interesse in quanto tale (con un’argomentazione sottile: il tempo è di Dio, e quindi di tutti, e non può essere oggetto di mercato) e per "il giusto prezzo", se quel mondo rimase meno sperequato di quello attuale governato, dopo l’esplosione della Rivoluzione industriale, dal dominio dell’economia, del mercato, della "libera intrapresa".



Ma l’Italia di oggi non è più una semiteocrazia come ai tempi del medioevo. È una democrazia liberale. E uno dei fondamenti della liberaldemocrazia è la rigida separazione dei poteri fra Stato e Chiesa ("Libera Chiesa in libero Stato" aveva sintetizzato Cavour). Come sarebbe inammissibile che un ministro italiano mettesse in discussione il dogma della verginità della Madonna, altrettanto inammissibile è che i rappresentanti della Chiesa indichino a quelli dello Stato ciò che devono o non devono fare. Oltretutto questa confusione di ruoli non giova né allo Stato né alla Chiesa. Non giova allo Stato perché deve operare in un contesto internazionale, cui è strettamente legato, che ha esigenze diverse da quelle della Chiesa, non giova alla Chiesa perché a furia di occuparsi delle cose del mondo ha finito per mettere in secondo piano (come notava Cacciari) le ragioni istituzionali, diciamo così, del suo esistere, perdendo in credibilità come è dimostrato dalla crisi verticale delle vocazioni e, più in generale, dal processo di desacralizzazione che colpisce l’intero mondo occidentale.



Infine assistiamo a un curioso paradosso. Mentre l’Occidente (perché il fenomeno non riguarda solo l’Italia, si pensi ai teodem americani) contraddicendo se stesso tende a diventare teocratico o semitecocratico per motivi politici che nulla hanno a che fare col sacro (nel medioevo avveniva esattamente il contrario), nello stesso tempo muove una battagli feroce quei Paesi (vedi l’Afghanistan talevano, vedi l’Iran) che sono coerentemente teocratici perché la legge del Corano è la legge dello Stato. Noi dobbiamo deciderci. O siamo laici, con tutti i prezzi - per esempio sull’istituto familiare che si devono pagare. 0 siamo teocratici, con altri e diversi prezzi che pur si devono pagare. Ma non possiamo essere tutte e due le cose insieme. E soprattutto dobbiamo smetterla di andare a bombardare, ideologicamente e materialmente, le Istituzioni altrui, quando, con tutta evidenza, non siamo più tanto convinti delle nostre.

Se la politica invoca dio. La crisi della società secolare

La Repubblica 30.5.08
Se la politica invoca dio. La crisi della società secolare
La lezione di Gustavo Zagrebelsky a Bologna

Secondo alcuni sarebbe finito il movimento storico che in cinque secoli ha portato l’Occidente a distinguere Stato e religione: ma è un problema tutto da discutere
Il clericalismo ateo è la forma odierna di una duplice corruzione
La Rivoluzione francese fu considerata opera del demonio fuor di metafora

Pubblichiamo alcune parti della lezione di per la serie "Elogio della politica" diretta da Ivano Dionigi

Le discussioni sul rapporto religione politica, non solo in Italia ma in generale nel mondo, sono contrassegnate da un atteggiamento che si potrebbe definire, con una contradictio in adiecto, come sociologia normativa. Si procede dalla descrizione delle condizioni de facto della società (sociologia) e da questa descrizione si ricavano conseguenze de iure (norme): da quello che succede a quello che è giusto che succeda.
Si constata un intreccio crescente tra poteri pubblici e autorità religiose. Il primo chiede sostegno alle seconde e le seconde al primo, ciascuno per la propria utilità. I rispettivi confini si fanno evanescenti. La politica manifestamente cerca l´appoggio della religione e la religione l´appoggio della politica. La "secolarizzazione", il movimento storico che in cinque secoli ha portato l´Occidente a distinguere tra politica e religione e a fondare lo Stato su ragioni immanenti, non teologiche, sarebbe alla fine. Saremmo entrati cioè nell´epoca della "post-secolarizzazione". La ragione di questo rinnovato intreccio starebbe nel fallimento della pretesa della "ragione secolare" di fondare il governo dell´esistenza, la comprensione del suo significato e la sua salvaguardia su forze morali e scientifiche proprie, cioè esclusivamente umane. Questo fallimento dimostrerebbe l´insensatezza di quella pretesa. La parabola storica che, dall´umanesimo, cioè dalla centralità e signoria dell´essere umano nell´universo, ha condotto alla sovranità popolare si starebbe per concludere con un tracollo.
A distanza di due secoli, dovremmo riconoscere che avevano ragione i critici della Rivoluzione, la rivoluzione che aveva preteso di rovesciare la base del potere, dalla grazia di Dio alla volontà popolare, e per questo fu considerata, non per metafora, opera del demonio. Da ciò deriverebbe la necessità di orientare di nuovo la vita politica al trascendente, tramite un rinnovato "appello al cielo". Dio e ciò che su Dio si appoggia nella storia, cioè religione e apparati chiesastici, siano chiamati, come deus ex machina, a superare l´impasse in cui, per il nostro orgoglio smisurato, ci saremmo cacciati. Da qui, la necessità di rivedere l´idea tramandata di laicità che abbiamo recepito dal passato e di adeguarla (ecco la "nuova laicità" di cui si parla) alle odierne condizioni delle nostre società.
Questo modo di ragionare è un insieme di proposizioni indimostrabili e contestabili e che non si legano affatto l´una all´altra. È cioè una serie di aporie che nascondono, nel migliore dei casi, salti logici e auto-illusioni; nel peggiore, inganni.
(a) Innanzitutto, questi argomenti ci trasportano in un´atmosfera che, a considerarla dappresso, appare intrisa di un certo spirito apocalittico e messianico. «Ormai solo un dio ci può salvare», è l´esclamazione di Martin Heidegger, entrata ormai nel nostro comune modo di pensare. Questa speranza è solo un modo per esprimere un atteggiamento nichilistico, cioè la rassegnazione di fronte a ciò che si ritiene inevitabile. Chi potrà mettere un freno all´effetto-serra? Un dio o l´applicazione del trattato di Kyoto sulle emissioni di gas nell´atmosfera? Chi potrà arrestare lo sfruttamento delle risorse agricole dei popoli del terzo e quarto mondo? Un dio o una politica adeguata del WTO?
(b) Se non "un dio", potrebbe essere "il Dio" di una religione positiva questo deus ex machina capace di proteggerci dallo sviluppo incontrollato della tecnica e dalle sue tendenze sociali distruttrici, ancorando la nostra visione del mondo a un principio d´ordine metafisico, sottratto al nostro arbitrio? La risposta positiva a questa domanda sembra ovvia. Dio è la fonte di atteggiamenti religiosi che coincidono con il riconoscimento dell´esistenza di un limite a protezione del sacro, sottratto a manipolazioni profane. La coscienza del sacro darebbe origine a quella forza interiore di governo delle pulsioni distruttrici, che è beneficamente orientata alla coesione sociale e ai comportamenti altruistici.
Ma è davvero così ovvio? Non mi pare. La storia insegna che il "sacro", come le religioni, sono un immenso deposito di forza. Ma è una forza ambigua, che può orientarsi a fini opposti, benefici o malefici; verso l´amore del prossimo o l´odio e l´oppressione del diverso; per la pace ma anche per la guerra; per la comprensione ma anche per l´incomprensione reciproca; per atteggiamenti modesti e moderati, ma anche arroganti e superbi; per il rispetto del creato ma anche per il suo sfruttamento intensivo.
(c) Se non a Dio, in generale, forse al Dio cristiano, di cui ci ha parlato Gesù di Nazareth, potremmo forse rivolgerci? Ricordo il senso in cui formuliamo questa domanda: lo scopo è di trovarvi una forza per il governo della società, cioè rivolgerci al cristianesimo come a una "religione civile". Davvero possiamo noi stravolgere l´insegnamento evangelico fino a farne qualcosa di simile a un manuale per il buon cittadino? Davvero possiamo trasformare Gesù di Nazareth, che, nel deserto, respinse la tentazione diabolica del potere, che fuggì sul monte quando lo si voleva proclamare re, che di fronte alla morte, non propose a Pilato un compromesso di comune utilità ma rivendicò una regalità di tutt´altra natura; davvero possiamo trasformarlo in maestro di virtù civili? La domanda suona di per se stessa assurda, ma lo è di meno se si considerano le resistenze che la gerarchia ecclesiastica, di recente per esempio in Spagna, ha opposto all´introduzione nella scuola di attività laiche di educazione alla cittadinanza, per riservare a sé, cioè alla dottrina cattolica, questa funzione. Il celebre passo di Paolo (Rom 13, 1-2): «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c´è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi, chi si oppone all´autorità, si oppone all´ordine stabilito da Dio», non sembra giustificare il commento della Bibbia di Gerusalemme: «In questo modo la religione cristiana penetra, oltre che la vita morale, la stessa vita civile». Il dovere incondizionato di obbedienza dei cristiani, infatti, non autorizza affatto a dire che la fede in Cristo si confonde (penetra) nel potere civile e così contribuisce a legittimarlo. Sembra significare, in certo modo, il contrario: obbedite comunque, fino a sopportare la persecuzione, in modo da potervi dedicare integralmente alle opere e alla testimonianza della fede. Solo quando l´ordine di Cesare contraddice la parola del Cristo, rendendo impossibile il suo ascolto, allora occorre obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini (Atti, 5, 29).
Da nessuna parte, pare, si autorizza l´uso della fede cristiana per rafforzare - come anche d´altra parte per indebolire - l´autorità del potere civile. I cristiani «risiedono ciascuno nella propria patria, ma come stranieri»; «partecipano a tutti gli oneri pubblici, [non come cristiani, ma] come cittadini». La distinzione, che così chiaramente è posta nella Lettera a Diogneto, equivale a condannare ogni uso civile della religione cristiana. E, invece, nelle alte sfere ecclesiastiche, è stata accolta con soddisfazione, quasi come un meritato riconoscimento e non come un affronto, come ci si sarebbe aspettati, l´affermazione recente di un Capo di Stato che dà atto che per un governante è buona cosa avere a che fare con cristiani timorati di Dio, dove il timor di Dio si traduce in speciale fedeltà e malleabilità politiche; dove la "buona Novella" diventa instrumentum regni.
D´altro canto, si può comprendere che l´autorità politica abbia interesse ad assicurarsi l´appoggio della religione. E si comprende ch´essa, per raggiungere lo scopo, sia disposta a concederle i più larghi privilegi, simbolici e materiali. La "ragion di Stato" lo consiglia e il governante accorto non si lascerà sfuggire l´occasione: «Tra tutte le leggi non ve n´è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de´ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri», diceva Giovanni Botero (Della Ragion di Stato, 1589, libro II, «Modi di propagar la religione»). In tal modo, però, sarà lo Stato a "penetrare" nella religione e la Chiesa, accarezzata nei suoi bisogni materiali e blandita nel suo desiderio di onori e ricchezze, perderà la sua libertà. Così come la perderà lo Stato, in cambio dell´appoggio della Chiesa. Il clericalismo ateo è la forma odierna di questa duplice corruzione, alla quale concorre il tangibile interesse tanto della parte ecclesiastica quanto di quella civile.

Testamento biologico, il messaggio di Modena

l’Unità 30.5.08
Testamento biologico, il messaggio di Modena
di Gilda Ferrando

Anche le date contano. A distanza di 30 anni da quel 13 maggio 1978 in cui venne approvata la legge Basaglia, il 13 maggio 2008 il Giudice tutelare del Tribunale di Modena emana un decreto che costituisce un altro importante passo nel riconoscimento dei diritti e delle libertà della persona. C’è un filo rosso che unisce la legge di allora al provvedimento di oggi, attraverso altre decisioni importanti, come i casi Englaro e Welby.
Il decreto di Modena - va chiarito subito - non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, vale a dire con la richiesta da parte di un malato senza speranza, afflitto da intollerabili sofferenze, di porre fine alla propria vita mediante la somministrazione di un farmaco letale.
Riguarda invece il diritto del malato di rifiutare trattamenti medici, riguarda i modi in cui garantire questo diritto quando il paziente non sia più in grado di esprimere la propria volontà.
La signora Vincenza, affetta da Sclerosi laterale Amiotrofica (Sla), ormai in condizione di grave insufficienza respiratoria, manifesta al marito, ai suoi quattro figli adulti e ai medici la propria volontà di non essere sottoposta a trattamenti di rianimazione invasivi, compresa la tracheostomia. Il fatto è che il sopraggiungere di una crisi respiratoria grave determina una perdita della coscienza dovuta all’insufficiente afflusso di ossigeno al cervello. È dunque necessario che ci sia qualcuno per dar voce al paziente che non è più in grado di farlo personalmente.
Ci sono differenze tra questo e i casi analoghi che lo hanno preceduto. Rispetto al caso Welby si chiede al medico di non attaccare il respiratore, non di spegnerlo. Rispetto al caso della signora Maria - la paziente diabetica che rifiutò l’amputazione dell’arto - la volontà deve essere fatta valere dopo la perdita della coscienza. Rispetto al caso Englaro - la giovane donna in stato vegetativo permanente - è stato espresso un rifiuto esplicito e formale prima della perdita di coscienza. Pur nella varietà dei casi, in tutti è stato riconosciuto il diritto di rifiutare le cure o di interromperle.
La decisione del giudice tutelare di Modena si inscrive pienamente nel quadro di principi e regole previsti dal nostro ordinamento.
Quanto ai principi, dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione si evince chiaramente che nessun trattamento medico può essere effettuato senza e, a maggior ragione, contro il consenso del paziente. Anche la Carta di Nizza, ora parte del Trattato europeo firmato a Lisbona, impone in modo esplicito il rispetto del «consenso libero e informato della persona interessata» (art. 3). Nell’ottobre scorso la Corte di Cassazione ha fatto applicazione di questi principi nel caso Englaro. In quell’occasione la Corte chiarì che il paziente cosciente e consapevole può legittimamente rifiutare anche un trattamento di sostegno vitale. Si tratta di un diritto fondamentale della persona, espressione di quella inviolabilità fisica che costituisce il nucleo essenziale della libertà personale. Un diritto, dunque, che deve essere garantito incondizionatamente e contro il quale non vale invocare né lo “stato di necessità” - al quale il medico può appellarsi, ma solo in situazioni d’urgenza, e se il paziente è incosciente - né un dovere di curarsi che può talvolta farsi valere sul piano dell’etica, ma non su quello del diritto.
Quanto agli strumenti per dare attuazione a questo diritto fondamentale, nel 2004 è stata introdotta nel nostro ordinamento una nuova figura di protezione dei soggetti deboli, l’amministratore di sostegno, che ha la funzione di assistere ogni «persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi». Si tratta di una risposta, sul piano degli istituti civilistici, alla nuova attenzione che il diritto riserva alle situazioni di debolezza e fragilità e che ha avuto nella legge Basaglia uno dei suoi momenti più alti.
Rispetto al vecchio modello dell’interdizione, l’amministrazione di sostegno intende garantire un maggior rispetto dell’autonomia del disabile ed una maggior attenzione ai profili di cura dei suoi interessi personali. Coerente con questa impostazione è la possibilità che la designazione della persona cui affidare l’incarico sia effettuata dallo stesso interessato «in previsione della propria eventuale futura incapacità».
La legge non lo dice espressamente, ma appare coerente con il suo impianto complessivo ritenere che a questa persona di fiducia il malato possa dare anche direttive anticipate sulle decisioni che più gli stanno a cuore, specie quelle in materia sanitaria. È quanto afferma il giudice tutelare di Modena, nel nominare amministratore di sostegno il marito della donna con lo specifico compito di dare attuazione alla volontà «lucidamente e inequivocabilmente espressa dall'interessata», che non le venga praticata la ventilazione forzata e la tracheostomia «all’atto in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della persona, l’evolversi della malattia imponesse la specifica terapia salvifica».
Questo provvedimento dimostra, una volta di più, che già esistono nel nostro sistema gli strumenti per dare attuazione ai diritti fondamentali della persona. Il fatto che il Parlamento non riesca a fare (buone) leggi sui temi “eticamente sensibili” non impedisce ai giudici di utilizzare le risorse già disponibili. Una legge, se verrà approvata, potrà disciplinare in modo più analitico le direttive anticipate, ma, questo è il messaggio importante che ci viene da Modena, già oggi ciascuno di noi è un po’ più libero, un po’ più padrone di se stesso.
Università di Genova Consulta di Bioetica

«Testamento biologico, fateci scegliere come morire»

l’Unità 30.5.08
Il Vaticano: è omicidio
«Testamento biologico, fateci scegliere come morire»
Tam tam dei malati dopo la donna che ha rifiutato le cure grazie a una norma del 2004
di Anna Tarquini

IL CASO DI MODENA? «Non ci sono dubbi, è omicidio». È una condanna senza appello quella del cardinale Barragan, ministro vaticano della Salute. «Non c’è
nessuna legge italiana che prevede l’applicazione del testamento biologico. Se una persona decide di togliersi la vita compie un suicidio, se lo fa per un’altra persona commette un omicidio». E Barragan non è il solo a condannare. Anche le parlamentari teodem Baio e Binetti protestano per la decisione della magistratura di accogliere la scelta di Vincenza Santoro Galano. «Se c’era già questa norma è stato del tutto inutile - osservano Baio e Binetti - che il Senato abbia affrontato la questione del testamento biologico per ben due anni. Da parte nostra ribadiamo che deve esistere il rispetto della volontà del paziente ma lo Stato non può arrogarsi il diritto di interrompere la vita. Il nostro è un no fermo ad ogni tentativo di eutanasia e proporremo che sia stabilita un’interpretazione autentica della legge del 2004».
Un vespaio. Il giorno dopo, il caso della signora di Modena che ha ottenuto per legge di morire in pace divide politici e medici. Non i malati che numerosi lasciano un commento sul sito dell’associazione Coscioni. Elisabetta: «Sento di aver ritrovato il MIO presente, pensando al mio futuro...». O come Jeffrey che vuole solo sapere dove può leggere il decreto Stanzani, dal nome del giudice che ha reso possibile una prima applicazione di testamento biologico in Italia. Ci sono poi le parole di Nicasio Galano, il marito della signora Vincenza, l’ammalata di Sla che ha chiesto e ottenuto dal giudice di non essere intubata. Lui è il famoso «Amministratore di sostegno», cioè il tutore nominato per legge con il dovere di far rispettare le volontà dell’ammalata anche contro quelle dei medici. Nicasio Galano che è vedovo da meno di 24 ore dice: «Ora mia moglie è più serena. È stato accolto il suo desiderio di dignità. Alla nostra famiglia, che è credente, la decisione è parsa normale, visto il suo stato».
Questi sono i malati, dall’altra parte ci sono gli altri. I medici, i politici. Contrario il senatore Ignazio Marino relatore di una proposta di legge sul testamento biologico: «C’è una grande differenza tra un singolo caso come questo e una legge organica che permetta di accompagnare ed assistere una persona fino agli ultimi istanti della sua vita - afferma Marino - serve una legge che non porti nei tribunali la cura della persona affidando al giudizio di un singolo magistrato». Secondo l’ordine dei chirurghi «il caso di Modena non rientra affatto nel testamento biologico». È vero, ma solo in parte. Perché la signora Vincenza ha chiesto e ottenuto di non essere intubata, e chiesto e ottenuto un tutor che garantisse le sue volontà, nel momento di passaggio, quando si perde il fiato e si muore (non si è coscienti o capaci di esprimersi dunque) e il medico ha il dovere di intervenire. E perché la legge che ha scardinato il sistema dice che il tutor interviene a far rispettare le volontà nel momento e per il tempo dell’incapacità di intendere e di volere della persona.
Per questo certa politica ieri ha gridato allo scandalo. Come Isabella Bertolini (Pdl) che sul caso di Modeno ieri commentava: «È un pericoloso esempio». Spiegava Mina Welby: «Il caso di Modena sarà apripista per molti malati. E potrebbe anche aiutare a risolvere la vicenda della povera Eluana Englaro. Mi è capitato di incontrare una dottoressa che ha aiutato a morire una donna che non voleva essere tracheotomizzata. Mi disse che l’aveva addormentata perché non sentisse il soffocamento ma poi mi confessò di non sentirsi a posto con la coscienza. Ebbene, massimo rispetto per tutte quelle persone che nonostante gravi malattie vogliono continuare a vivere, ma quando una persona dice basta, il medico deve aiutare fino in fondo».

giovedì 29 maggio 2008

Il testamento biologico? In Italia è legge da 4 anni

l’Unità 29.5.08
Il testamento biologico? In Italia è legge da 4 anni
Vincenza è la prima ad averne ottenuto il riconoscimento
L’ha scoperto un giudice di Modena: una norma nata per i matti
Applicato a Modena per una donna in base a una norma del 2004
di Anna Tarquini

Vincenza Santoro è la prima donna in Italia ad aver ottenuto da un magistrato il permesso di morire quando avrebbe deciso lei. Non di eutanasia, ma con modi e tempi regolati da un testamento biologico legalmente riconosciuto. Vincenza, ammalata di Sla, se n’è andata ieri così come voleva e lasciando a tutti i «Welby» un regalo immenso perché grazie a lei si è scoperto che il testamento biologico, in Italia, già c’è da 4 anni e non c’è bisogno di nessuna nuova normativa. È la legge di Paolo Cendon un vecchio avvocato civilista amico di Basaglia. La legge Cendon è in Gazzetta Ufficiale dal 19 gennaio 2004 e istituisce una nuova figura di tutore per i malati di mente, gli incapaci temporanei e anche quelli che nel pieno delle loro facoltà sanno che diventeranno incapaci. Nessuno aveva mai pensato di applicarla al testamento biologico. Fino a ieri.

NON PENSAVA certo al testamento biologico l’avvocato Cendon quando decise che bisognava ampliare le figure del tutore e del curatore. Era il 1986, era passata la legge Basaglia, i manicomi si apprestavano a chiudere e si doveva pensare a qualcuno, in fret-
ta. Una figura giuridica che avesse autorità e cura dei malati, ma non l’imperio di dire solo no a matrimoni e soldi. Ci voleva qualcuno che per legge, per ordine di un giudice tutelare, avesse il dovere di cura anche della persona e non solo dei beni. Che potesse prendere ordini dalla persona, quando era capace di intendere e di volere, per poi essere obbligato ad eseguirli. Le cose si sa non arrivano da sole, come una lampadina che si accende all’improvviso. Cendon studiò e scoprì che in Belgio, ma prima ancora in Francia, esisteva una figura chiamata Amministratore di sostegno già dal 1968. Cosa faceva l’Amministratore di sostegno? Tutelava, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente. Vent’anni dopo, il 6 gennaio del 2004, il Senato licenziò le nuove regole. Finalità della legge: «Che la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio».
Vincenza Santoro, nata a Modena, un marito e quattro figli grandi non conosceva queste norme, ma il suo avvocato M. Grazia Scacchetti sì. E pure il giudice Guido Stanzani e la dottoressa Cinzia Zanoli responsabile dell’ufficio tutele della Usl di Modena che per la prima volta - grazie alla legge per i matti - hanno aperto la strada al testamento biologico. Ricoverata all’ospedale Sant’Agostino perché oramai aveva gravi crisi respiratorie, Vincenza Santoro ha chiesto al giudice di poter rifiutare la tracheotomia. La stessa cosa che chiese a suo tempo anche Coscioni ma che non ottenne perché, quando si arriva a quello stadio, il diritto del paziente al rifiuto delle cure si scontra con il dovere del medico a rianimare. Il 13 maggio scorso il giudice tutelare ha risposto che aveva ragione nominando Amministratore di sostegno suo marito, Benito Galano. Una nomina vincolante. Prescrive il decreto: «L'Amministratore di sostegno viene autorizzato a compiere, in nome e per conto della beneficiaria, le seguenti operazioni: negazione di consenso ai sanitari coinvolti a praticare ventilazione forzata e tracheostomia all'atto in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della persona, l'evolversi della malattia imponesse, la specifica terapia salvifica». E il giudice motiva anche la sua decisione che in sintesi dice: ... premesso che le norme costituzionali non sono negoziabili; che ormai è precluso al medico di eseguire trattamenti sanitari senza che si dia quel consenso libero e informato del paziente; si tratta di un diritto, come la Cassazione ha lucidamente precisato, che è e resta assoluto... Non è improprio osservare, di fronte all'utilizzo così confuso e improprio del termine eutanasia nell'attuale dibattito italiano, che nessuno dei vari casi su cui oggi si controverte è riferibile a quella fattispecie mentre rientrano, all'opposto, nel diritto di autodeterminazione della persona. E conclude «ne deriva l'assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e disciplinare il testamento biologico. Già esistono, infatti, il diritto sostanziale, lo strumento a mezzo del quale dare espressione alle proprie volontà (l'atto pubblico o la scrittura privata autenticata) e, infine, l'istituto processuale di cui avvalersi (l'Amministrazione di sostegno, legge n. 6 del 2004).

mercoledì 28 maggio 2008

"Ma il medico che non obietta è sempre più solo"

La Repubblica Firenze 28.5.08
"Ma il medico che non obietta è sempre più solo"
di Ilaria Ciuti

Ti sfili dalla legge se non sei motivato: è un lavoro ripetitivo che non aiuta a fare carriera
Conosco medici che dopo aver fatto interruzioni hanno deciso di cambiare l´opzione
"I dottori appena laureati hanno paura di complicazioni legali"

«SE non sei motivato ti sfili dalla 194. E´ una legge, dovresti rispettarla, ma puoi dichiarare l´obiezione. Può esserci un motivo serio, ma l´esperienza mi insegna che nella stragrande maggioranza dei casi, anche per quel 60% dei ginecologi toscani che sono obiettori, non c´è». Ne è convinta Valeria Dubini, ginecologa a Torregalli, una volta la settimana impegnata nelle interruzioni volontarie di gravidanza secondo una legge che ha appena compiuto 30 anni e con la quale lei lavora fin quasi dagli inizi, dall´82.
Cosa vuol dire che gli obiettori non hanno motivi seri?
«Che nella crescita dell´obiezione non c´entrano motivi religiosi o etici. Non c´è neanche chi maledice l´aborto stile Ferrara. In genere è una scelta di convenienza. Prima di tutto i giovani. I giovani sono sempre più spesso obiettori per la paura di quelle complicazioni medico-legali che ormai stanno inducendo i medici a non fare più niente. Temono di venire denunciati per qualsiasi complicazione, se per esempio, come è successo, la gravidanza va avanti nonostante l´intervento. Ma non è il solo motivo. Ai miei tempi il mio primario era un convinto sostenitore della 194. Oggi i primari sono in genere obiettori. Le interruzioni di gravidanza, se uno non è motivato, sono un lavoro ripetitivo che non aiuta a fare carriera, che distoglie, anche un solo giorno la settimana, dall´operare, dal farsi una clientela affezionata. In un´epoca dove l´ideologia non regge più, tutte queste cose contano».
E allora chi non obietta?
«Chi non obietta è sempre più solo. Quando iniziammo c´era intorno il movimento delle donne, un fermento. Oggi siamo soli. Credo che quello che spinge a continuare, e che anzi non mi ha mai fatto venire un dubbio, è che non contano tanto le tue convinzioni ma che devi avere rispetto delle decisioni degli altri. Chi ha conosciuto le donne che vengono ad abortire sa bene che non ci sono motivi facilmente spiegabili, che non è la povertà, come si dice, a indurle. Tranne alcuni casi, specie le badanti straniere, che abortiscono perché temono di perdere il lavoro, le donne vengono da noi con dentro una determinazione, un´urgenza quasi fisica, come se quel figlio non è che non lo vogliano fare, ma proprio non possano. Capisci che non c´è bisogno di un giudizio, ma di accoglienza. Che dobbiamo farci carico di un problema risolto in passato con gli aborti clandestini, le morti , i cucchiai d´oro. Un problema che spesso nasce per le donne da mancanza di autoprotettività e che porta i medici a avere a che fare con gli ultimi, anzi con le ultime. Un´altra ragione per fare obiezione».
Le ultime?
«Già, è più facile dire obietto che non aiutare una straniera al terzo o quarto aborto (tra le straniere la ripetitività è al 40% mentre tra le toscane è scesa dal 37 al 15%) che ha una cultura diversa, che non si autoprotegge. E´ più facile fare gli struzzi che capire quanto gli aborti ripetuti derivino da rapporti di coppia violenti. Ma se sei motivato capisci che quell´incontro è anche un´occasione per mettere quella donna sulla strada della contraccezione e dunque per combattere concretamente e non a parole contro l´aborto».
Pensa si debba lasciare stare la situazione come è o in qualche modo intervenire?
«Penso che la Toscana non penalizzi come accade in altre regioni chi non obietta ma neanche che valorizzi il suo lavoro. Credo che in questo senso dovrebbe fare di più».

Toscana, Aborto, record di obiettori

La Repubblica Firenze 28.5.08
Il numero è in aumento rispetto al 2005. Gli anestesisti obiettano solo al 30 per cento, le ostetriche al 35, gli infermieri al 20
Toscana, Aborto, record di obiettori
I medici contrari sono il 60%. A Careggi e a Lucca anche di più
di Michele Bocci

E´ record di medici che fanno obiezione di coscienza alla pratica dell´aborto. Rappresentano il 60% di quelli impiegati nelle strutture pubbliche di riferimento in Toscana. Sono addirittura di più a Careggi e Lucca. Il loro numero è in aumento rispetto al 2005. Di molto inferiore è invece il numero degli ostetrici che fanno obiezione di coscienza all´aborto - sono il 35% del totale rispetto a quelli impiegati - e ancor meno sono gli anestesisti (il 30%) e gli infermieri: di questi ultimi solo uno su cinque, ovvero il 20%, fa obiezione.

Fra le ostetriche e gli anestesisti invece la disponibilità è maggiore
Siamo una regione più "aperta" della media nazionale dove il fronte del "no" è del 70%

Interruzione volontaria di gravidanza, in Toscana aumentano i ginecologi obiettori: oggi sei specialisti su dieci non fanno gli interventi di aborto. I numeri comunicati pochi giorni fa da tutte le aziende sanitarie ed ospedaliere alla Regione, praticamente quando scadeva il trentennale della legge 194, approvata nel maggio 1978, segnano una netta crescita rispetto all´ultima rilevazione, che risale al 2005. Allora gli obiettori erano il 5-7% di meno. Un dato non preciso perché teneva conto di 10 asl su 16 e mancavano tra l´altro quella di Firenze e l´azienda ospedaliera di Pisa.
Oggi è disponibile una ricognizione completa, che conferma il trend di crescita nazionale, anche se il dato toscano è ancora sotto il 70% della media italiana, resa nota ad aprile dall´allora ministro alla sanità Livia Turco. I numeri toscani riguardano anche gli altri professionisti che hanno un ruolo nell´interruzione di gravidanza, cioè gli anestesisti, le ostetriche e gli infermieri. Salta agli occhi come l´obiezione sia molto più contenuta tra i medici che fanno gli aborti insieme ai ginecologi. Per gli anestesisti il dato è infatti fermo al 29% (contro il 28 del 2005): tra i componenti delle due categorie di specialisti sembrerebbero esserci differenze etiche e religiose molto forti. Le ostetriche e gli infermieri, che negli interventi di interruzione hanno un ruolo più marginale, segnano addirittura un calo degli obiettori dal 2005 (le prime dal 48 e al 35%, i secondi dal 24 al 19).
La ricognizione regionale prende in considerazione i dati azienda per azienda. Restando ai ginecologi, saltano agli occhi situazioni come quella di Lucca, dove dei 19 specialisti solo 2 sono non obiettori (molto sopra la media anche i dati delle ostetriche, 22 su 26, e degli infermieri, 21 su 32). «Riusciamo comunque ad assicurare l´attività di interruzione volontaria di gravidanza», spiega il primario, arrivato da Careggi un mese fa, Gian Luca Bracco. Non è escluso che qualche donna che vive in quella provincia debba spostarsi per fare l´intervento. Non molto diversa la situazione dell´azienda ospedaliera di Pisa, dove gli obiettori sono 27 su 32. Nel policlinico fiorentino cambia solo il totale di ginecologi in organico, 35, quello di obiettori è identico a Pisa. Per le asl con il minor numero percentuale di obiettori, ci sono Siena con 5 su 19, e Firenze con 19 su 44.
Nella nostra regione le interruzioni di gravidanza diminuiscono. Nel 2007 sono state il 6% in meno, cioè 520, delle 8879 del 2006. Il ricorso all´aborto scende tra le italiane, mentre tra le straniere aumenta dello 0,64%, perché cresce il numero delle donne immigrate. In questi anni sono calati anche gli aborti per feti malformati. Nel giro di due anni le coppie che hanno interrotto la gravidanza dopo aver scoperto che il figlio alla nascita avrebbe avuto bisogno di cure importanti sono passate dal 45% del totale al 13,7%. Merito, secondo la Regione, di diagnosi e cure migliorate.

Ruffolo: difendo la laicità dall’offensiva di destra e Chiesa

l’Unità 28.5.08
Ruffolo: difendo la laicità dall’offensiva di destra e Chiesa
di Maria Zegarelli

Il professor Giorgio Ruffolo non crede affatto che il tema introdotto da Massimo D’Alema qualche giorno fa a conclusione dei lavori della summer school della Fondazione Italianieuropei sia privo di attualità. Non crede affatto, cioè, che la Chiesa sia immune dalla «tentazione demoniaca del potere». Anzi.
Professore, è davvero «sorprendente l’uscita di Massimo D’Alema», come scrive Avvenire, o il tema esiste davvero?
«L’intervento di D’ Alema è apparso opportuno e apprezzabile almeno sotto due aspetti importanti: il primo di carattere generale, riguarda la necessità di elevare il dibattito politico dalla piattezza in cui è caduto al livello delle grandi questioni che contraddistinguono il nostro tempo. Il secondo, più specifico, è la sortita che non posso che definire coraggiosa - ormai bisogna dire così - a difesa del laicismo, contro cui è partita un’offensiva che io ritengo insidiosa e pericolosa».
Perché pericolosa?
«È pericolosa per la democrazia, della quale il laicismo è parte integrante. D’Alema denuncia le due minacce: quella di una destra che pretende di riaffermare la religione come affare di Stato, come dimostrano le posizioni in Francia di Sarkozy, e quella di una Chiesa che è esposta alla tentazione demoniaca del potere - che una volta si chiamava potere temporale -, che è stata per la Chiesa stessa madre di tanti misfatti. D’altra parte D’Alema riafferma la necessità del dialogo fra laici e cattolici, ma anche su questo bisogna stare attenti a cosa significa».
Un dialogo che potrebbe «sacrificare» i temi «caldi»?
«È proprio così. Il dialogo è il linguaggio della democrazia, nessuno lo contesta. Ma è ben altro se sotto questa parola si contrabbanda un’altra cosa, cioè la pretesa di un riconoscimento politico di un partito cattolico trasversale che è stata una opzione mai abbandonata, ma che la Democrazia cristiana respinse sempre con decisione. Questa pretesa è assolutamente irricevibile. Le decisioni politiche passano per le istituzioni della democrazia, guai se si dovesse fare spazio a una procedura informale parallela. Questo non è un dialogo, è un condizionamento e il condizionamento non può essere accettato da una democrazia».
Emma Bonino parla della Chiesa come di un «governo ombra». Esagerazioni radicali?
«Il governo ombra va bene per il dialogo tra opposizione e maggioranza, non per il governo della democrazia che deve averne uno stabilito e legittimato dal consenso elettorale».
La questione di cui stiamo parlando si allarga al rapporto tra ragione e fede. All’incontro organizzato da Italianieuropei ha partecipato anche Remo Bodei che ha fatto una relazione molto importante. Bisogna domandarsi se è possibile un dialogo tra la ragione e la fede. Non credo: il dialogo comporta la possibilità di soluzioni di compromesso, la fede non prevede alcun compromesso. O si crede o non si crede. L’unico modo di rispettarsi reciprocamente tra credenti e non credenti è di non dialogare sull’argomento. La discussione politica è sacrosanta ma non deve tener conto delle convinzioni religiose che sono indiscutibili individualmente, ma che sono politicamente irricevibili. E qui stanno le ragioni profonde alla base della questione laica e della offensiva che investe il laicismo».
Questione italiana o «la questione»?
«Il problema del confronto tra ragione e fede investe l’intero modo di vivere e pensare del nostro tempo. Mi sembra che Bodei abbia affrontato questo tema e D’Alema lo abbia ripreso nelle sue conclusioni: il ritorno della fede non è una pensata di Pera ma un dato incontrovertibile del presente. Questo ritorno della fede è il fallimento di quel progetto umano che era inscritto nel pensiero umano dell’Illuminismo e che intendeva dare un senso alla storia, qui in questo mondo. L’esasperazione di quel concetto, nel comunismo, non nel marxismo che è filosofia molto più complessa, lo ha sfigurato degenerandolo in totalitarismo. Ed è proprio il fallimento del totalitarismo comunista, come di quello fascista, che ha discreditato il progetto umano e ha prodotto il ritorno della fede. Come dice Bodei, se l'identità collettiva è lacerata, se si perde la fiducia nello Stato, allora è facile che ritorni la fede nella provvidenza divina».
Ma non è compito della politica riproporre un progetto umano rispondente al nostro tempo?
«La politica deve riprendere in mano il grande progetto dell’illuminismo che oggi è insidiato in due modi. Da una parte la pretesa ecclesiastica di avere un monopolio su tutte le questioni che riguardano la vita sulla base del ragionamento che la vita appartiene a Dio e che quindi in nome di Dio devono prevalere le ragioni della Chiesa e non delle istituzioni. Ma qui c’è lo stesso processo sostitutivo che ha trasformato il messaggio di liberazione del comunismo nell’oppressione di Stalin. L’altra insidia risiede nel tuffarsi nell’accumulazione finanziaria e nel consumismo, il privatismo consumistico. Questo dovrebbe essere tutto il contrario del ritorno alla fede e infatti è denunciato esplicitamente dalle sommità ecclesiastiche. Ma allora come mai una destra che è legata a filo doppio al capitalismo turbolento è la più forte paladina del ritorno alla fede? Spetta alla sinistra, al Pd, offrire una alternativa che non può non essere che quella di riprendere le fila di un progetto umano che è stato interrotto».

martedì 27 maggio 2008

Museion: la rana in croce non piace ai cattolici, ma per ora resta lì

l’Unità 27.5.08
A pochi giorni dall’inaugurazione del nuovo museo, il vescovo di Bolzano chiede la rimozione dell’opera di Kippenberger
Museion: la rana in croce non piace ai cattolici, ma per ora resta lì
di Valeria Trigo

Fa già parlare di sé il nuovo museo d’arte moderna di Bolzano, Museion, inaugurato appena pochi giorni fa. Il «merito» spetta ad una rana verde crocifissa nell’atrio d’ingresso del modernissimo spazio museale, costato 30 milioni di euro, e che ora sembra prendersi beffe di tutti restando ferma lì, immobile, contrariamente a quanti avrebbero voluto rimuoverla. E non sono pochi. Il mondo cattolico non è certo dalla sua parte, tanto che perfino il vescovo della Diocesi di Bolzano-Bressanone, Wilhelm Egger, ha pubblicamente criticato quell’anfibio in croce che tiene un uovo in una zampa e nell’altra una birra, opera realizzata dallo scomparso artista tedesco Martin Kippenberger. Dello stesso parere, negativo, è stato anche Luis Durnwalder, presidente della giunta provinciale altoatesina.
I responsabili del Museo hanno deciso di corredare l’opera con un’accurato materiale informativo sulla genesi e sul significato della scultura, quindi per ora la rana non sarà rimossa. «I sentimenti religiosi hanno il diritto di essere rispettati - aveva affermato Egger -. La rana crocifissa esposta al nuovissimo Museion d’arte moderna ha stupito tanti visitatori del Museion e li ha feriti nei loro sentimenti religiosi. Oggi, i simboli della fede cristiana vengono spesso disprezzati. Oggi, però, è fondamentale il rispetto per i simboli e i sentimenti religiosi. Una mostra di opere simili non aiuta alla pace tra le culture e le religioni».
«Si tratta - ha aggiunto Durnwalder - di un grande artista il cui vissuto è stato però caratterizzato da forti tensioni interiori e in questo caso sembra che egli abbia passato il segno». L’Union fuer Suedtirol ha chiesto addirittura le immediate dimissioni dell’assessore provinciale alla cultura in lingua tedesca Sabine Kasslatter Mur presente all’inaugurazione dell’opera. E come se non bastasse le critiche sono arrivate anche da Alleanza Nazionale che ha ricordato una polemica precedente relativa a una performance dove l’inno di Mameli veniva accompagnato dal rumore di uno sciacquone. Forse qualcuno dimentica che l’arte non ha catene.

lunedì 26 maggio 2008

«Quello che i politici negano lo ha già deciso il tribunale»

«Quello che i politici negano lo ha già deciso il tribunale»

Il Tempo del 26 maggio 2008, pag. 12

di Severino Antinori

Ho vinto il ricorso al Tar del Lazio contro la legge 40/2004.

A gennaio, il Tribunale Regionale Amministrativo ha dichiarato illegittime, annullandole per eccesso di potere, le linee guida della disposizione redatte in senso restrittivo dall’ ex Ministro Sirchia, in particolare sull’ammissibilità della diagnosi genetica che con l’espressione "diagnosi osservazionale" la negava a molte coppie portatrici di patologie genetiche.



La stessa sentenza ha sollevato la questione di legittimità costituzionale e la Consulta dovrà prossimamente pronunciarsi sulla costituzionalità della legge 40, legge iniqua perché nega i più elementari diritti civili: diritto alla genitorialità, libertà della ricerca, libertà di terapia che in molti altri Paesi sono la norma.



Solo qualche ora prima di lasciare il suo incarico, l’ex Ministro della Salute, on.le Turco, in un estremo tentativo di salvare la faccia, ha firmato il decreto di recepimento della sentenza del Tar.



Molti progressi tecnologici e tante nuove prospettive in Procreazione Medicalmente Assistita si sono resi necessari per aggirare i divieti imposti dalla legge 40 relativi al congelamento degli embrioni e alla formazione di non più di 3 embrioni.



Ed è così che è nata vitrificazione ovocitaria, una raffinata metodica di crio conservazione, praticata da oltre quattro anni dall’equipe del Centro Raprui di Roma, che consente di bypassare il divieto al congelamento degli embrioni e di conservare gli ovociti in sovrannumero, da poter usare in successivi trattamenti di fecondazione assistita. Questa tecnica permette una sopravvivenza degli ovociti all’atto dello scongelamento pari al 98%, mentre con le vecchie metodiche si registra una sopravvivenza del 50 per cento.



Notevole è anche il tasso di gravidanze che è sovrapponibile ai risultati dei normali trattamenti di fecondazione assistita (30%), se paragonato al tasso che si può avere con il congelamento convenzionale e che non supera il 5%. Questa procedura consente la preservazione e l’allungamento della fertilità.



La metodica ha infatti un particolare significato per tutte quelle pazienti che devono sottoporsi a trattamenti chemioterapici e che grazie alla vitrificazione potranno preservare la loro fertilità. Potranno, infatti, prima dei cicli di chemio o di radioterapia vitrificare i loro ovociti e successivamente, a remissione completa della malattia, sottoporsi a trattamenti di fecondazione assistita, scongelando gli ovociti a suo tempo prelevati.



Passi da gigante anche per quanto riguarda la infertilità maschile che grazie alle innovazioni tecnologiche può essere risolta con risultati in termini di gravidanze più che soddisfacenti.



Si tratta della Insi (Intramorphological Sperm Injection), una tecnica molto più sofisticata della classica vecchia Icsi, che io stesso ho introdotto venti anni fa. E che permette di scegliere in maniera scientificamente accurata i migliori spermatozoi da impiegare nelle tecniche di fecondazione assistita. E possibile raggiungere con questa metodica una magnificazione di 6600X che consente l’osservazione, in tempo reale della morfologia degli spermatozoi.



L’applicazione di questa metodica in pazienti che si erano già sottoposti a precedenti tentativi di fecondazione assistita con esiti negativi ha permesso di ottenere risultati più che soddisfacenti in termini di gravidanze.

NOTE

Presidente Associazione Mondiale Medicina della riproduzione Warm

sabato 24 maggio 2008

Excusatio non petita. Il Vaticano esprime «solidarietà»...

Liberazione, 24 maggio 2008

Fulvio Fania
Città del Vaticano
Excusatio non petita. Il Vaticano esprime «solidarietà» a Giuseppe Profiti, da pochi mesi presidente dell'ospedale pediatrico Bambin Gesù che è proprietà della Santa Sede. Profiti si trova agli arresti domiciliari fin dalla notte di mercoledì, coinvolto nell'inchiesta della Procura di Genova su presunte tangenti per gli appalti delle mense che ha portato in carcere anche l'imprenditore Roberto Alessio, il portavoce della sindaca Stefano Francesca e due ex consiglieri Ds del capoluogo ligure. L'insolito comunicato del Vaticano precede di un giorno l'interrogatorio di Profiti che è previsto per questa mattina. Ieri il Gip Roberto Fucigna ha interrogato per tre ore Alessio, che sarà risentito lunedì, e gli ex amministratori Massimo Casagrande e Claudio Fedrazzoni. «Totale fiducia e collaborazione con le autorità inquirenti», stima per la «dedizione e grande professionalità quotidianamente dimostrata» da Profiti, «ampio consenso del personale» ospedaliero attorno alla sua gestione e «speranza che la magistratura saprà in tempi brevi chiarire la sua posizione e restituirlo così al proprio lavoro». La collaborazione con gli inquirenti non ha consentito tuttavia la perquisizione negli attuali uffici dell'indagato poiché rientrano nella zona extraterritoriale.
Nella nota della Santa sede ci sono tutti gli ingredienti per rendere noto che il Vaticano difende il professore e che comunque l'inchiesta tocca lui e soltanto lui riguardando la sua precedente attività di direttore generale delle Finanze della Regione Liguria. E' una risposta implicita alle intercettazioni degli indagati che accanto al nome di Profiti tirano in ballo per 40 volte il cardinale Tarcisio Bertone come amico di Profiti e di Alessio. Scatta subito una difesa di lusso. Il presidente del Bambin Gesù arruola il famoso penalista Franco Coppi ma già due sere fa l'altro suo legale, Giuseppe Gallo, ha tenuto a sottolineare che Profiti era stato salutato dal Papa durante la visita di Ratzinger a Savona. In quel momento figurava già tra gli indagati e quel saluto fuori programma, in effetti, risultava significativo tanto da essere poi enfatizzato come «abbraccio» del pontefice al professore in difficoltà. Intanto il cardinale opusdeino Herranz ha subito messo in guardia dalle gogne mediatiche che «espongono in pubblico nomi altisonanti». Il segretario di Stato vaticano Bertone ieri mattina è partito alla volta di Kiev per uno di quei viaggi internazionali che segnano la sua frenetica attività di numero due della Santa Sede. Lontano dunque dagli imbarazzi di Curia per l'arresto di Profiti, che proprio Bertone ha chiamato alla presidenza del Bambin Gesù e, quando era ancora arcivescovo di Genova, aveva già scelto come vicepresidente dell'ospedale genovese Galliera, presieduto per lascito dal vescovo della città. Profiti - già vice del sindaco leghista a Sestri Levante - è indagato per turbativa d'asta, per aver favorito la "Alessio carni" nell'appalto di ristorazione della Asl 2 del Savonese. L'azienda Vercelli,provincia d'origine e prima diocesi di Bertone; l'impresario è cattolico e amico del costruttore Paolo Ambrosini attraverso il quale, stando alle intercettazioni, avrebbe promesso al presidente della Corte dei Conti in Liguria Mario D'Antino di far valere le proprie entrature vaticane per farlo nominare a capo dell'ospedale di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Il magistrato nega. Quel che è certo è che nei mesi scorsi Bertone era alle prese proprio con il ricambio dei vertici della Casa del Sollievo, dove è stato nominato direttore Domenico Crupi, anche lui passato per la sanità ligure.


24/05/2008

Viaggio a ritroso nel tempo per cercare le origini dei tanti pensieri sul mondo

l’Unità 24.5.08
Viaggio a ritroso nel tempo per cercare le origini dei tanti pensieri sul mondo femminile, dal 1771 a oggi
Flamigni: gioco semiserio sul passato delle donne
di Cristiana Pulcinelli

Lo spunto del narrare è una polemica lontana quasi 250 anni
Sì, mi sono un po’ arrabbiata. Lo voleva l’autore del libro, del resto. Come potevo non arrabbiarmi di fronte alla tesi che, in quanto donna, ragiono con l’utero e non con la testa? Di fronte all’accanimento con cui per secoli saggi e santi, tutti di sesso maschile, hanno cercato di spiegare perché non appartengo alla specie umana?
Ho anche sorriso, così come aveva previsto l’autore. Non fa sorridere l’idea che basti il tocco della mia mano perché zucche e cocomeri dell’orto appassiscano e poi muoiano? O che vestiti eleganti e gioielli possano essere stati considerati tanto pericolosi da richiedere l’emanazione di un decreto per evitare che venissero esibiti dalle signore in pubblico?
Carlo Flamigni, come si legge sulla quarta di copertina del suo nuovo libro, è ginecologo e «si occupa principalmente di Fisiopatologia della riproduzione e di Endocrinologia ginecologica». E tuttavia, il suo libro parla di questi temi solo marginalmente, li sfiora nelle appendici dove, peraltro, sono relegati i ragionamenti sul presente e sul futuro. Per il resto, Casanova e l’invidia del grembo, il cui sottotitolo recita «ragionamenti fatui sulla discussa capacità cognitiva delle donne e sull’esistenza di una ragione nel loro utero», è un viaggio nel passato delle donne attraverso quello che di loro hanno scritto gli uomini. Flamigni lo fa come un gioco. Un gioco semiserio, per meglio dire.
Lo spunto del narrare viene dato da una polemica lontana quasi 250 anni. È il 1771 e Giacomo Casanova, appena giunto a Bologna, viene a conoscenza di due pamphlet scritti da due docenti di medicina dell’università di Bologna. Il primo di questi libretti vuole dimostrare che si deve perdonare alle donne i loro errori perché dipendono dall’utero che, come un animale pensante, interviene nei ragionamenti di chi lo possiede e costringe le donne ad agire loro malgrado. Il secondo, invece, critica questa teoria sostenendo che l’utero è, sì, un animale, ma non interferisce con l’attività cerebrale della donna perché non esistono canali di comunicazione tra quest’organo e il cervello. Casanova si fa beffe di entrambi i professori con un terzo libello dal titolo: Lana caprina. Epistola di un licantropo indirizzata a S.A. la signora principessa J.L. n. P.C. Ultima edizione. In nessun luogo. L’anno 100070072.
Carlo Flamigni comincia il suo libro raccontando le circostanze di questa polemica, ma subito dopo parte per una lunga digressione, un viaggio a ritroso nel tempo per cercare le origini dei tanti pensieri sulle donne, sul misterioso legame che unisce utero e cervello, sull’ancora più misterioso atto del procreare, sull’inferiorità, infine, del sesso femminile.
All’origine troviamo (come sempre) Aristotele secondo cui le femmine altro non sono che maschi mal riusciti. Il suo pensiero arriva fino a San Tommaso che si spinge a cercare una parvenza di causa a questo difetto: forse i venti umidi del Sud impediscono all’uomo di generare un altro essere perfetto, ovvero l’uomo. Comunque, se la donna ha un «difetto di ragione» che, dice sempre Tommaso, è evidente anche nei bambini e nei malati di mente, non si può dire che non abbia un’anima. Qualcuno però, nel corso dei secoli, mette in dubbio anche questo: nel 1595 viene pubblicato un libro in cui l’autore cerca di convincerci del fatto che le donne non sono esseri umani. L’autore utilizza i suoi ragionamenti come un paradosso, è vero, ma dietro (dice Flamigni) vi si legge quello che davvero pensavano gli uomini del tempo.
La storia prosegue con il doloroso capitolo della caccia alle streghe. Quello altrettanto orrendo dei flussi mestruali considerati per secoli impurità contagiosa tanto da ipotizzare che i lebbrosi siano stati concepiti durante una mestruazione. La triste vicenda della menopausa annoverata dagli psichiatri fino al 1980 tra le cause di psicosi. E via discorrendo... L’autore racconta tutto con leggerezza e ironia. Negli approfondimenti, a fine libro, troviamo quello che al momento la scienza ci può dire sulle differenze uomo-donna e sulla procreazione. E qualche sbirciatina al futuro.
Devo dire, però, che se il passato raccontato da Flamigni m’indigna, il presente non è da meno. Potrò seccarmi con Boccaccio quando scrive, parlando di me (in quanto donna) «Niuno latro animale è meno netto di lei», ma che dovrei dire di un papa che vorrebbe rispedirmi dritta dritta nelle mani delle mammane?

giovedì 22 maggio 2008

Legge 194, anniversario con killeraggio. Casini: «Ingiusto che decidano le donne»

Liberazione, 22 maggio 2008, pagina 7
Ma l'associazione Luca Coscioni da oggi e per il week end mette a disposizione medici che prescrivono la pillola del giorno dopo
Legge 194, anniversario con killeraggio. Casini: «Ingiusto che decidano le donne»

E' lontana, dall'Italia, l'Inghilterra che oggi ha votato respingendo gli emendamenti che abbassavano il limite di tempo consentito per abortire, riducendo quello attuale di 24 settimane. Qui da noi si può ricorrere all'interruzione di gravidanza fino alla 12esima settimana, che diventano 24 quando si tratta di aborto terapeutico. Pur essendo limiti molto bassi, il tentativo è di scendere ancora più giù. La giustificazione verrebbe dalla scienza che dimostrerebbe come dopo la 22esima settimana il feto è già autonomo. Ma come hanno detto in Inghilterra ancora nessuno ha prove certe. I limiti della legge sono convenzioni, compromessi. L'inizio della vita è un fatto individuale, che non può prescindere dalla decisione della madre. Lo scontro è tutto qui.
Non è un caso che ieri, alla vigilia dell'anniversario della legge 194, approvata il 22 maggio del 1978, la conferenza stampa l'abbiano organizzata i rappresentanti del Movimento per la vita, Carlo Casini in testa. Insieme al Forum delle associazioni familiari hanno sparato a zero sulla legge. Ma ancora di più sulla donna. Il succo del loro discorso è tutto qui: «E' ingiusto che decida la donna». Chi dovrebbe farlo? Beh, è chiaro i padri, che secondo Casini due volte su tre sarebbero contrari.
La questione oggi si sposta sul fatto se la legge debba o meno essere modificata. La maggioranza che governa il paese sta cercando di capire se sia meglio affrontare la questione con modifiche in Parlamento (visto che ci sono i numeri) oppure andare avanti nell'attacco culturale e politico che di fatto sta comunque svuotando la legge di senso e di efficacia. Lo stesso Casini, pur dichiarando di odiare la 194, è prudente nel chiedere che venga ridiscussa alla Camera e al Senato. Stesso discorso dall'altra parte. Per Paola Binetti non si può «banalizzare con il dire "legge sì, legge no". Condivido l'impegno per le politiche familiari». E' questa la proposta della sottosegretaria Eugenia Roccella. E' la rappresentante di governo più cattolica e nelle dichiarazioni di questi giorni ha più volte dribblato il problema sulla legge. Ha detto non si tocca, ma vanno rilanciate le politiche familiari.
L'attacco più duro arriva dall' Osservatore romano , con un articolo di Lucetta Scaraffia. Parlano di eugenetica, di tragedia, manca solo la definizione di olocausto di ferrariana memoria, ma in qualche modo salvano la legge, chiedendo che prevalga lo spirito di tutela della maternità.
Tra le iniziative opposte, da segnalare quella dell'associazione Luca Coscioni. Da oggi fino al week end, in tutta Italia, ci saranno banchetti con medici disponibili a prescrivere la pillola del giorno dopo. E' un normale medicinale che in diversi altri Paesi si può comprare tranquillamente in farmacia. In Italia ci vuole la prescrizione. Molti medici si rifiutano di farlo appellandosi all'obiezione di coscienza garantita dalla legge 194, che però non c'entra niente. Ma la pillola del giorno dopo non è abortiva. E' invece l'ennesima questione su cui si sta esercitando potere contro le donne. L'associazione Coscioni mette a disposizione più di venti medici. Visto i tempi che corrono, vale la pena farsela prescrivere e metterla da parte.


22/05/2008

mercoledì 21 maggio 2008

Le cattive ragazze che anche oggi non smettono di lottare

Le cattive ragazze che anche oggi non smettono di lottare

Liberazione del 21 maggio 2008, pag. 14

di Olivia Fiorilli
La libertà di scegliere se interrompere o meno una gravidanza, garantita - pur tra molte difficoltà - dalla legge 194 è stata, negli ultimi trent'anni, continuamente messa in discussione nei fatti - attraverso un progressivo "svuotamento" della norma - e a parole. Le femministe, ormai, ci hanno "fatto il callo". Questo attacco perpetuo ha spesso "inchiodato" i movimenti femministi all'urgenza del momento e li ha costretti a stare sulla difensiva. Anche il Sommovimento femminista e lesbico - nato con una grande manifestazione contro la violenza sulle donne - si è sviluppato in contemporanea all'ennesima offensiva contro la libertà di aborto. E non poche hanno espresso la volontà di non lasciarsi dettare l'agenda dai continui attacchi all'autodetrminazione delle donne e alla legge 194. Anche se la consapevolezza dell'importanza di difendere lo spazio di libertà aperto da questa norma, sudato frutto della lotta dei movimenti femministi negli anni 70, resta diffusa. Come è diffusa l'idea che la messa in discussione di questa legge - in questo momento - non potrebbe che essere molto pericolosa. Eppure avanza la percezione di un'importante svolta nella forma degli attacchi all'autodeterminazione delle donne in tema di aborto.
"La legge 194 non va cambiata, ma applicata in ogni sua parte". Questo leit motiv è diventato ormai a dir poco "sospetto" per quante mantengono uno sguardo vigile sugli spazi di autodeterminazione delle donne. Nonostante gli ultimi "affondi" del papa e del settimanale Famiglia cristiana , nell'ultimo periodo l'attacco a questa libertà sembra passare di preferenza attraverso l'uso di alcune parti di una legge che, non a caso, è intitolata "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza". Anche la campagna di Giuliano Ferrara a favore di una "moratoria sull'aborto", uno degli attacchi alla libertà di aborto più eclatanti dell'ultimo periodo, non ha mai avuto come obiettivo una modifica del testo della legge. L'elefantino ha sempre sostenuto che la sua è una battaglia culturale contro la «barbarie» dell'aborto ed il «maltrattamento disumanizzante della vita umana». La neo-ministra delle pari opportunità, Mara Carfagna, è riuscita - con un ragionamento contorto e con un linguaggio francamente inquietante - a dare ragione a Benedetto XVI, pur sostenendo di essere contraria alla revisione della legge. «Condivido le parole del Papa quando afferma che la 194 è una ferita, che oggettivamente ha fatto perdere all'Italia milioni di vite provocando un danno spirituale e demografico al Paese» ha scritto la ministra, «questo è dovuto soprattutto ad una cattiva e incompleta applicazione della norma».
Che la legge 194 offra più di una sponda ai progetti degli anti-abortisti nostrani, l'ha notato da tempo anche il collettivo femminista milanese Maistat@zitt@, che all'assemblea nazionale del sommovimento femminista e lesbico del 12 gennaio scorso ha riproposto, come parola d'ordine, la "depenalizzazione dell'aborto", già appartenuta ad una parte dei femminismi degli anni 70. «Adesso che siamo circondate da malintenzionati che vogliono entrare e spaccare tutto possiamo anche gridare "non si fa!", ma forse sarebbe stato meglio, quando lo si poteva fare, rimetterci mano e aggiustare le serrature», scrivono le Maistat@zitt@, che dalla regione Sagrestia - come è stata ribattezzata la Lombardia di Formigoni - hanno assistito a più di un tentativo di "sfondamento" portato avanti "forzando un po'" la 194. A partire dal limite temporale per effettuare un aborto terapeutico, fissato dalla regione a 22 settimane (al momento il Tar ha sospeso il provvedimento, ma la regione ha fatto ricorso al Consiglio di Stato). In questo caso la giunta Formigoni ha approfittato del fatto che la 194 non pone dei limiti temporali per l'aborto terapeutico, ma - all'articolo 6 - specifica che questo può essere praticato solo se l'età gestazionale non permette la sopravvivenza del feto (salvo nel caso in cui la vita della donna sia in pericolo): limite che varia insieme alle evoluzioni della tecnica.
Ma la 194 offre anche la sponda all'ingresso dei volontari anti-abortisti nei consultori (articolo 2) e, soprattutto, al dilagare dell'obiezione di coscienza, prevista dall'articolo 9. E' per fare un "passo avanti", oltre la mera difesa della legge, che le Maistat@zitt@ hanno lanciato la campagna "obiettiamo gli obiettori". Si tratta di organizzarsi non solo per rivendicare, ma anche per praticare dei diritti. Il collettivo milanese ha infatti proposto di raccogliere informazioni negli ospedali e nei consultori, individuando i medici obiettori e boicottando le strutture dove questi sono più presenti.
La campagna è stata accolta da più parti in Italia. «La legge 194 è una conquista per le donne, per la loro libertà di scelta, per la loro salute, ma la legge in questione va cambiata» scrive il collettivo Malefimmine di Palermo, che ha condotto un'inchiesta sui consultori del capoluogo siciliano per monitorare la presenza degli obiettori al loro interno. «La legge 194 sancisce il diritto di ogni donna di decidere della propria vita e poi, con un assurdo controsenso, limita lo stesso permettendo a dei bigotti clerico-fascisti di decidere al posto della donna, opponendo il veto alla richiesta di aborto, rifiutandosi quindi di fornire un servizio. (…) Siamo pienamente convinte che si debba lottare per abolire l'art. 9 e si debba eliminare la figura dell'obiettore. Il contratto di lavoro dovrebbe vincolare il medico a rispettare la salute di ogni donna!».
Anche il gruppo donne dell'ex Snia Viscosa di Roma, che da anni lavora all'interno dei consultori e ultimamente ha dato vita ad un'assemblea delle donne all'interno di quello di piazza dei Condottieri, si è posto il problema dell'obiezione di coscienza e sta cercando soluzioni. Ma la messa in discussione di una legge che negli ultimi trent'anni ha garantito - bene o male - la possibilità di ricorrere all'interruzione volontaria di gravidanza fa ancora paura. Soprattutto di questi tempi.

Obiettori di coscienza e demonizzazione, così ne fanno carta straccia

Obiettori di coscienza e demonizzazione, così ne fanno carta straccia

Liberazione del 21 maggio 2008, pag. 12

di Eleonora Cirant
La più tormentata delle leggi italiane è di certo la 194 "per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza". Ciclicamente se ne invoca la piena applicazione, tanto da parte dello schieramento pro-scelta, quanto dagli avversari "pro-life". Gli uni sottolineano i punti della legge che garantiscono libertà di scelta, tutela della salute e della dignità della donna, tempi rapidi e metodiche efficaci; gli altri si appellano all'articolo 2, che prevede l'impegno per la rimozione delle cause che inducono la donna ad abortire, anche tramite convenzioni tra convenzioni tra i consultori e le associazioni di volontariato.
Tirata da una parte e dall'altra, la corda pende a sinistra o a destra a seconda delle stagioni politiche e dei rapporti di forza presenti nel paese.
Lo sgretolamento della legge dal suo interno è un processo che dura da anni, non appariscente, forte di procedure consolidate. Quali? La mancata applicazione della legge in alcune sue parti (art. 8, 9, 15), la negligenza rispetto ad altre leggi collegate (la 405 sui consultori, il Progetto obiettivo materno infantile) con il depauperamento dei consultori pubblici e il sostegno economico a consultori di matrice cattolica che sollevano "obiezione di coscienza di struttura", la criminalizzazione delle donne che scelgono di abortire, l'inserimento del concetto di vita sin dal concepimento in leggi e regolamenti regionali (fino ad obbligare alla sepoltura dei feti). La fuga di ginecologhe/i di recente formazione, che rifiutano in massa di praticare IVG prediligendo altri e più gratificanti percorsi; l'abbandono di politiche di prevenzione nelle scuole con la diffusione di una cultura della sessualità responsabile, rispettosa di sé e dell'altra/o.
I tempi di attesa tra la certificazione e l'intervento dimostrano il poco conto in cui sono tenuti gli articoli 8 e 9 della 194. Dopo una settimana dal suo rilascio, il documento che attesta la volontà della donna di abortire costituisce per legge «titolo per ottenere in via d'urgenza l'intervento». In pratica, una donna su 5 attende più di 3 settimane, mentre solo il 54.2% riesce ad abortire entro le due settimane. Questo grazie all'aumento del personale obiettore, rilevato anche nell'ultima relazione del ministero della Salute per tutte le professionalità, con i ginecologi al 69.2% (rispetto al 59.6% della precedente relazione), gli anestesisti al 50.4% (rispetto a 46.3%) e 42.6% per il personale non medico (39% nella precedente relazione). Questi valori raggiungono percentuali particolarmente elevate nel sud Italia, con una media del 71.5%. Al nord, Lombardia e Veneto si difendono bene, rispettivamente con un 68.6% e 79.1%. La situazione è variabile all'interno delle regioni, dove il monitoraggio dell'obiezione di coscienza è realizzato solo per iniziativa di associazioni e movimenti.
Poco conta che l'art. 9 della legge obblighi gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate ad «assicurare l'espletamento delle procedure previste», sottolineando che «la Regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale». Le liste d'attesa suggeriscono che la mobilità sia soprattutto quella delle donne, costrette a migrare da una città all'altra.
La legge è ignorata anche dal punto di vista dell'aggiornamento della tecnica e della formazione del personale (art. 15). Rimane infatti inaccessibile l'aborto medico, raccomandato dalla Commissione europea nel periodo tra la quinta e la settima settimana di gestazione. Il metodo Karman (con aspirazione) è il metodo più sicuro per l'interruzione del primo trimestre, ma il 35% delle Ivg è ancora effettuato con strumento metallico (raschiamento) e l'anestesia generale è praticata nell'85% dei casi, quando è dimostrato che aumenta i rischi.
Questi ed altri sono i punti su cui intervenire per una migliore applicazione della legge 194 secondo le linee guida pubblicate a marzo di quest'anno dall'ex Ministero della Salute.
Ma il governo Berlusconi sembra andare in tutt'altra direzione come hanno annunciato alcune sue esponenti: «informare le madri sulle strade alternative e sulla prevenzione all'aborto» per Giorgia Meloni; impedire la diffusione della RU486 per la sottosegretaria alla Salute Eugenia Roccella; promuovere «una normativa a favore della famiglia che incentivi le nascite» per la ministra alle Pari opportunità Mara Carfagna.

Le donne dicono basta alla libertà provvisoria

Le donne dicono basta alla libertà provvisoria
Liberazione del 21 maggio 2008, pag. 12

di Beatrice Busi
E' l'estate del 1971. Il codice penale Rocco, ereditato dal fascismo, considera l'aborto "delitto contro l'integrità e la sanità della stirpe", nessuna deroga è consentita, le pene previste sono durissime. I documenti dell'epoca stimano che sono ventimila all'anno le donne che muoiono per aborto in Italia. Se non bastasse, ogni anno vengono denunciate centinaia di donne, a decine sono processate.
"Sessualità femminile e aborto", uno dei primi documenti del femminismo radicale italiano, chiarisce immediatamente qual è la posta politica in gioco nella lotta per l'aborto libero e gratuito. «Noi di Rivolta femminile sosteniamo che da uno a tre milioni di aborti clandestini calcolati in Italia ogni anno costituiscono un numero sufficiente per considerare decaduta di fatto la legge antiabortiva. (...) Ci rifiutiamo oggi di subire l'affronto che poche migliaia di firme, maschili e femminili, servano da pretesto per richiedere dagli uomini al potere, dai legislatori, quello che in realtà è stato il contenuto espresso da miliardi di vite di donne andate al macello dell'aborto clandestino. Noi accederemo alla libertà di aborto, e non a nuova legislazione su di esso, a fianco di quei miliardi di donne che costituiscono la storia della rivolta femminile».
Nel 1973 inizia il processo a Gigliola Pierobon, una data che rimane una pietra miliare nella storia del movimento femminista italiano dei 70. E' il primo processo per aborto che diventa "fatto politico". Lola aveva abortito nel 1967, quando aveva 17 anni. Nel frattempo é diventata femminista. Quando le comunicano il rinvio a giudizio, ne parla con le sue compagne. Decide di allargare il suo caso a tutte le donne, trasformare la sua condizione soggettiva per ritrovare il "comune" della condizione femminile. E insieme alle sue compagne decise di fare del processo un "fatto politico". Il 5 giugno, a Padova, arrivano centinaia di donne da tutta Italia. Contemporaneamente si svolgono assemblee e sit-in anche in altre città, a Roma, Firenze, Venezia, Milano, Trieste. Le donne, fuori e dentro l'aula, gridano «Noi tutte abbiamo abortito!». «Noi donne siamo tutte in libertà provvisoria», scrive Lotta femminista, gruppo nato dall'esodo delle donne dalle strutture della Nuova Sinistra. «Lo Stato mantiene le donne in libertà provvisoria per costringerle a tenere piegate le loro teste e a tenere chiuse le loro bocche. E la Chiesa gli dà man forte. Il 5 giugno a Padova le donne accusarono pubblicamente lo Stato di strage continuata e aggravata rispetto a tutte le donne che sono morte e muoiono per le condizioni disumane in cui avviene l'aborto clandestino. E accusarono pubblicamente la Chiesa di complicità».
Da lì in poi, la lotta si generalizza, i cortei si ingrossano, cresce la partecipazione maschile, esplodono le contraddizioni. Il collettivo di via Cherubini, di Milano, il 18 gennaio 1975 scrive "Noi sull'aborto facciamo un lavoro politico diverso" e si domanda quale sia il senso di una presenza maschile nella lotta per l'aborto libero e gratuito senza che ci sia una messa in discussione dei comportamenti sessuali. A febbraio un altro documento, "Procreazione e lotta di classe", del Comitato Triveneto per il Salario al lavoro domestico rincara la dose. «La stessa richiesta che sia "gratuito" in bocca ad Avanguardia operaia, Pdup per il Comunismo, o Lotta Continua e gli altri non si capisce che senso abbia se non di uno dei tanti "servizi" che devono essere gratuiti. Ma l'aborto non è un "servizio", restare incinte contro la propria volontà è l'incidente sul lavoro di chi è destinata nelle condizioni capitalistiche alla procreazione, alla riproduzione della forza lavoro. (...) La donna che abortisce allora non deve non solo poterlo fare in modo gratuito ma ricevere un'indennità per infortunio sul lavoro».
Il 6 dicembre del 1975 più di 20mila donne sfilano a Roma per l'aborto libero, gratuito e assistito. E' un corteo separato, gestito secondo i "criteri dell'autonomia organizzativa femminista".
Le mobilitazioni del movimento femminista mirano alla depenalizzazione e non a una legislazione ad hoc sull'aborto. Una posizione comune sia al Movimento di liberazione della donna, inizialmente federato al Partito radicale e poi resosi autonomo, sia al Movimento femminista romano, che nel 1976 scrive: «Noi ribadiamo la nostra posizione per la totale abrogazione del reato di aborto. Qualsiasi forma di legislazione sull'aborto, anche la più ampia, presuppone un controllo sulla donna».
I motivi li descrive bene il documento "Autodeterminazione: un obiettivo ambiguo", contenuto nel Sottosopra rosa del gennaio 1976, che entra nel merito della legge sull'aborto proposta in parlamento ed esprime la posizione di molti altri gruppi di autocoscienza di Milano, Torino, Firenze: «L'unica cosa che vogliamo da una legge è la cancellazione del reato, dunque la depenalizzazione». L'autodeterminazione, dice quel documento, non è più tale se ci si subordina agli interessi dei partiti - il conflitto con il Pci fu accesissimo - e della logica parlamentare; se ci si affida alla regolamentazione esterna dello stato; se, una volta ottenuta la legge, si impiegano le energie in una lotta difensiva le cui regole sono date dalle istituzioni ospedaliere, giudiziarie, amministrative. Niente di più vero, la storia successiva, soprattutto quella più recente, dà ragione e corpo a tutti questi dubbi.
Nel 1978, la "nuova unità nazionale" viene suggellata anche sul corpo delle donne. Il 22 maggio, tredici giorni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, la Camera approva definitivamente la legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza con 308 voti contro 275. Votano sì Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e gli Indipendenti di sinistra. Viene così sventato il "pericolo" del referendum, fissato per giugno, che chiedeva l'abrogazione delle norme fasciste del codice penale, compresa quella sull'aborto, promosso dalle 500mila firme presentate dal Partito radicale.
Nel 1987 la Libreria delle donne di Milano, in Non credere di avere dei diritti , scrive: «Quando la legge fu approvata ed entrò in vigore, le donne stesse che l'avevano voluta si resero conto che essa rispecchiava fedelmente le esigenze, le preoccupazioni e i compromessi di coloro che l'avevano fatta, uomini, con l'occhio attento a un corpo sociale dove il punto di vista maschile era ben chiaro e prevalente».
Infatti, la lotta contro l'aborto clandestino, è stata una lotta a tutto campo, di certo non liquidabile con l'idea di rivendicare e ottenere un "diritto". Parlare pubblicamente di aborto ha significato innanzitutto una radicale messa in discussione della sessualità e dei rapporti tra uomo e donna, nel personale e nel politico, come ha fatto soprattutto Rivolta femminile. Ha significato praticare la consapevolezza e la riappropriazione del proprio corpo attraverso strutture e relazioni diverse, come hanno fatto i centri per la salute delle donne, i consultori autogestiti o le cliniche Cisa (Centro italiano sterilizzazione aborto) aperte dalle campagne di "disobbedienza civile" del Movimento di liberazione della donna. Ha significato una battaglia politica sul terreno della riproduzione come lavoro, come hanno fatto i gruppi di Lotta femminista che intrecciavano la richiesta del salario "contro" il lavoro domestico alla denuncia dell'aborto come "infortunio sul lavoro".
La lotta per l'aborto libero, gratuito e assistito è stata radicale, costellata di occupazioni - la più eclatante quella del Duomo di Milano nel 1976 -, di autodenunce, di processi, arresti, cortei caricati dalla celere, attaccati dai fascisti ma anche dai servizi d'ordine dei "compagni", come quello di Roma nel 1975. Ma ha portato con sé anche la reinvenzione del pubblico, la costruzione di nuove istituzioni dal basso, attraverso l'apertura dei consultori autogestiti, dei centri di medicina delle donne e delle cliniche in cui si effettuavano gli aborti con il nuovo metodo dell'aspirazione importato dalla Francia. Ha significato tutto questo insieme, perché, in quegli anni, tutte volevano tutto.
Il 14 gennaio 2006, in 250mila, in maggioranza donne, hanno manifestato a Milano in difesa della 194, per il diritto all'autodeterminazione. Perché la legge 194 è l'istituzionalizzazione di questa grande esperienza di conflitto e invenzione. Un conflitto che cova sotto la cenere, sempre pronto a riaccendersi.