mercoledì 17 settembre 2008

Quell’Italia che rifiuta la libertà delle donne

l’Unità 18.9.08
Quell’Italia che rifiuta la libertà delle donne
di Chiara Valentini

SILVIA BALLESTRA Da oggi è in libreria Piove sul nostro amore (Feltrinelli), un viaggio nel mondo inospitale dell’aborto, in un paese, l’Italia, dove sta accadendo qualcosa di inquietante...

Un paese che ha una passione neanche tanto segreta per tormentare le donne. È questa alla fine dei conti l’immagine che vien fuori dal viaggio che la scrittrice Silvia Ballestra ha voluto compiere su un terreno dove ben poche della generazione under 40 si era finora avventurata, il terreno malfido e pieno di contraddizioni dell’aborto. Capisco bene che non deve essere semplice, per chi come Ballestra aveva nove anni quando la legge 194 era stata votata e 11 quando un referendum che voleva cancellarla veniva respinto massicciamente dal 68 per cento degli italiani, riprendere in mano una vecchia storia derubricata a lungo dal senso comune come fatto privato. Ma chi era cresciuta in quel «dopo» anche troppo rassicurante (quante volte, ancora fino all’altro ieri, abbiamo sentito ripetere come un mantra «l’aborto non si tocca...») ha anche un vantaggio, la capacità di indignarsi che nasce dalla scoperta di qualcosa che non si credeva possibile. E infatti è dall’inimmaginabile 8 marzo 2008 di Giuliano Ferrara, e dalla sua scelta di lanciare proprio quel giorno la sua creatura elettorale a sostegno di una moratoria dell’aborto che parte il libro di Silvia Ballestra (Piove sul nostro amore - Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni, Feltrinelli, Serie Bianca, pp. 176, 14 euro).
I segni che in Italia sta succedendo qualcosa di inquietante la Ballestra se li ritrova dove meno se l’aspetta. È in un ambulatorio dell’Aied che scopre l’esistenza di un turismo di specie nuova, tante italiane che se ne vanno in Francia, in Olanda o in Svizzera non per tentare in ambienti migliori quella pratica a rischio che è da noi la fecondazione assistita, ma per interrompere una gravidanza. In Canton Ticino ci sarebbe un calo notevole degli aborti se non ci fossimo noi, le straniere in arrivo da un paese cosiddetto evoluto, a far alzare la percentuale del 25 per cento. Perché? Le ragioni sono molte, e attengono a quella guerra neanche tanto sotterranea alla libertà riproduttiva delle donne di cui la moratoria peraltro fallita di Ferrara è stata solo un sintomo. Una trovata così apparentemente paradossale d’altra parte non sarebbe stata pensabile senza quel retroterra di movimenti per la vita e di centri di aiuto a non interrompere la gravidanza o senza le schiere di militanti pro life appostati all’ingresso degli ospedali che gridano «stai per uccidere un bambino» e sventolano cartelli del genere «Mamma rivoglio bene, non farmi del male».
Ma nel mondo pro life non tutto è così scontato. Meno prevedibile per esempio è il ricorso alla psicoanalisi usata come barriera contro il relativismo culturale che viene fatto nelle scuole di formazione per gli attivisti della vita. In parte inatteso anche lo stile di comunicazione più amichevole di una parte dei centri di aiuto, dove cartelli e volantini rinunciano al terrorismo iconografico per mostrare pance rotonde e mazzi di margherite. Più che donne assassine, sembrano suggerire queste immagini, donne da aiutare e sostenere. Ma poi, approfondendo meglio, Ballestra scopre una specie di doppia morale. «Non sei assassina, ma commetti un omicidio» è il messaggio sotterraneo. Assistendo ad una lezione del professor Mario Palmaro, docente alla Pontificia università Regina Apostolorum, l’astro nascente della bioetica più integrista, comincia a capire la ratio di questa offensiva che specie dopo il fallito referendum sulla fecondazione assistita sta avvolgendo la 194. L’obiettivo, almeno per il momento, non è tanto di mettere mano alla legge, ma di trasformare in senso sempre più negativo la percezione che la società ha dell’aborto. «Far vedere che esiste una 194 percepita e una 194 reale, che ha trasformato un delitto in un diritto», predica il professor Palmaro. Ed ecco la sua ricetta, obiezione di coscienza ad oltranza, «da parte di ciascuno di noi». Non solo insomma della moltitudine crescente dei ginecologi, che in varie regioni ha quasi paralizzato il servizio. No, qualunque strumento che in qualche modo si opponga al dispiegarsi della vita va mandato in tilt. E così i medici del pronto soccorso rifiutino di prescrivere la pillola del giorno dopo e i farmacisti di venderla, per non parlare di quella bestia nera che è la Ru486, la killer pill nel linguaggio antiaborista. Questo farmaco che consente di evitare i ferri e l’anestesia, in uso da tempo in tutto l’Occidente, ha infatti la grave colpa di «banalizzare l’aborto» cancellandone l’aspetto cruento, di renderlo più leggero e accettabile. E quindi in Italia, nonostante la sperimentazione di Silvio Viale a Torino e qualche tentativo in Emilia e Toscana, le donne devono continuare ad «abortire con dolore».
In questo territorio sempre più inospitale che è oggi l’interruzione di gravidanza si aggiranno perplesse ragazze e giovani donne. Sono in numero molto ridotto rispetto al passato, visto che la 194 ha dimezzato le cifre. E sono più isolate. Scrive Ballestra che oggi la grande maggioranza delle giovani si considera immune da qualcosa di cui si parla così poco, non crede che toccherà proprio a lei. Quando succede il problema è grande, come la vergogna che le accompagna in un percorso accidentato di visite e certificati spesso difficili da ottenere, mentre le settimane passano e la paura di non fare in tempo cresce. È forse la parte più bella del libro il racconto di questi aborti legali a cui si arriva avendo sentito parlare in modo piuttosto vago di libera scelta e di autodeterminazione femminile. Come la ragazzina appena diciottenne che piomba in ospedale senza neanche una camicia da notte visto che nessuno le ha detto di portarla, e si ritrova annichilita davanti ai medici «con certi sandaletti azzurri ai piedi e la gonna tirata su, lo slip appallottolato in una mano e gli occhi fissi al soffitto» e poi si trascina per anni un lutto difficilmente gestibile. O quell’altra che seduta in attesa su una panchetta davanti alla «stanza 194» dell’ospedale milanese di Niguarda «sente uno strano rumore, come di aspirapolvere... un rumore assordante, lancinante, che ferisce dentro e fuori».
C’è da dire che in trent’anni è cambiata la percezione stessa della gravidanza, anche per quelle ecografie che ti fanno vedere il feto, quegli esami che ti fanno sapere molto presto se sarà maschio o femmina. La rinuncia può essere più dura, più lacerante. Ma di questi mutamenti e sentimenti c’è poco spazio per parlare. In un paese come l’Italia è pericoloso farlo, puoi sempre trovare un ateo devoto o un militante per la vita che sta lì pronto a ritorcerti contro il tuo dolore, a trasformarlo in un’arma contundente. E così quel poco di riflessione che si è sviluppata negli ultimi anni è stata più uno scontro all’arma bianca che un’analisi meditata. Con qualche femminista come Eugenia Roccella che è passata dall’altra parte e poche altre che invece hanno cercato di aprire nuove porte. Con una di loro, la storica Anna Bravo, Ballestra si sente in sintonia, per quel suo coraggio a sostenere che nell’aborto ci sono due vittime, la donna e anche il feto. È una riflessione che scotta, in presenza di quei «diritti del concepito», perno della legge sulla fecondazione assistita, che ha contrapposto il nascituro alla madre, con quel che ne è conseguito. Allo stesso tempo sono evidenti i prezzi che stiamo pagando proprio per aver lasciato alla Chiesa il monopolio della riflessione etica sui temi della vita. Anche questo viaggio su territori poco frequentati ha il merito di ricordarcelo.