giovedì 30 luglio 2009

Sudan, rinviata al 4 agosto la flagellazione della giornalista Lubna al Hussein

Sudan, rinviata al 4 agosto la flagellazione della giornalista Lubna al Hussein

Francesca Marretta

Liberazione del 30/07/2009

La reporter “colpevole” di aver indossato i pantaloni in pubblico. E’ condannata a quaranta frustate

È stata rinviata al 4 agosto l’esecuzione della condanna a quaranta frustate per la giornalista sudanese Lubna al Hussein, “rea” di avere indossato pantaloni a una festa in un locale pubblico di Khartoum. Per le autorità sudanesi l’abbigliamento di Lubna al party era «sconveniente» e contrastava con il regolamento sull’ordine pubblico».
La giornalista, che scrive per il giornale di sinistra Al-Sahafa e lavora per la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Sudan, è stata arrestata il 3 luglio scorso durante una “retata” della polizia al locale affollato.
Insieme a Lubna sono state arrestate altre dodici donne che portavano i pantaloni. Dieci sono state convocate il giorno dopo e punite con dieci frustate a testa. Almeno quattro delle donne fustigate sono originarie del sud Sudan, che è cristiano e animista e tre sono minorenni. Le donne sono state processate senza la presenza di un legale.
L’esecuzione della sentenza per Lubna era prevista per ieri.
Ma all’udienza il giudice ha chiesto alla donna se intendesse avvalersi dell’immunità, in quanto impiegata presso una missione Onu.
Lubna, che è anche una nota attivista per i diritti umani, ha declinato l’offerta. La sua vicenda è diventata un volano di denuncia su quello che accade alle donne in Sudan.
«Intendo licenziarmi dalle Nazioni Unite e voglio che il processo continui» ha dichiarato ieri la giornalista in un’aula di tribunale gremita.
La donna aveva distribuito per tempo 500 inviti a colleghi e organizzazioni per diritti umani perchè assistessero in gran numero alla sua fustigazione. «Sono cartoncini tipo invito di nozze perchè voglio che la gente veda con i propri occhi e ascolti con le proprie orecchie quale atto osceno avrei commesso con questi vestiti, che indosserò anche in tribunale», aveva dichiarato Lubna prima del processo.
I poliziotti sudanesi il 3 luglio hanno arrestato la persona sbagliata. Le retate alle feste private e nei locali pubblici di Khartuom finiscono in genere con pesanti multe o condanne che passano sotto silenzio.
Ma Lubna al Hussein a stare zitta non ci pensa proprio. Anzi, il processo amplifica una battaglia portata avanti per anni senza troppo clamore.
La donna ha sottolineato di non aver infranto la legge coranica. È la legge sudanese che classifica i pantaloni come abbigliamento indecente. L’articolo 152 del codice penale sudanese per cui è stata rinviata a giudizio parla di «atti osceni in luogo pubblico». E il locale era pieno di gente. Indossare i pantaloni, sostiene Lubna «non ha nulla a che vedere con la sharia». Ha piuttosto a che fare con l’essere donna in un paese integralista islamico che distorce i dettami della religione musulmana a proprio uso e consumo.
A difesa di Lubna al Hussein si è schierata un’altra giornalista sudanese, Amal Habbani, che scrive per Ajrass Al-Horreya, «il caso di Lubna è un esempio che mira a soggiogare il corpo femminile». Dato che non indossava i pantaloni la Habbani non è stata frustata, ma le hanno comminato una multa salatissima.
Oltre ai 40 colpi di frusta, Lubna al Hussein, dovrà pagare pure quasi trecento euro di multa.
Secondo un rapporto pubblicato quest’anno da Amnesty International, i tribunali in Sudan hanno comminato sentenze di morte, anche nei confronti di donne e minori.
In alcuni campi profughi a ridosso di Khartoum sono ammassate coi loro figli migliaia di donne provenienti dal Darfur, dove, sempre secondo Amnesty, sono regolarmente vittime di stupri e altre forme di violenza sessuale.
Nel caso del Sudan il proverbio che dice “il pesce puzza sempre dalla testa” è una certezza.
Sul capo del Presidente Omar al-Bashir pende un ordine di cattura emesso dalla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja basato su sette i capi d’imputazione, cinque per crimini contro l’umanità e due per crimini di guerra. Il presidente sudanese è ritenuto «indirettamente responsabile dell’assassinio, la tortura, gli stupri e le violenze sui civili commessi nella regione del Darfur».