Risorgimento scomunicato (16)
di Vittorio Gorresio
Si deve credere però che questa moderazione teologica non fosse pratica tanto diffusa quanto meritoria, poiché gli incidenti nelle chiese in occasione di prediche si succedettero con molta frequenza. Padre Gavazzi doveva predicare nella chiesa del Gesù Nuovo ed il clero borbonico fece diffondere la voce che egli avrebbe “convertito” la chiesa in un tempo protestante. Così la chiesa fu invasa da una folla infuriata e padre Gavazzi fu salvato a stento dal linciaggio. Un sacerdote borbonico fu, d’altra parte, scacciato da pergamo della chiesa del Monserrato. A Torre del Greco fu la Madonna ad esser “convertita” al nuovo regime: la sacra immagine, spogliata dei rituali paramenti, fu vestita della camicia rossa e così trasportata in processione. L’incidente più grave forse fu quello della chiesa di San Severino, presso l’università; un gruppo di studenti apostrofò violentemente il domenicano padre Cocozza “oratore di energico talento” che predicava contro l’unità d’Italia; insorsero i fedeli contro gli studenti, accorse folla, da una parte si assediava la chiesa, dall’altra si bloccava l’università. Ci furono molti feriti, e una ventina di arresti: anche il padre Cocozza fu arrestato e rimase in prigione quattro mesi.
Inutile seguire giorno per giorno gli incidenti e i contrasti. C’è una notizia del 31 luglio che serve per compendiare la situazione. Data da fonte liberale suona così: “A Napoli il questore recasi dall’arcivescovo, cardinal Riario-Sforza e coi dovuti riguardi consiglialo ad allontanarsi da Napoli, il suo nome essendo immischiato in complicazioni politiche. Il cardinale protesta che non si allontanerà che forzato. A sera due delegati di P.S. invitano il cardinale a seguirli e con una carrozza accompagnanelo al porto dove è imbarcato sul piroscafo “Tancredi” diretto a Civitavecchia”.
Nella versione clericale la notizia è questa: “Ieri, 31 luglio, verso le cinque e mezzo pomeridiane il questore signor Aveta e il segretario di questura, signor Amore, recaronsi al palazzo arcivescovile. Era il Cardinale in sull’uscire per amministrare il Sacramento della confermazione ad un’inferma in S. Giovanni a Teduccio, quando quegli ufficiali entrarono a lui. Pigliava la parola il questore e con cortesi modi diceva: “Le reazioni in cambio di scemare vanno crescendo ogni di più. Or sebbene il governo non abbia da imputare a Vostra Eminenza nessuna colpa, purtuttavia egli non può garantire la persona di Lei contro i malviventi”. “Ma io non temo punto di me”, rispose il cardinale. “Bene sta – soggiunse quegli – ma v’ha di molti che abusando del Suo nome vengon organando reazioni e mettono in grave imbarazzo il governo; sarebbe però opportuno che Vostra Eminenza si allontanasse da Napoli”. “Io non ho mai creato né creo imbarazzi al governo – ripigliò l’Arcivescovo – ma non temendo della mia persona non partirò né abbandonerò la mia chiesa, se non costretto”. Allora gli fu imposto che partisse quindi a un’ora. Ed avendo il Cardinale chiesto un più lungo indugio per provvedere alle cose della sua Diocesi, gli fu data facoltà d’intrattenersi fino alle nove di sera”.
Forse è inutile dire che tra i motivi che provocarono l’arresto e l’espulsione del cardinale (che tornò a Napoli soltanto cinque anni dopo, fruendo al pari del De Angelis delle più miti disposizioni del governo nell’autunno del 1866) era compreso anche l’ordine dato al clero di astenersi dallo Statuto. Ma in tema di feste, per la verità, a Napoli il clero si mostrava, per una buona sua parte, abbastanza condiscendente col governo nuovo: si ricordi per tutti monsignor Caputo che per la festa di Piedigrotta scrisse ai giornali della città per informarli che avrebbe pronunciato la seguente preghiera: “Signore, date lume al Capo della Chiesa, che cessi di proteggere in Roma il Re dei briganti Francesco II, e che una volta per sempre si ravvegga degli errori commessi con scandalo di tutta la cristianità. E la questione romana vegga presto la sua fine!”.
Per incoraggiare il clero su questa via, tanto Mancini che il governo di Torino si impegnavano a fondo. C’è una circolare di Mancini, di poco precedente l’arresto del cardinale, nella quale si raccomanda agli intendenti provinciali di tutelare in ogni modo gli ecclesiastici sospesi a divinis per la loro adesione al nuovo stato di cose. Alla Camera, un anno dopo all’incirca, il deputato napoletano Giuseppe Ricciardi, fece una proposta singolare, come risulta dagli Atti ufficiali dell’VIII legislatura: “…Qualunque prete diserti il campo di Roma, proclamato sia nostro amico. Signori, abbiamo messa insieme a Napoli una legione di disertori ungheresi. Questi disertori li riguardiamo come nostri fratelli, e perché? Perché sono nemici dell’Austria. Ebbene, riguardiamo come nostri alleati i preti tutti i quali rinneghino Roma papale; facciamo di questi preti una nuova legione ungherese (ilarità) la quale ci sarà utile moralmente, almeno quanto l’altra. Ma soprattutto, signori, stimoliamo i preti non solo, ma i cittadini tutti ad opporre al principio assurdo e bestiale della cieca fede su cui è fondata Roma papale, il sacro principio del libero esame. Sarà questo, Signori, la catapulta più potente (si ride) che adoperar si possa da noi per isfondar le porte di Roma…Signori, io vorrei esser più giovane e più vigoroso, e sapete perché? Per farmi eresiarca per amor di patria e di libertà (ilarità prolungata). Io mi farei quasi antipapa per aver il piacere di scomunicare Pio IX in nome dell’Italia tradita (ilarità prolungata).
A parte le amenità della proposta di Ricciardi, la politica per cattivare il clero non era sempre facile. Il giorno che Vittorio Emanuele andò a Napoli a venerare San Gennaro, il santo fece, sì, il miracolo in suo onore, ed anzi il sangue ribollì mirabilmente nell’ampolla, ma il capitolo ed il clero metropolitano si astennero dall’intervenire alla cerimonia, e fu per questo confiscata ad essi la rendita per un anno. Altre volte accadeva di trovarsi di fronte a preti esigentissimi, come quel Gigli che il cardinale Corsi aveva sospeso a divinis per essersi prestato a celebrare nel duomo di Pisa in occasione della festa dello Statuto nel 1860. Gli era stata offerta un’indennità dal governo, ed egli la respinse; fu nominato insegnante nel ginnasio regio di Campiglia, ed egli rifiutò l’incarico, “aspirando a cose maggiori”, secondo quanto comunicò Ricasoli alla Camera in risposta a un’interrogazione presentata dal deputato Paolo Carlo Turati di Busto Arsizio nella seduta del 5 ottobre 1860: “A tal risposta tutti fischiarono il prete Gigli che della sospensione a divinis facea una speculazione, come disse il deputato Boggio; e lo stesso Turati fece alla Camera le scuse per aver patrocinato la causa di un indegno, quant’egli non sapea”.
Il cardinale Carlo Luigi Morichini, vescovo di Jesi “non era maculato di veruna politica taccia, ed anzi era sempre stato in voce di prelato amico dei progressi civili”, secondo l’opinione di Luigi Carlo Farini autore della storia già citata dello Stato romano dal 1815 al 1850. Ciononostante, quel cardinale fu arrestato due volte in quattro anni: la prima nel settembre del 1860, la seconda nell’aprile del 1864. Al tempo del primo arresto, Farini era il delegato di Cavour presso il quartiere generale di Vittorio Emanuele partito in guerra per congiungersi con i volontari di Garibaldi; al tempo del secondo si trovava in una casa di salute, essendo, dicono, improvvisamente impazzito. Stava alla Novalesa, presso Susa, e tutti i giorni gli intimi continuavano a ripetergli l’assicurazione che gli sarebbe stato concesso di partire prestissimo per la Polonia. Aveva dato in escandescenze in presenza del Re, tentando anzi di vibrargli un colpo di pugnale (prestamente scansato da Vittorio Emanuele) per indurlo a dichiarare guerra alla Russia che opprimeva la Polonia. Superfluo dire quanto i cattolici, ed i gesuiti in particolare, speculassero su questa disgrazia: “Basta aver letto un po’ consideratamente le storie per dedurre che i derisori delle censure ecclesiastiche furono di sapienza così scarsa che tutti furono degni d’incontrar de’ guai non piccoli o di far la mala fine”, si legge nella “Civiltà Cattolica”.
Superfluo è anche dilungarsi nella narrazione del primo arresto del cardinale Morichini: basterà dire che trovandosi il porporato a Roma per la visita periodica ad limina quando giunse la notizia della battaglia di Castelfidardo, ripartì subito per far ritorno alla sua diocesi. Fu arrestato a Foligno dai piemontesi e trattenuto in carcere sei giorni, al tempo stesso che ad Ancona si arrestava il cardinale Antonucci e da Fermo si deportava il cardinale De Angelis, secondo quanto abbiamo già narrato. Rimesso in libertà, il Morichini poté tornare a Jesi dove “trovò tutto in subbuglio e si adoperò senza posa per ristabilire l’ordine turbato”, scrisse il Michel. E uno scrittore cattolicissimo , in un recente articolo sull’ “Osservatore Romano” aggiunge per conferma: “Fu pastore esemplare e restò al suo posto, nobilmente, anche quando la sua diocesi fu occupata dalle truppe italiane”. I cattolici scrivono che il capovolgimento della situazione politica “non aveva spento in lui l’animo conciliante e la temperanza del giudizio. Ma – come spesso avviene – ciò valse a scagliargli contro il livore del più inesorabile settarismo”. Il settarismo, secondo una versione liberale, consisteva in questo: il cardinale avrebbe istigato il giudice mandamentale di Jesi ad abiurare al giuramento di fedeltà al Re, pur rimanendo in carica ad amministrare la giustizia nell’interesse della Santa Romana Chiesa. Sostanzialmente era tutto vero, ma formalmente la condotta del cardinale era del tutto ineccepibile, come più tardi riconobbe il tribunale, e la vicenda è tanto interessante, che mette in conto di narrarla e di fermarsi sulle cause che le diedero origine. I fatti, innanzitutto. Nello “Osservatore Romano” del 27 aprile del ’64 si trova scritto: “Alle otto e quindici del sabato 23 aprile si presentò all’Episcopato di Jesi il capitano dei carabinieri signor Ruca, che introdotto presso l’Eminentissimo, gli notificò con tutta quella urbanità che può usare in simili circostanze un militare, aver ordine di imprigionarlo e seco condurlo in Ancona. In quella entrarono nel gabinetto dello Eminentissimo un giudice istruttore, un delegato di pubblica sicurezza, ed un attuarlo, mentre al di fuori l’Episcopato veniva circondato dai carabinieri alcuni de’ quali occuparono armati ‘la posizione strategica’ della sala d’ingresso. L’oggetto di tutti quei personaggi entrati di seconda scena nel gabinetto dell’Eminentissimo era quello di fare un incarto giudiziale a carico del Cardinale e di procedere ad una perquisizione delle sue carte. Allora il Cardinale dettò due proteste che l’attuario si compiacque di scrivere. Nella prima diceva che come Porporato e Principe di Santa Chiesa non poteva essere imprigionato e processato che per ordine del solo Sommo Pontefice; nell’altra che non avrebbe potuto rispondere a domande che appellassero a coscienza o ad ordini venuti di Roma. Dopo ciò si provarono di fare qualche inchiesta, ma quelle poiché vertevano appunto in materia di confessione e assoluzioni, decreti della Sacra Penitenzieria, non vennero con risposta alcuna soddisfatte. Si passò allora alla perquisizione, ma a lode del vero debbe dirsi che aperti i cassetti dello scrittoio nessuno dei quattro ardì frugarvi per entro, e sol si limitarono a prendere la circolare a stampa inviata dalla Sacra Penitenzieria a tutti i vescovi d’Italia in data 6 marzo 1860, circolare che venne riportata fin dai giornali. E ciò valga a smentire le voci, non sappiamo se più maligne o insulse fatte correre dai caldissimi dell’onore e dovere del governo italiano a giustificazione dell’operato di lui; che si fossero cioè rinvenute al Vescovo di Jesi delle corrispondenze con esteri governi a danno di quella di cui mostransi passionantissimi favoreggiatori.
Alle undici della sera, l’Eminentissimo Morichini muoveva nel proprio legno alla volta di Ancona, confortando e incoraggiando con somma tranquillità il Clero che presso che tutto erasi radunato nella stanza dell’Episcopato, non si tosto fu sparsa per la città la nuova di quanto in essa accadeva. Sulla piazza attendeva il beneamato Vescovo grande folla di popolo che silenzioso e triste genufletteva al passaggio della carrozza per ricevere anche una volta la benedizione del suo Pastore. Seguiva immediatamente altro legno con quattro carabinieri. Il capitano Ruca prese posto accanto al cocchiere dell’Eminentissimo e fu solo uscito di città che al ripetuto invito del Porporato accettò un posto dentro il legno. Gli erano compagni don Sante Crocicchiani, cerimoniere, don Giuseppe Bucci, segretario, ed un domestico. Alle due e mezzo del mattino della domenica 24 corrente, giungeva l’illustre prigioniero in Ancona, e veniva rinchiuso nelle carceri di Santa Palagia. In quel giorno non gli venne permesso né di celebrare né di ascoltare la Messa. La cella in che venne posto, sebbene non possa dirsi assolutamente insalubre, purtuttavia mostra in alcune delle pareti delle tracce di umidità.
Venne tosto separato da’ suoi compagni e gli si lasciò solo il domestico, finché alla sera fu permesso a don Crocicchiani di entrare anch’esso a Santa Palagia, prigioniero volontario. Pervenuta la notizia di ciò all’Eminentissimo Cardinale Antonucci Vescovo di Ancona, egli fu sollecito di chiedere e di ottenere la facoltà di fornire all’illustre prigioniero quanto potesse alleviarne i patimenti. Finora non si sa che il Fisco abbia potuto giustificare con verun’apparenza di ragione legale questo nuovo attentato sacrilego; e noi teniamo per fermo che il motivo sia quel medesimo che fece già carcerare centinaia di personaggi ecclesiastici riconosciuti innocenti e dovuti perciò dopo mesi ed anni di torture crudeli esser rimessi in libertà”.
Il “nuovo attentato sacrilego” era stato invece minuziosamente motivato dal procuratore del Re, avvocato Lorenzo Armelonghi. Il giorno 2 aprile il canonico Planeta, di Jesi, aveva rifiutato di ammettere al sacramento della confessione tale avvocato Augusto Ronzetti già dipendente pontificio e nominato poi giudice mandamentale di Jesi in seguito a giuramento di fedeltà prestato al governo italiano. Il giorno dopo il canonico Giuseppe Grossi, penitenziere della diocesi, aveva confermato dovesse escludere il Ronzetti dalla confessione, a meno che egli non ritrattasse il giuramento prestato, promettesse di ubbidire alla Santa Sede, e chiedesse all’autorità ecclesiastica locale il permesso di continuare nell’esercizio delle sue funzioni di giudice dello stato italiano. Il cardinale Morichini, dal canto suo, aveva dato la sua approvazione all’operato dei canonici subordinati e ciò aveva fatto in esecuzione di un decreto della Sacra Penitenzieria che era stato pubblicato nella diocesi senza il regio exequatur richiesto dalla legge per dare carattere ad ogni provvedimento che fosse relativo alla religione dello Stato.
(16. segue)
Inverno
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