il Fatto 30.8.11
34 anni dopo è ancora Vaticano Spa
L’impero immobiliare della Santa Sede nuovamente soitto i riflettori
di Eduardo Di Blasi
Nel gennaio del 1977 Paolo Ojetti, con l’aiuto di Pierluigi Franz, pubblicò su l’Europeo un’inchiesta di quelle che restano nella memoria del giornalismo. In prima pagina, sopra una foto notturna della cupola di San Pietro, compariva il titolo: “Vaticano Spa”. Era la ricostruzione minuziosa dell’immenso patrimonio che congregazioni, collegi, case sante, istituti ecclesiastici, rettorati, pie società, capitoli, abbazie e una serie infinita di enti e ordini monastici, possedevano nella sola città di Roma: un quarto del patrimonio immobiliare era proprietà della Chiesa.
QUELL’ARTICOLO, assieme a un altro paio di scoop, costò la poltrona di direttore a Gianluigi Melega che era arrivato alla testa del periodico Rizzoli soltanto nell’estate precedente. “Quando Rizzoli decise di sollevarmi dall’incarico – ricorda Melega – mi disse che facevamo un gran bel giornale ma che lui non poteva permetterselo”.
Oggi, a distranza di 34 anni, mentre imperversa una furibonda campagna sulla tassazione dei beni ecclesiastici non utilizzati per “finalità di culto”, è incredibile annotare come non esistano banche dati in grado di fornirci il dato ufficiale di queste società. Di più: lo Stato italiano non sa quantificare la cifra che, tra sovvenzioni ed esenzioni, il Vaticano ottiene annualmente dalle casse del bilancio italiano. Le richieste dei soli Radicali, seppure sostenute da una parte della pubblica opinione, non sono riuscite a ottenere risposte.
Stefano Livadiotti, sull’Espresso, ha messo in fila diversi di questi “privilegi”: alcuni certi, come la pratica ormai invalsa nella distribuzione dell’8 per mille, che premia oltremodo la Cei a dispetto delle altre confessioni religiose che hanno sottoscritto l’intesa con lo Stato o lo sconto che dal 2006 il Comune di Roma pratica per le auto vaticane che devono passare per la zona a traffico limitato del centro. Altre solo ipotizzabili, come il mistero dell’Ici, la tassa sugli immobili di proprietà. I Comuni hanno valutato con una “prudentissima analisi” un mancato introito “compreso tra i 400 e i 700 milioni di euro l’anno”. Il matematico Piergiorgio Odifreddi, da sempre rappresentato come “anticlericale” ha stimata la cifra di 6 miliardi di euro. Anche i dati ufficiali, forniti dall’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica e risalenti a un lustro fa (il 2006), non sembrano rigorosissimi . A conti fatti il rendimento dei palazzi di proprietà sarebbe quattro volte maggiore di quello che incamerano gli enti di previdenza italiani. Vale a dire che o le proprietà ecclesiastiche ottengono affitti da capogiro o che si è rivisto al ribasso il valore del patrimonio di partenza (stimato per l’appunto nel 2006 a 430 milioni di euro).
Ojetti, autore dell’inchiesta che in quell’inizio d’anno del ‘77 fu stroncata dall’Osservatore Romano spiega: “In 34 anni nulla sembra essere cambiato. Anche allora ci chiedevamo perché questo enorme patrimonio non venisse tassato”.
MELEGA ricorda: “Dagli anni ‘50, con la costruzione dell’Hilton a Monte Mario e l’inchiesta dell’Espresso su ‘Capitale corrotta, nazione infetta’ ci colpiva il fatto che il Vaticano si occupasse di immobili. Pensavamo detenesse un patrimonio di latifondo, invece dai Parioli a Gregorio VII stava edificando in tutta Roma”.
Non fu, come detto, l’unica inchiesta che fece traballare la direzione Melega a l’Europeo. Le altre due parlavano di massoneria (“Tassan Din, l’uomo di mano di Rizzoli che fino ad allora non avevo mai visto, mi venne a incontrare e mi suggerì un pezzo sulla massoneria ‘buona’. Lo misi alla porta”. Poi un’inchiesta su Seveso mise in contatto il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e un monsignore romano, Angelini, deus ex machina della sanità romana. Era il 1977. C’erano il terrorismo, l’Urss e la Guerra fredda, ma sembra oggi. Melega allarga le braccia: “È incredibile, ma è così”.