venerdì 29 febbraio 2008

«Rendiamo pubblici i nomi dei medici che non garantiscono le interruzioni»

«Rendiamo pubblici i nomi dei medici che non garantiscono le interruzioni»

Liberazione del 29 febbraio 2008, pag. 6

di Benedetta Aledda

« Obiettiamo gli obiettori» è una campagna lanciata dalle donne milanesi di Mai stat@ zitt@ e accolta dalla due giorni che si è tenuta a Roma la scorsa fine settimana (Flat, Femministe e lesbiche ai tavoli). Alla campagna ha aderito anche Facciamo breccia. A Bologna la Rete delle donne vuole creare una mappa condivisa delle strutture in cui operano gli obiettori e il corteo cittadino dell'8 marzo sarà un'occasione di scambio e raccolta di informazioni; a Trieste sono partite le donne del coordinamento friulano e altri gruppi si stanno muovendo a Brescia e a Perugia. Le informazioni sulla campagna si trovano sul sito www.vieneprimalagallina.org.

Come è nata l'idea? Sandra fa parte di Mai stat@ zitt@ (il gruppo si è dato provocatoriamente questo nome nel 2006 aderendo alla manifestazione Usciamo dal silenzio).
Ci stavamo già pensando prima degli ultimi sviluppi drammatici di Napoli e in un certo senso siamo state profetiche.

Chi sono gli obiettori che prendete di mira?
Tutti quelli che fanno obiezione di coscienza sulla legge 194 e soprattutto gli obiettori di comodo, cioè quelli che non lo fanno per motivi di coscienza ma per carriera, per compiacimento del loro primario o per quieto vivere. Sappiamo che ci sono molti medici che finiscono per fare questa scelta perché sono rimasti gli ultimi nel loro reparto o nel loro ospedale a praticare l'interruzione volontaria di gravidanza e quindi decidono di obiettare per non trovarsi a fare solo quello. È una decisione comprensibile, ma cosa c'entra la coscienza?

Vi concentrate su chi rifiuta di praticare l'ivg?
L'obiettivo iniziale era questo ma nella due giorni romana è stato chiesto di portare avanti la campagna anche contro l'obiezione di coscienza sulla pillola del giorno dopo.

Cosa intendete per «stanare»?
Vogliamo i nomi: una donna non può avere un rapporto di fiducia col medico senza sapere se è obiettore oppure no; non può mettere la propria salute in mano a chi mette le proprie esigenze di carriera davanti alla sofferenza di una donna. Succede a molte di fare un giro dell'oca da un ospedale all'altro prima di poter accedere all'interruzione di gravidanza o alla pillola del giorno dopo perché nelle strutture ci sono troppi obiettori. Chiediamo di avere i nomi di questi medici. Se è davvero una scelta morale, non dovrebbero avere problemi a fare coming out. In ogni caso, quando una donna prenota un esame o una visita deve sapere se il medico è obiettore di coscienza.

Come sta prendendo forma la campagna?
Mano a mano che completiamo i dati, nelle grandi città (nelle piccole è più difficile) proporremo di boicottare le strutture dove ci sono più medici obiettori, in particolare in Lombardia, dove al presidente della Regione Formigoni interessa la salute in quanto merce. Al Niguarda di Milano su 20 ginecologi solo 3 non sono obiettori; al San Gerardo 2 su 23; a Cernusco e a Gorgonzola sono tutti obiettori; in tutta la provincia di Como non ci sono obiettori e per fare le interruzioni di gravidanza devono chiamare i medici da fuori. Al San Paolo di Milano le igv si fanno su appuntamento in base alle emergenze, ma in tutti gli altri ospedali ci sono degli orari e le prime che si presentano sono ricevute; chi rimane fuori deve ripresentarsi senza che venga fissato un appuntamento.

Farete delle iniziative pubbliche per promuovere la campagna?
Domenica a Milano, in concomitanza col Family day in un centinaio di piazza italiane, saremo in zona Navigli, dove una donna è stata annegata dal convivente, per ricordare che la maggior parte delle violenze contro le donne avviene in famiglia, fra conoscenti o parenti. Poi faremo presidi davanti agli ospedali in cui prevalgono gli obiettori. Per l'8 marzo stiamo preparando un giro dell'oca, come quelli che ci fanno fare per gli ospedali e per tutte le altre faccende che ineriscono all'autodifesa della nostra vita, dal lavoro ai lavori di cura.

mercoledì 27 febbraio 2008

LIBERADONNA: firma la petizione

LIBERADONNA

A: Veltroni, Bertinotti e tutti i dirigenti del centro-sinistra

PRIME FIRMATARIE: Simona Argentieri, Natalia Aspesi, Adriana Cavarero, Cristina Comencini, Isabella Ferrari, Sabina Guzzanti, Margherita Hack, Fiorella Mannoia, Dacia Maraini, Valeria Parrella, Lidia Ravera, Rossana Rossanda, Elisabetta Visalberghi


Caro Veltroni, caro Bertinotti, cari dirigenti del centro-sinistra tutti, ora basta! L'offensiva clericale contro le donne – spesso vera e propria crociata bigotta - ha raggiunto livelli intollerabili. Ma egualmente intollerabile appare la mancanza di reazione dello schieramento politico di centro-sinistra, che troppo spesso è addirittura condiscendenza. Con l'oscena proposta di moratoria dell'aborto, che tratta le donne da assassine e boia, e la recente ingiunzione a rianimare i feti ultraprematuri anche contro la volontà della madre (malgrado la quasi certezza di menomazioni gravissime), i corpi delle donne sono tornati ad essere “cose”, terreno di scontro per il fanatismo religioso, oggetti sui quali esercitare potere. Lo scorso 24 novembre centomila donne – completamente autorganizzate – hanno riempito le strade di Roma per denunciare la violenza sulle donne di una cultura patriarcale dura a morire. Queste aggressioni clericali e bigotte sono le ultime e più subdole forme della stessa violenza, mascherate dietro l’arroganza ipocrita di “difendere la vita”. Perciò non basta più, cari dirigenti del centro-sinistra, limitarsi a dire che la legge 194 non si tocca: essa è già nei fatti messa in discussione. Pretendiamo da voi una presa di posizione chiara e inequivocabile, che condanni senza mezzi termini tutti i tentativi – da qualunque pulpito provengano – di mettere a rischio l'autodeterminazione delle donne, faticosamente conquistata: il nostro diritto a dire la prima e l’ultima parola sul nostro corpo e sulle nostre gravidanze. Esigiamo perciò che i vostri programmi (per essere anche nostri) siano espliciti: se di una revisione ha bisogno la 194 è quella di eliminare l'obiezione di coscienza, che sempre più spesso impedisce nei fatti di esercitare il nostro diritto; va resa immediatamente disponibile in tutta Italia la pillola abortiva (RU 486), perché a un dramma non debba aggiungersi una ormai evitabile sofferenza; va reso semplice e veloce l'accesso alla pillola del giorno dopo, insieme a serie campagne di contraccezione fin dalle scuole medie; va introdotto l'insegnamento dell'educazione sessuale fin dalle elementari; vanno realizzati programmi culturali e sociali di sostegno alle donne immigrate, e rafforzate le norme e i servizi a tutela della maternità (nel quadro di una politica capace di sradicare la piaga della precarietà del lavoro). Questi sono per noi valori non negoziabili, sui quali non siamo più disposte a compromessi.


PRIME FIRMATARIE: Simona Argentieri, Natalia Aspesi, Adriana Cavarero, Cristina Comencini, Isabella Ferrari, Sabina Guzzanti, Margherita Hack, Fiorella Mannoia, Dacia Maraini, Valeria Parrella, Lidia Ravera, Rossana Rossanda, Elisabetta Visalberghi

L'errore della teopolitica

L'errore della teopolitica

La Repubblica del 27 febbraio 2008, pag. 31

di Roberta Da Monticelli

A chi gli domandava in che modo si potesse sconfiggere la violenza del Male, Francesco d'Assisi un giorno rispose: "Perché aggredi­re le tenebre? Basta accendere una luce, e le tenebre fuggono spaventate". E' "l'ag­gressione delle tenebre", ciò con cui biso­gna farla finita, in tutti i campi. Di aggres­sioni, crociate e controcrociate, non ne possiamo più. Non è con l'aggressione che si combatte il male o ciò che sembra tale. E' con la conoscenza: un certo modo della conoscenza che oggi soprattutto è compito del pensiero chiarire, e che oggi potrebbe illuminare di luce nuova tutti i mondi in cui allignano ed esplodono conflitti. Dalle re­lazioni internazionali alla vita politica, economica, civile di una comunità. Nel se­colo scorso è prevalso un modo di pensare che in realtà lasciava pochissimo spazio in questi campi alla "conoscenza che illumi­na", come possiamo chiamare la luce di cui parla Francesco, e di cui anche l'Illuminismo, checché se ne dica, si è candidamen­te nutrito. Come Socrate, invece, questo Francesco—che appartiene a tutta l'umanità e non a questa o quella sua parte — ben più che della volontà, della conoscenza fa­ceva un grandissimo conto, negli affari umani. Ma il suo genio ampliò l'orizzonte della conoscenza, e vi incluse i valori delle cose, e ampliò l'organo dell'intelligenza, annettendovi il cuore. Il Cantico delle crea­ture va ben oltre il sentimento di fratellan­za con l'intera natura. Oggi possiamo leg­gervi una felice e fiduciosa ammirazione per tutto il visibile, e per ciò che il visibile annuncia. Ma non per la visibilità della vita pubblica, della piazza, della polis. Non in questo visibile traduce l'Invisibile: creder­lo fu l'immenso errore che portò nel mon­do la teocrazia, e in Italia l'ideologia neo­guelfa. E che nel secolo scorso nutrì le for­me veramente ateo-devote della teopoliti­ca: un nichilismo decisionista che tutto ri­duce a brutali o raffinati rapporti di potere, e che addirittura ha finito per ridurre le ca­tegorie del politico a una barbarica sempli­ficazione, venata di una punta mafiosa: amico-nemico.



Altro è il visibile che Francesco glorifica, quello dell'umile vita di ciascuna creatura. La conoscenza che illumina è un sapere che apprezza. Non che proietta qualità di valore positive o ne­gative nelle cose: che le riconosce, semplicemente. Ne prende atto. Prende atto del­la preziosità di ciò che è prezioso, della bruttezza di ciò che è laido, anche quando nessuno l'aveva vi­sta prima. I valori so­no sempre da scopri­re. Questo è un reali­smo tutto diverso da quello che si intende con "realismo politi­co". E' quello che possiamo chiamare un realismo assiologico, un realismo dei valori. L'Italia e il mondo debbono questa scoperta alla sensibilità france­scana. Francesco re­se a tutti visibile quello che era fino allora invisibile: vide il valore segreto, la bellezza, il gratuito — cioè il divino — del­l'acqua, del fuoco, del paesaggio. Proseguì l'opera dell'incarnazione. E inventò, in fondo, l'Italia: il suo paesaggio, la sua dol­cezza, la sua umiltà, il suo splendore. La sola Italia che ci resta da amare, ancora visi­bile — se con sciagurate demolizioni di re­gole, sciagurati condoni, sciagurate sven­dite di beni pubblici, non finiremo di di­struggerla.



E' strano quanto ancora, anche con le migliori intenzioni, i cattolici italiani di tut­ti gli orientamenti politici ancora insistano nell'idea che i partiti in cui militano deb­bano soprattutto tutelare la loro identità cattolica, cioè renderla visibile e affermar­la. Ci sono virtuosissime eccezioni: e c'è il grande tentativo di molti uomini di buona volontà, che hanno dato vita al Partito De­mocratico, di fare in modo che questa sia idea finalmente accantonata. Infatti, non è conseguenza, anche questa idea, del terri­bile equivoco relativo al visibile e all'invisibi­le, al divino — la so­stanza — e ai fenomeni — l'apparenza? "Fede è sostanza di cose spe­rate / ed argomento delle non parventi" (ovvero prova delle co­se che non si vedono), scrive Dante parafra­sando San Paolo. Que­sta è la formula di una vita di ricerca, dove sentire e capire, che sono per noi l'essen­ziale del vivere, diven­tano appunto "prova", nel senso di esperien­za, di quell'invisibile in cui proseguono le cose di questo mondo, che è poi il loro fragile senso d'essere, il loro nasco­sto valore (le cose del­l'altro mondo, invece, nessuno le ha mai viste davvero). Se questo in­visibile non ci fosse, nessuna opera d'arte potrebbe mai profon­damente colpirci come rivelazione di qual­cosa che non avevamo visto prima, nessun pensiero potrebbe parerci illuminante e vero benché non inteso prima, nessuna azione parerci rivelatrice di una possibilità nuova, di una via non battuta. Francesco lesse in cuore al Lupo. Dunque l'invisibile non gli restava tale...


C'è un equivoco profondo anche nel modo in cui ci siamo abituati a leggere le differenza fra cattolici e protestanti. E' legata a questo errore sul visibile e l'invisibi­le, l'interiorità e la vita comune, radice pur­troppo della suprema blasfemia: non solo tentare di possedere il divino in formule umane (" noli me tangere": questo chiede il Risorto!) ma addirittura farne bandiera di una parte politica. Questo errore ha legato troppi cattolici professi alla peggiore fra le due possibilità di intendere l'importanza del visibile, del sensibile, del temporale. Non l'acqua, il fuoco, il lupo e la sorella morte di Francesco, ma il campo di batta­glia e la pubblica piazza. Non lo splendore del visibile ma l'infinita disputa televisibi­le. Non l'oblio di sé perfetto che è necessa­rio a capire il cuore dei lupi, ma la rivendi­cazione della propria identità e dei propri valori. Ma non dovevamo saperlo, che chi vorrà avere salva la sua vita la perderà? Frutti così dolci, in questo paese popolato di monasteri ormai quasi vuoti, ha dato l'altra, la davvero universale fiducia nel vi­sibile, il respiro ampio e tranquillo di chi confida nella sostanza e nel valore ancora invisibili di ogni cosa, e non in sé. Frutti ca­richi di intelligenza e di bellezza, architet­ture del divino, campi dei miracoli, biblio­teche di tesori inesplorati, la quiete ontologica che il ritmo dello studio e del lavoro onora quotidianamente. Questa è l'Italia che è impossibile non amare.

La vertigine narcisistica della Binetti e la sua presunta superiorità morale

La vertigine narcisistica della Binetti e la sua presunta superiorità morale

Il Riformista del 27 febbraio 2008, pag. 2

di Luigi Manconi

Dico sul serio. La senatrice Paola Binetti mi è assai simpatica: nono­stante i suoi molti tratti spigolosi e irritanti (o forse, pro­prio in ragione di essi). In una epoca di "passioni tristi", la determinazione ardente con cui afferma le proprie idee appare - almeno a me - come il segno di una personalità apprezzabile. Quando, poi, quella determinazione si tra­duce in azione pubblica, il giudizio fatalmente deve cambiare. Tanto per il gusto di rubarle il mestiere, devo dire che le ultime affermazio­ni della senatrice, risultano espressione di una sorta di vertigine narcisisti­ca: il suo trascorre­re spericolatamen­te dall'Io dell'as­sunzione di respon­sabilità al plurale majestatis di una complessiva rap­presentanza teologico-dottrinaria dell'identità cattolica sembra segnalare il punto estremo di un processo di enfatizzazione della propria autostima. Un processo che la induce ad at­teggiamenti autoritativi, tutti giocati sulla declamazione di obblighi e veti («il Pd de­ve...», «Veltroni dica...», «Vogliamo risposte chiare...», «Non possiamo con­sentire...», «Vigileremo...», «Non permetterò...»).


Quanto più questo atteg­giamento diventa stile di iden­tità pubblica tanto più perde proprio in stile: è di appena al­cuni giorni fa l'accostamento dei radicali a una "metastasi". Sì, proprio così: metastasi. Il giudizio lascia perlomeno per­plessi. Un membro dell'Opus Dei che parla come nemmeno Maurizio Gasparri segnala, inequivocabilmente, i guasti che l'esposizione eccessiva al sistema dei media può deter­minare. Ma in quella valutazione di Paola Binetti c'è dell'altro; e questo spiega perché è giusto partire da lì per consi­derare, tra l'altro, il senso del­l'iniziativa pubblica tenutasi a Roma, sabato scorso, sul tema del rapporto tra laicità e poli­tica, promossa da Barbara Pollastrini, Gianni Cuperlo e Albertina Soliani. Per affer­rarlo quel senso, la metterei così: io voglio che Binetti stia nel Partito democratico (ma­gari con qualche moderazione nei toni), ma a partire da una accertata e regolata parità di ruolo e di possibilità di espres­sione con chi non è Paola Binetti. Per­ché ciò sia possibile non Binetti (l'er­rante), ma la sua presunzione di su­periorità morale (l'errore) va critica­ta radicalmente. Perché qui sta il no­do, che quel termine "meta­stasi" impietosamente rivela: Paola Binetti e, insieme a lei, una parte significativa del cat­tolicesimo italiano e, con essa, la maggioranza delle gerar-chie e delle istituzioni ecclesiastiche ritengono di avere la titolarità, piena e incondizio­nata - e ascritta - della que­stione morale. In altri termini, nel corso dell'ultimo mezzo secolo mentre la chiesa catto­lica perdeva egemonia sul piano degli indirizzi in mate­ria di stili di vita e forme di re­lazione, acquisiva una sorta di complessiva "riserva morale". Meno contava nel determina­re i comportamenti individua­li e collettivi e più rivendicava la titolarità esclusiva del giu­dizio etico, a prescindere dal­l'influenza diretta e concreta che quel giudizio esercitava nella vita sociale. Ciò risultava agevolato dal fatto che la cul­tura di ispirazione non religio­sa rinunciava completamente - e rovinosamente - non solo a competere con "" quella titolarità esclusi­va, ma anche solo al tentativo di elaborare un£ propria e distinta capa­cità di orientamento etico. Si è realizzata co­sì una sorta di divisione dei compiti: da una par­te, la cultura non religio­sa tutta concentrata sull'intervento sociale, e ri­dotta a una sorta di pa­tronato sindacale e di associazione dei consuma­tori di diritti; dall'altra la cultura religiosa come fonte di ispirazione mora­le e principio ordinatore delle grandi questioni esistenziali (dette "di vita e di morte"). È accaduto così che la cultura non religiosa si riducesse, e venisse ridotta, a economici­smo e contrattualismo, men­tre quella religiosa veniva as­sunta come unica "anima" del legame sociale. Ciò finiva con l'assegnare a quest'ultima, inevitabilmente, uno statuto di superiorità. Si considerino alcuni esempi significativi di questa iniqua divisione dei compiti. La grande questione delle famiglie diverse da quel­la eterosessuale monogamica diventa - nella caricatura che si fa dell'impostazione laica - o semplice questione di perti­nenza dell'Inps o macchietta del "matrimonio gay" (come in un remake dell'indimenti­cabile "culo e camicia" di Pa­squale Festa Campanile, con Renato Pozzetto ed Enrico Montesano, 1981). E, invece, la stessa questione, se trattata dalla cultura cattolica, diventa come per miracolo (è il caso di dire), ragionamento alto e nobile sulla coniugalità, il suo fondamento naturale, le sue radici e le sue mete. In altri termini: da una parte l'opzio­ne laica col suo corredo di di­ritti e doveri, di garanzie da dare e di previdenze da assi­curare, di bisogni sociali da soddisfare e di tutele da salva­guardare. Dall'altra parte, l'opzione cattolica tutta concentrata sul tema dell'amore coniugale e della genitorialità, della procreazione, della famiglia quale cellula essen­ziale della organizzazione sociale. Analogamente, a pro­posito di interruzione volon­taria della gravidanza: per un verso, la cultura laica che si propone in un ruolo di assi­stente volontario, personale sanitario e operatore di con­sultorio familiare; per altro verso, il "discorso cattolico" sul concepimento, sull'em­brione e sulla sacralità della vita. Messa in questi termi­ni, va da sé, non c'è partita. Insomma, nella sfera pubblica, ma anche nella vi­ta quotidiana è come se emergesse una, e una sola, morale: quella di ispirazio­ne religiosa e di impianto confessionale; quasi che non vi fosse - o comunque non fosse cercato, tentato, sperimentato - un altro si­stema di valori, basato su una concezione morale, di derivazione non religiosa; quasi che sull'aborto o sulle unioni civili, sulle questioni "di vita e di morte" non possa esservi una opzione etica altrettanto robusta, non intollerante e non inte­gralista, riferita a una idea del mondo e delle relazioni tra i viventi, eticamente fondata. Quasi che, infine, nel caso del­le unioni civili - ed è solo un esempio - l'intenzionalità di un progetto di vita, la recipro­cità e la mutualità, i valori con­divisi non potessero costituire un fondamento morale altret­tanto solido quanto quello che motiva il matrimonio. E, invece, è del tutto evidente che, se quelle stesse unioni ci­vili venissero argomentate solo ed esclusivamente in ba­se a motivazioni (sacrosante, sia chiaro) di natura previ­denziale o economica, il con­fronto pubblico sul tema ri­sulterebbe palesemente dise­guale. E l'esito di quel con­fronto sarebbe scontato.

Legge sulla fecondazione assistita, non facciamo finta di nulla

Legge sulla fecondazione assistita, non facciamo finta di nulla
Liberazione del 27 febbraio 2008, pag. 3

di Grazia Zuffa
Il clamore intorno all'aborto rischia di far passare sotto silenzio o quasi l'altro contenuto importante della presa di posizione della Federazione degli Ordini provinciali dei medici: la denuncia delle linee guida della legge 40, sulla fecondazione assistita, che «intervengono nella relazione di cura - si legge - definendo atti e procedure diagnostico terapeutiche non fondate sulle migliori evidenze scientifiche disponibili...onde non è consentito al medico di compiere il proprio dovere agendo secondo scienza». E' una denuncia forte di una normativa e di una regolamentazione che in nome di un'ideologia calpestano il diritto alla salute. Su questa base, il documento si dichiara a favore della diagnosi pre impianto degli embrioni e contro l'obbligo di impiantare nell'utero materno tutti gli embrioni prodotti, sulla scia delle sentenze della magistratura.
E' un pronunciamento quanto mai opportuno perché la questione della legge 40 rischiava di finire nel dimenticatoio, tanto che neppure della modifica delle linee guida si parlava più. Eppure va ricordato che la sentenza del Tar del Lazio, dopo quelle del tribunale di Cagliari e di Firenze, ha rinviato la normativa sulla fecondazione assistita alla Consulta per sospetta incostituzionalità, in violazione del diritto alla salute dei bambini e delle donne.
C'è da chiedersi con sgomento il perché di tanta inerzia nonostante l'intervento dei giudici e ora anche la discesa in campo dei medici. Anche perché già nell'ottobre dello scorso anno la relazione al parlamento sull'applicazione della legge 40 tracciava un quadro sconsolante, mostrando che l'era post legge è assai peggiore di quella pre legge, a suo tempo (sconsideratamente) bollata come il far west della fecondazione assistita. Vale la pena ricordarla a tutti gli smemorati: diminuiscono le gravidanze e i bambini nati; crescono i parti plurimi, con conseguente aumento del rischio per i neonati (mentre negli altri paesi diminuiscono); si conferma la migrazione verso i centri esteri di moltissime coppie, alla ricerca dei trattamenti più efficaci e più rispettosi del bene salute. Dunque la relazione già indicava una via: avviare un confronto a tutto campo e di più lungo periodo sull'impianto complessivo della legge, e intervenire d'urgenza con modifiche circoscritte ma significative: permettendo la diagnosi pre impianto; allargando l'accesso alle tecniche anche alle coppie con patologie geneticamente trasmissibili, che solo in tal modo possono evitare di mettere al mondo bambini malati; cancellando l'impianto forzato degli embrioni, permettendone la crioconservazione. Più o meno la strada tracciata dalle sentenze, richiamandosi a principi generali della Costituzione.
Eppure questi principi non sono bastati a smuovere un governo paralizzato (su questo come su altri temi "eticamente sensibili" o meno, dalla regolamentazione delle coppie di fatto, alle droghe, all'immigrazione e così via).
E' vero che iniziative parlamentari lodevoli ci sono state, come il disegno di legge presentato in Senato da Maria Luisa Boccia; ma c'è da dubitare che avrebbe raccolto l'attenzione e i consensi necessari, anche senza il precipitare della fine della legislatura. E' un giudizio amaro, che va tenuto presente per capire il da farsi e muoversi di conseguenza. E' chiaro che anche nella prossima legislatura, la legge e la battaglia parlamentare saranno l'approdo, più che l'inizio, di un percorso politico che va intrapreso con determinazione.
Due le direttrici: la prima è lo sviluppo del discorso intorno alla "miseria" della politica (ben altro - si badi bene - dalla denuncia generica sui misfatti della casta, atta solo a solleticare la piazza e a mantenerla allo stadio prepolitico di impotenza e livorosità). Va invece posta e imposta alle forze politiche una riflessione sul rapporto fra la politica e i temi "eticamente sensibili" (cominciando col mettere in discussione il perché alcuni sono declinati come tali ed altri no). La crescente enfasi su questi ultimi, per i quali si rivendica "libertà di coscienza", va di pari passo col restringersi degli orizzonti e dell'efficacia della politica. Nella legge di cui stiamo discutendo, la sacralità dell'embrione, come "valore non negoziabile", calpesta, come si è visto, il "valore" della tutela della salute, senza che la politica batta un colpo: non più in grado - parrebbe - di riconoscere la dimensione etica del diritto alla salute. Eppure si tratta di un principio di civiltà, che si è affermato come tale nelle società moderne dopo una lunga storia di conflitti politici che hanno attraversato i secoli scorsi. E' un principio riconosciuto, non a caso, nella carta costituzionale, e ciò consente oggi di limitare i danni della legge 40. Ma i principi della Carta hanno bisogno di vivere nel discorso pubblico pena la loro decadenza nella consapevolezza dei cittadini e delle cittadine.
La seconda direttrice passa dall'individuare il terreno innanzi tutto simbolico entro cui si dispiegano i problemi della fecondazione assistita. Contrariamente alla vulgata che si è imposta nello scontro referendario, e che ha convinto anche molte donne, al centro non sono le tecnologie e la divisione non è tanto fra credenti e non credenti nelle sorti progressive della scienza; in scena è la riedizione virulenta del conflitto fra uomini e donne sul controllo del corpo femminile capace di generare, cui le tecnologie offrono nuovi appigli e nuove angolature. La rappresentazione dell'inizio della vita è il filo che unisce la fecondazione assistita al riaccendersi della polemica sull'aborto: la madre che mette al mondo si capovolge nella madre boia della invocata moratoria, o in quella che minaccia i piccolissimi prematuri, "salvati" - si dice - dalle nuove frontiere della scienza. Sui "miracoli" quasi sempre mancati, sul corredo di sofferenze inflitte ai piccoli e dunque alle madri, sui danni gravi spesso provocati ai corpicini dall'accanimento tecnologico, i castigatori delle madri opportunamente tacciono. Nel clamore intorno alla vita, siamo immerse in un silenzio assordante.

lunedì 25 febbraio 2008

I diritti dimenticati

La Repubblica 25.2.08
I diritti dimenticati
di Stefano Rodotà

Negli ultimi giorni l´agenda elettorale è cambiata. Sembrava che i temi riguardanti i diritti civili, le questioni «eticamente sensibili» dovessero rimanerne fuori, per una tacita intesa tra i grandi contendenti, timorosi di discussioni difficili che potevano rendere più polemici i confronti, e così provocare divisioni all´interno di Pd e Pdl. Le cose sono andate diversamente.

Perché qualche irriducibile non si rassegnava a questa rimozione e, soprattutto, perché una cronaca impietosa mostrava una realtà insensibile agli ammiccamenti tra i partiti, com´è avvenuto a Napoli quando una donna che aveva appena interrotto una difficile gravidanza si è trovata nelle mani della polizia. Da qui una fiammata di consapevolezza, con le donne che si riprendono la piazza e la parola; con categorie professionali abitualmente assai prudenti, come quella dei medici, che assumono posizioni nette; con l´arrivo nel Pd delle candidature «scandalose» dei radicali e di Umberto Veronesi.
Qualcuno dirà, ancora una volta, che le elezioni si vincono dando risposte precise ai bisogni materiali, che oggi sono quelli dell´economia, del fisco, del lavoro, della crescita dei prezzi, della sicurezza. In tempi tanto difficili, i diritti civili vecchi e nuovi appartengono ad un «secondo tempo» della politica, sono un lusso che ci si può permettere solo dopo aver risolto le questioni davvero urgenti. «Prima la pancia, poi vien la morale» – canta alla fine del secondo atto dell´Opera da tre soldi di Bertolt Brecht «il re dei mendicanti», Mackie Messer. Ma può la politica vivere senza ideali, senza gettare il suo sguardo al di là delle contingenze, non per sfuggire ad esse, ma per coglierne il significato più profondo? «L´uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio». Anche il non credente coglie in questo passo del Vangelo di Matteo un insegnamento che non può essere trascurato, e che consiste appunto nella necessità di trarre ispirazione da qualcosa che non consista solo nell´amministrazione del quotidiano.
Ma – si può ancora obiettare – tutti i sondaggi ci mostrano che temi come il testamento biologico o le unioni di fatto raccolgono un consenso modesto.
Ora, a parte la considerazione che i risultati dei sondaggi sono fortemente influenzati dal momento in cui sono effettuati e dal modo in cui sono strutturate le domande, l´esistenza di un gruppo di elettori sia pur limitato, ma che farà le sue scelte proprio in base al modo in cui i partiti si pronunceranno su quelle questioni, deve far riflettere quanti sottolineano che il risultato elettorale dipenderà probabilmente dall´orientamento di fasce ristrette dell´elettorato. E, se si vuole rimanere nella dimensione dei sondaggi, vale la pena di ricordare che, quand´era ministro della Salute, Umberto Veronesi aveva un gradimento altissimo, superiore a quello degli altri suoi colleghi di Governo.
Nasce forse da qui il risentimento di alcuni ambienti per le candidature dei radicali e di Veronesi, per il comunicato sui temi della nascita della Federazioni dei medici. Si chiede chiarezza, ma in realtà si è disturbati proprio dal fatto che quelle candidature sono chiarissime, comprensibili per i cittadini senza distorsioni tattiche. Disturbano perché rifiutano il monopolio dell´etica da parte di chicchessia, perché manifestano convinzioni forti, ma in nome del dialogo e del confronto, non della pretesa di schiacciare gli altri sotto il peso di «valori non negoziabili». E´ buona cosa per la democrazia quando tutte le opinioni possono stare in campo con eguale forza e dignità.
Alle considerazioni contenute nel comunicato della Federazione di medici dovrebbero essere riservati lo stesso rispetto e attenzione che ambienti e giornali cattolici dedicarono, qualche settimana fa, a quel che disse un gruppo di primari medici romani sulla necessità di rianimare i feti nei casi di aborti tardivi. Si è sostenuto, da parte dell´«Avvenire», che quel testo non corrisponde al documento effettivamente votato. Chiarimenti a parte su questo aspetto, è bene ricordare che lo stesso giornale riconosce che nella Federazione sono ufficialmente emerse posizioni critiche sulla legge sulla procreazione assistite e di pieno sostegno alla legge sull´aborto ed alla pillola del giorno dopo. Come si diede piena legittimità alla privata presa di posizione dei primari romani, allo stesso modo si deve riconoscere rilevanza ad una posizione espressa nell´ambito della massima organizzazione dei medici, se non altro perché smentisce la tesi tante volte avanzata di un massiccio rifiuto dei medici delle nuove tecniche che la scienza mette a disposizione delle donne.
Arricchita l´agenda elettorale con gli ineludibili temi che riguardano la vita delle persone e i loro diritti, si tratta ora di vedere come questa novità sarà gestita politicamente. La salute si presenta giustamente come un tema centrale, che sollecita l´autocandidatura di Giuliano Ferrara ad occupare quel ministero e fa nascere il timore che, invece, il ministro possa essere proprio Umberto Veronesi. Al futuro ministro, quale che sia, conviene ricordare che, proprio in materia di salute, l´articolo 32 della Costituzione stabilisce che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E´, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall´articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell´articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato. Il governo del corpo e della vita appartiene all´autonomia della persona. Un principio non ispirato da una deriva individualistica, ma memore dell´orribile sperimentazione dei medici nazisti, processati proprio mentre si scriveva la nostra Costituzione. E da quella esperienza nacque il Codice di Norimberga, che subordina ogni intervento sul corpo al consenso dell´interessato.
Tornando al presente, si deve sperare che non si avvii una spirale «compensativa», un bilanciamento affidato a candidature cattoliche. Se così fosse, il Pd diverrebbe prigioniero di una schizofrenia paralizzante, la stessa che nella passata legislatura ha impedito ai disegni di legge sul testamento biologico e sulle unioni di fatto di arrivare in aula. E, poiché è tempo di programmi e di promesse e Veltroni ha parlato della immediata presentazione in Parlamento di una serie di proposte se vincerà il suo partito, si può chiedere un altro impegno. Qualora il Pd non raggiunga la maggioranza, presenti lo stesso le sue proposte e usi gli spazi e i tempi riservati alle opposizioni dai regolamenti parlamentari per chiederne la discussione e sollecitarne il voto.
Certo, in questo modo si corre il rischio della bocciatura. Ma sarebbe peggiore il silenzio, e il rifiuto di chiedere il consenso sociale, di promuovere in concreto la cultura dei diritti. Vi sono comportamenti «impolitici» che sono il miglior antidoto all´antipolitica.

domenica 24 febbraio 2008

Un alleato per le donne

La Repubblica 24.2.08
Un alleato per le donne
di Miriam Mafai

Da oggi abbiamo un alleato in più. E un alleato importante, competente, autorevole. Tutte noi, che ci battiamo per il mantenimento e l´applicazione della legge 194.
Coloro che sono già scese in piazza nelle passate settimane per protestare contro l´aggressione di cui è stata vittima, a Napoli, una madre che si era sottoposta ad aborto terapeutico, tutte coloro che si propongono di manifestare il prossimo 8 marzo, a difesa della loro dignità di cittadine, tutte noi insomma da oggi siamo meno sole. Abbiamo da oggi al nostro fianco un alleato in più. E un alleato importante, competente, autorevole. La Federazione degli Ordini dei Medici si è espressa infatti ieri a difesa della legge 194 sull´interruzione di gravidanza che, a trent´anni dalla sua approvazione, dimostra, scrive il documento, «tutta la solidità e la modernità del suo impianto tecnico-scientifico giuridico e morale» Non basta. La stessa Federazione si esprime contro le «surrettizie limitazioni» all´uso della pillola RU486, il farmaco abortivo già in uso da tempo in quasi tutti i paesi europei e adottato tra mille polemiche anche in alcuni ospedali italiani (tra cui quello di Torino, ad opera del medico Silvio Viale).
Non basterà certo questa ragionevole presa di posizione dei medici italiani a convincere coloro, come Giuliano Ferrara, che hanno voluto introdurre in questa campagna elettorale il tema dell´aborto e della sua «moratoria» come tema centrale, discriminante. Da una parte cioè i «pro-life» coloro che pretendono di difendere fin dal suo inizio la vita, dall´altra parte le donne che fanno ricorso all´aborto o in nome di un astratto diritto all´autonomia personale o, ancor peggio, in nome di un irragionevole desiderio del figlio perfetto (orrore dell´eugenetica…).
Ci piacerebbe considerare questa presa di posizione della Federazione dei Medici italiani come la richiesta o il segno di un «fine partita» su questo tema. O meglio come l´invito a rinunciare ad agitare il tema dell´aborto nel corso di questa campagna elettorale, con le sue inevitabili violente, demagogiche contrapposizioni. Temiamo però che non sarà così. E che ci sarà ancora chi, come Ferrara, continuerà a parlare della Pillola RU486, come di un veleno, di un «prezzemolo moderno» chiedendone il divieto per legge. E continuerà nella sua campagna di colpevolizzazione delle donne che alla legge 194 fanno ricorso, o meglio sono costrette a fare ricorso per ragioni che attengono alle loro condizioni sociali o di salute.
Noi, per parte nostra, continueremo, nel corso di questa campagna elettorale e dopo a chiedere non solo il mantenimento della legge 194 e il rispetto delle donne che vi fanno ricorso, ma anche la sua totale applicazione. E per totale applicazione intendiamo un migliore funzionamento dei consultori anche per quanto si riferisce all´aiuto da offrire alle donne in difficoltà.
Siamo il paese in Europa che meno di tutti gli altri (dalla Francia alla Germania) sostiene il desiderio o il diritto delle donne alla maternità. Siamo un paese nel quale una donna che mette al mondo un figlio è lasciata sola, priva di ogni assistenza tutela che non le venga dalla sua famiglia. Siamo un paese nel quale esistono ancora, sia pure illegali, i cosiddetti «licenziamenti per gravidanza o maternità». Siamo un paese, in Europa, con il minor numero di posti nei nidi e negli asili. Sono convinta che solo un diverso, generoso sistema di assistenza alle madri e ai loro bambini potrebbe far diminuire ancora il numero degli aborti, già fortemente ridotto, più che dimezzato nel corso degli ultimi anni. Chi vuole davvero una diminuzione degli aborti lungi, dal colpevolizzare le donne costrette a farvi ricorso, dovrebbe invece impegnarsi a chiedere e ottenere il rispetto delle leggi già esistenti a tutela della maternità e l´approvazione di nuove misure adeguate (e generose) a favore delle famiglie, di tutte le famiglie, di diritto e di fatto che esistono nel nostro paese.
Alcune misure annunciate nel programma del Partito Democratico muovono in questa direzione. Si tratta, dopo un lungo silenzio o sottovalutazione del problema, di un segnale positivo. Capace, se e quando verranno adottate, di ridurre ancora il numero degli aborti nel nostro paese.

L’Europa è più avanti

La Repubblica 24.2.08
L’Europa è più avanti
Alessandra Kustermann, ginecologa alla Mangiagalli: "È una riflessione seria lasciamo le ideologie fuori dagli ospedali"
di Laura Asnaghi

Da tempo ci battiamo per la rapida applicazione della Ru486. Stiamo parlando di una pillola diffusa da anni in tutto il continente, e che in Italia ancora non ha avuto il via libera dell´Agenzia del farmaco
"L´Ordine dice a chiare lettere che la legge serve alla tutela della salute delle donne"

MILANO - «Con questa presa di posizione la Federazione dell´Ordine dei medici dimostra di essere molto avanti rispetto alla valanga di polemiche che negli ultimi mesi hanno imperversato sulla 194». Alessandra Kustermann, la ginecologa della Mangiagalli da sempre impegnata in difesa della legge sull´aborto, giudica positivamente il documento approvato ieri a Roma dall´Ordine dei medici.
Dunque, per i "camici bianchi" la legge è buona e non va modificata.
«Certo, questo è quello che si dice a chiare lettere nel documento scritto dalla Federazione degli Ordini. In sostanza, si conferma che la legge, a distanza di trent´anni, funziona bene e soprattutto serve alla tutela della salute delle donne. Si riconosce, in sostanza, che la legge ha contribuito a cancellare, quasi del tutto, la piaga dell´aborto clandestino e quindi non va modificata».
Che peso ha questo documento di fronte all´ondata di critiche che si è abbattuta sulla 194?
«È un punto fermo, una certezza, nel mare di polemiche che si agitano contro la legge sull´aborto».
Vale a dire?
«Il documento rappresenta la voce dei medici, quelli chiamati ad applicare una legge dello Stato. Bene, loro si sono espressi e hanno dichiarato, in maniera scientifica, e non viziata da ideologie, che la 194 funziona, aiuta le donne a risolvere un problema, senza mettere a repentaglio la loro vita».
Il documento contiene anche un appello per una rapida applicazione della Ru486, la pillola che consente l´aborto farmacologico.
«È una battaglia che noi medici stiamo facendo da tempo e ci auguriamo che la presa di posizione della Federazione possa servire a smuovere ulteriormente le acque».
Sì ma, in Italia, le resistenze nei confronti della Ru486 sono ancora molto forti.
«È vero. Ma stiamo parlando di una pillola ormai diffusa da anni in tutta Europa, in ambito ospedaliero, e che da noi non ha ancora ottenuto il via libera dell´Aifa, l´Agenzia italiana del farmaco. Ci auguriamo che la situazione si possa sboccare in pochi mesi. Del resto, non possiamo restare il fanalino di coda dell´Europa anche su questo fronte».
Ma i medici cattolici sono ferocemente contrari alla Ru486 e quando si parla della sua autorizzazione in Italia si scatenano ancora battaglie pro e contro la pillola.
«La realtà è questa ma bisogna andare al di là dell´emotività e ragionare in maniera pacata, come ha fatto la Federazione dell´Ordine dei medici. Con il documento, emesso ieri, l´Ordine non fa che ribadire che la pillola abortiva, nel rispetto delle procedure previste dalla 194, è una tecnica più moderna per l´aborto e può rappresentare una opzione per le donne».
Ma lei se l´aspettava che l´Ordine dei medici prendesse questa posizione pro 194?
«Non avevo dubbi e mi fa piacere che il documento faccia riferimento anche alla prevenzione, mettendo l´accento sulla educazione sessuale e il sostegno sociale ed economico alle immigrate o alle adolescenti, e più in generale alle donne in difficoltà».

Viaggio negli ospedali romani

l’Unità 24.2.08
Viaggio negli ospedali romani
Pillola del giorno dopo, una chimera tra medici obiettori e lunghe attese
di Gioia Salvatori

La nostra ricerca per avere una prescrizione è durata 15 ore: c’è chi non l’ha prescritta perché non ginecologo, chi perché cattolico

Qualunque medico può prescriverla, al pronto soccorso, al consultorio, nell’ambulatorio del medico di famiglia. Di fatto, però, molti fanno obiezione di coscienza e per averla può non bastare neppure recarsi al pronto soccorso ginecologico. La pillola del giorno dopo è un anticoncezionale d’emergenza, niente a che vedere con aborto e Ru 486, ma la sua prescrizione a Roma, soprattutto la notte e nei weekend, è una chimera. L’odissea di coppie, donne sole e turiste alla ricerca della pillola che non c’è, può protrarsi per ore tra obiezioni di coscienza, per altro ammesse solo per la 194, e file.
Il nostro viaggio alla ricerca della prescrizione è durato una notte e mezza giornata, tra lunghi viali bui di grandi presidi ospedalieri da percorrere, portieri sonnacchiosi in guardiola, silenziosi corridoi d’ospedale e asettiche sale d’attesa. Dall’altra parte, la notte, c’è un infermiere di pronto soccorso che fa da filtro e ti consiglia di andare altrove, di giorno c’è un assistente sociale di consultorio, una donna solidale e cortese, che fa quello che può per aiutarti, in uffici pubblici tappezzati da manifesti sui servizi della Asl per bambini, famiglie e donne in maternità. Tra i medici c’è chi non prescrive la pillola del giorno dopo perché non è ginecologo, chi non la prescrive perché è obiettore e chi non la dà perché l’ospedale è cattolico. Con angoscia della povera malcapitata alle prese con una corsa contro il tempo, magari by night o nel traffico della Capitale. La pillola del giorno dopo, infatti, se presa entro 72 ore dal rapporto a rischio, nel 75 per cento dei casi evita la gravidanza ma è più efficace se si prende entro 12 ore. A noi, però, che l’abbiamo cercata la notte tra mercoledì e giovedì, sono servite 15 ore solo per avere la ricetta.
Prima tappa l’isola Tiberina, ospedale Fatebenefratelli, dove, essendo il presidio pubblico ma di proprietà dell’Ordine, già alla accettazione dicono: «No, qui non si dà è un ospedale cattolico». Al pronto soccorso del C.t.o. anche c’è un medico obiettore. Ce lo dice un infermiere chiamato dopo 30 minuti passati in anticamera, in attesa di parlare con «la dottoressa di turno». Ci consiglia di recarsi al Sant’Eugenio o al San Camillo, dove c’è il pronto soccorso ginecologico: «E magari la danno perché - dice - la può prescrivere solo il ginecologo. Vuoi parlare con i medico? Fai l’accettazione, compili il foglio e aspetti: codice bianco». Anche al San Giovanni c’è il pronto soccorso ginecologico, ma entrambi i medici in turno la notte tra mercoledì e giovedì, sono obiettori. «Inutile anche parlarci - dice l’infermiera dell’accettazione - vieni domattina al nostro ambulatorio per la pianificazione famigliare, o vai al consultorio di via Monza». È a via Monza che ci rechiamo l’indomani mattina ma l’assistente sociale prende il nome della malcapitata e dice che: «L’informazione data dal San Giovanni è improvvisata: qui il medico di turno, stamattina, è un pediatra». Dopo un rapido check dei consultori più vicini all’abitazione della paziente e una telefonata, arriva un appuntamento per il pomeriggio, ore 16.30, al consultorio del quartiere Garbatella. Qui, nel cuore della scuola resa nota dal film «I Cesaroni», dopo un’ora di attesa, la compilazione della cartella clinica e anche di un foglio sul consenso informato sui rischi del farmaco, arriva l’agognata ricetta con su scritto «Norlevo». Dopo 15 ore, 4 medici obiettori, tre ospedali visitati nella notte e informazioni sbagliate. «Ma sono stata sfortunata o è sempre così?». «Sempre così - dice il ginecologo non obiettore, sconsolato - Sembra che questo servizio debba ricadere solo sulle spalle dei consultori. Tutti obiettano ma non è mica un farmaco abortivo».
L’obiezione di coscienza, infatti, è prevista per la legge 194. Per la pillola del giorno dopo, ha stabilito il Comitato nazionale di bioetica, c’è la «clausola di coscienza», concetto più sfumato che si traduce, comunque, in un esonero del medico. Autorità ed istituzioni competenti, però, ha deliberato il Cnb, devono vigilare affinché l’esercizio della clausola di coscienza non si traduca di fatto nella restrizione delle libertà e diritti riconosciuti. Inoltre, si legge nel codice deontologico dei medici, l’obiettore deve fornire informazioni utili alla donna e non si può esonerare dalla prestazione se c’è grave e immediato nocumento per la sua salute.
Anche se non sempre vanno di pari passo mancata prescrizione della pillola del giorno dopo e obiezione per la legge 194, di fatto avere questo farmaco a Roma, con il 77, 7 per cento dei medici del Lazio obiettori, è complicato. Il metodo più sicuro per la prescrizione in tempi rapidi sono i medici di famiglia, che fanno la ricetta forti di una conoscenza clinica della paziente, e gli ambulatori per la 194. «Le controindicazioni di un aborto sono cento volte maggiori di quelle della pillola del giorno dopo - dice Pier Luigi Bartoletti della Fimmg Lazio - Le pazienti che rimangono incinte per mancata prescrizione della pillola del giorno dopo nonostante si siano mosse in tempo e abbiano seguito le indicazioni degli addetti ai lavori, a parer nostro possono citare il medico che gliel’ha negata se riescono a dimostrare il rapporto causa-effetto tra la mancata prescrizione e danni conseguenti».
Al pronto soccorso ginecologico dell’ospedale romano San Camillo c’è quasi sempre un medico non obiettore. Per avere la pillola si fa il normale triage: codice bianco e ticket di 25 euro più 12 per comprare la pillola in farmacia. «Come fa una ragazzina di 16 anni? - dice la responsabile del day hospital legge 194 del San Camillo, Giovanna Scassellati - Così non c’è prevenzione, per questo abbiamo chiesto al ministro Turco di declassare a farmaco da banco questa pillola e di abolire il ticket se viene prescritta al pronto soccorso. Il nostro appello è anche per le Regioni e le direzioni sanitarie. Alle donne invece dico: compratela prima e tenetela in casa. Una volta è venuta una spagnola respinta in 7 ospedali il giorno di Pasqua. Vallo a spiegare ai turisti, che in molti paesi europei trovano questo farmaco al banco, perché qui averlo è così difficile». Dal fronte i medici attendono il passaggio alla conferenza Stato regioni dello schema d’accordo per l’applicazione della legge 194 che prevede, tra l’altro, pillola del giorno dopo in pronto soccorso e guardie mediche e un medico non obiettore in ogni distretto sanitario.
Alle prese con la pillola che non si trova, intanto, ci sono coppie di tutte le età e tante giovanissime. «Nei nostri consultori - dice il direttore dell’Aied Roma, Enzo Spinelli - il sabato mattina c’è la fila degli universitari, in numero quasi pari a quanti ne vengono durante la settimana. Due settimane fa è venuta una coppia a cui in un ospedale avevano detto che la pillola del giorno dopo non esiste». Almeno, loro sanno che c’è una pillola del giorno dopo. Immigrate e rom, non sempre sono informate. «Non ho visto uteri bucati ma tanti tentativi, sempre negati, di aborto clandestino farmacologico - racconta un’infermiera dal pronto soccorso del San Camillo - soprattutto tra immigrate. Spesso le donne non sanno della pillola del giorno dopo e neppure che si può avere la prescrizione gratuita, senza il triage del pronto soccorso, all’ambulatorio della 194, che è quasi in ogni ospedale che pratica Ivg e dove è sicuro che ci sono medici non obiettori».
Avuta la ricetta bisogna andare in farmacia. Quella che i farmacisti non danno la pillola del giorno dopo, somiglia a una leggenda metropolitana: «L’abbiamo sempre venduta, non è un farmaco abortivo ma un anticoncezionale d’emergenza: allora non si dovrebbero vendere neppure gli altri anticoncezionali - dice una farmacista cattolica - Invece vendere la Ru 486, se dovesse essere messa in commercio, mi creerebbe un problema di coscienza, non credo la fornirei». Rispetto alla pillola del giorno dopo si esprime anche Federfarma: «Se c’è una ricetta medica non possiamo tirarci indietro - dice Annarosa Racca del consiglio di presidenza - Per i farmacisti non è prevista l’obiezione di coscienza: devono dare il farmaco e, qualora non l’avessero, procurarlo nel più breve tempo possibile». Tempo che magari è quello che resta tra il rapporto a rischio e le 12 ore successive, le più utili a evitare la gravidanza con la pillola del giorno dopo: «Quella che le donne, con la paura di una gravidanza indesiderata - dice l’infermiera del San Camillo - vorrebbero dopo cinque minuti». E invece trascinando l’angoscia lungo bui viali d’ospedale, asettiche sale d’attesa, medici obiettori e informazioni sbagliate, una donna, a Roma, capita che aspetti anche 15 ore.

Aborto, i medici: la 194 non si tocca

l’Unità 24.2.08
Aborto, i medici: la 194 non si tocca
«È una legge moderna». Appello per la pillola del giorno dopo ma trovarla è una chimera
di Giuseppe Vittori

Basta attacchi alla legge 194, «a trent’anni di distanza dimostra tutta la solidità e la modernità del suo impianto tecnico-scientifico, giuridico e morale». Scende il campo la Federazione degli Ordini dei medici per replicare all’offensiva aperta, in modo più o meno strisciante, contro la legge sull’interruzione della gravidanza. Dal Consiglio nazionale in corso a Roma, i medici lanciano anche un appello per «l’uso delle tecniche più moderne e rispettose dell’integrità psicofisica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza», come la RU 486, praticamente sconosciuta in Italia. Così come è sempre più difficile reperire la pillola del giorno dopo, tra medici (e persino farmacisti) obiettori e lunghe attese soprattutto per le donne più giovani.

«PUR SCONTANDO ritardi ed omissioni applicative, la legge 194, a distanza di 30 anni, dimostra tutta la solidità e la modernità del suo impianto tecnico-scientifico, giuridico e morale». È questa l’opinione di Fnomceo, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, ribadita nel corso del Consiglio nazionale della federazione, in corso a Roma. Per Fnomceo, occorre supportare la legge 194, «incrementando l’educazione alla procreazione responsabile, il supporto economico e sociale alla maternità soprattutto in quelle aree dove il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza resta alta, quali ad esempio adolescenti ed immigrate». Per quanto riguarda l’aborto farmacologico, relativo all’uso del farmaco RU486 associato alle prostaglandine, la Federazione riafferma la necessità di dare piena e compiuta attuazione alla legge, compreso l’art. 15, laddove raccomanda «l’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità psicofisica della donna e meno rischiose per l’interruzione di gravidanza».
«Sulle delicate questioni che animano il dibattito bioetico - spiega Fnomceo - il nostro Codice Deontologico oltre ad essere una guida per i medici, è una sicura garanzia per il cittadino». Se può essere riassunto in uno slogan il documento ampio e articolato, che è uscito a Roma, dal Jolly Hotel, dove è ancora in corso un dibattito del Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, questo potrebbe esserlo. Durante il loro Consiglio Nazionale, i rappresentanti dei camici bianchi di 103 Ordini provinciali hanno parlato di tutti i temi etici che tanto coinvolgono in questo momento la società ed il confronto politico: Aborto, RU486, Pillola del giorno dopo, Procreazione medicalmente assistita, Rianimazione di prematuri con età gestazionale molto bassa (22-25 settimane). Una ad una sono state analizzate le tematiche connesse alla contraccezione, alla procreazione e alla interruzione di gravidanza, lanciando un monito ad abbassare i toni ed evitare qualsivoglia strumentalizzazione.
«Si ritiene che questioni così delicate - si legge infatti nel Documento di Fnomceo - che si riferiscono a quanto di più intimo e personale coinvolga la donna, la coppia e la società meritino grande rispetto ed un confronto sociale e politico meno strumentale, meno ideologico, più attento al grande bagaglio di sofferenze che sempre accompagna questi tormentati cammini che ricadono sulle donne, spesso lasciate sole in queste drammatiche circostanze». E la Fnomceo ribadisce di voler essere garante di questa tutela. «L’autonomia e la responsabilità della nostra professione - è infatti scritto nel testo del Documento - si pongono come garanti di un’alleanza terapeutica fondata sul rispetto dei reciproci valori, diritti e doveri». intenda prevenire una gravidanza indesiderata ed un probabile successivo ricorso all’aborto». In sostanza, pur riaffermando con forza il diritto del medico alla clausola di coscienza prevista all’art. 22 del Codice Deontologico, va ricordato l’obbligo, ivi previsto, del medico di «fornire al cittadino ogni utile informazione e chiarimento». In altre parole, la tensione tra il diritto del medico alla clausola di coscienza e quello del cittadino alla fruizione della prestazione riconosciuta come disponibile, non fa venir meno l’obbligo anche deontologico dei medici ad operarsi al fine di tutelare l’accesso alla prestazione nei tempi appropriati.

sabato 23 febbraio 2008

Chiesa cattolica: la piu’ grande diocesi degli stati uniti dichiara fallimento per far fronte a spese legali

Chiesa cattolica, Poretti: la piu’ grande diocesi degli stati uniti dichiara fallimento per far fronte a spese legali

21 febbraio 2008

• Intervento dell'on Donatella Poretti parlamentare radicale della Rosa nel Pugno, segretaria della Commissione Affari Sociali

La piu’ grande diocesi cattolica statunitense, quella di Fairbanks in Alaska, ha avviato la procedura fallimentare per far fronte alle spese legali derivanti dalle molestie sessuali perpetrate da preti pedofili. Sono circa 150 i casi giudiziari che la Chiesa cattolica deve affrontare in quella Diocesi. Gli abusi sessuali avrebbero avuto luogo fra gli anni ’50 e ’80.

Gia’ a novembre 2007, un ordine cattolico in Alaska aveva accettato di risarcire ben 50 milioni di dollari a piu’ di 100 nativi per abusi commessi da preti gesuiti.

Quella di Fairbanks si aggiunge cosi’ ad un lungo elenco di diocesi statunitensi che, pur di evitare migliaia di cause pubbliche in cui gli imputati non erano solo i singoli preti pedofili ma anche le gerarchie che li avevano protetti, stanno faticosamente cercando di risarcire bonariamente le proprie vittime.

Altre diocesi Usa in procedure fallimentari sono quelle di: San Diego, Davenport, Tucson, Spokane, Portland.

Mi chiedo solamente per quale motivo debba essere io a dare queste notizie nel Paese dove l’informazione sulla Chiesa Cattolica e’ sempre attentissima e approfondita. Il Papa appare in televisione piu’ del presidente del Consiglio, e per invitare qualcuno a questa o a quella trasmissione della tv pubblica basta la telefonata di un cardinale. E l’ampio spazio dedicato all’informazione politico-religiosa (quasi esclusivamente cattolica) pare trovare giustificazione proprio nella presunta superiorita’ morale delle istituzioni cattoliche. E’ forse questo mito che si cerca di proteggere?

da: http://www.radicali.it/view.php?id=117029

Silvio Viale: ho fatto quasi sempre interventi per la salute psichica della gestante

Corriere della Sera 23.2.08
«Conta la donna, normali gli aborti con feti sani»
Silvio Viale: ho fatto quasi sempre interventi per la salute psichica della gestante
intervista di Alessandra Arachi

ROMA — Silvio Viale, torinese, ginecologo. Lei è un forte sostenitore della pillola Ru486?
«È dal 2001 che ho cominciato a chiedere l'aborto medico in Italia. Finalmente ci siamo».
Ci siamo? « Certo, l'autorizzazione per la Ru486 arriverà a breve. Ormai abbiamo superato tutti i passaggi internazionali, manca solo il mutuo- riconoscimento».
Eppure...
«Eppure c'è chi, come Giuliano Ferrara, ha detto che vuole impedirne l'introduzione?».
Già.
«Non ha capito niente».
Lei invece? « Parlo con cognizione di causa ».
È stato indicato dai radicali come candidato per il Pd. Non sarà facile conciliare le sue idee con alcune anime del partito...
«Se allude a Paola Binetti, non mi spavento».
Come mai?
«Paola Binetti ha detto che non vuole mettere in discussione il principio di autodeterminazione della donna».
Ma ha detto anche che vuole arrivare all'aborto zero...
«Quello non ha senso. È come dire di voler abolire la miseria del mondo. O che non si vuole parlare con chi è brutto. Non credo si possa discutere partendo da qui».
Partiamo dall'aborto terapeutico allora?
«Lasciamo stare però le sparate mediatiche di Giuliano Ferrara sulla sindrome di Klinefelter».
Lui ha detto di soffrirne...
«Se è per questo ha detto anche di essere stato il partner di tre donne che ha accompagnato ad abortire. Non può avere la Klinefelter: sarebbe sterile, oltre che glabro, ritardato mentale, alto. Ma il punto non è questo».
E qual è, allora?
«Ferrara ha chiesto di togliere questa sindrome dalla lista delle patologie per l'aborto terapeutico. Ma non lo sa che non esiste nessuna lista?».
E come si stabiliscono gli aborti terapeutici?
«In Italia non si fa un aborto terapeutico perché il feto è malformato, ma in base alla salute psichica e fisica della donna. In vent'anni di interventi mi sarà capitato un paio di volte di fare un aborto terapeutico per la salute fisica di una donna».
Tutti gli altri?
«Per la salute psichica della donna. Che vuol dire anche far abortire feti sani».
Lei ha fatto aborti terapeutici di feti sani?
«Certo. Lo prevede la legge. Ripeto è un problema di salute psichica della donna».
In quali casi, ad esempio?
«Non so: vogliamo parlare di una quindicenne che scopre di essere incinta al quarto mese?».
Oppure?
«Una donna che alla quindicesima settimana mi chiede un aborto terapeutico ed è gravemente depressa?».
Ma come ci si regola in questi casi?
«Tocca al medico valutare il reale stato psichico della donna. È una responsabilità importante. La stessa Veronica Lario ha raccontato di aver fatto un aborto terapeutico negli anni Ottanta. Ed è stato importante, visto i tre bei figli che poi ha avuto».
Lei si rende conto che ci sono medici e medici nel nostro Paese?
«Certo, ma mi rendo conto anche che c'è molta ipocrisia».
Che vuol dire?
«Prendiamo il caso di feti malformati: davanti alla diagnosi la reazione delle donne è sempre la stessa, abbiano o no il crocifisso al collo. Eppure il 99% dei medici obiettori di coscienza si offre di fare una diagnosi prenatale. Dopo spediscono le donne ad abortire da me o da medici come me».
Lei è favorevole anche all'eutanasia?
«Assolutamente sì. E c'è di più».
Cosa?
«Sono convinto che pure per quella non resta che aspettare. Come successe per la Ru486. Io nel 2001 dissi: non ho fretta, arriverà. E ci siamo. Così succederà per l'eutanasia: arriverà».
I radicali l'hanno candidata per la corsa al Partito democratico: è ufficiale?
«Non ci sono veti sul mio nome ».

venerdì 22 febbraio 2008

La teoria del caso contro la fede

Corriere della Sera 22.2.08
Ipotesi. In un saggio di Brian Everitt la storia di una disciplina matematica nata a un tavolo da gioco
La teoria del caso contro la fede
Rifugiarsi nella religione o affidarsi alla statistica: alle origini della scienza
di Sandro Modeo

«In principio era il Caso, e il Caso era presso Dio, e il Caso era Dio». Questa variazione eversiva del sublime incipit del Vangelo di Giovanni — attacco del romanzo L'uomo dei dadi di Luke Rhinehart (Marcos y Marcos) — è incisa sulla porta d'ingresso del percorso cui ci invita Brian Everitt, direttore dell'Istituto di Biostatistica al King's College di Londra, con il saggio Le leggi del caso (Utet).
Se in principio c'è il caso, il caso diventa il principio-guida di una lunga cascata di eventi: «per caso» il nostro universo (come i molti universi paralleli ipotizzati dalla fisica) è sbocciato da una fluttuazione del vuoto o, almeno, dall'esplosione di un agglomerato superdenso, portando con sé anche l'idea del tempo; «casuali» sono le incessanti mutazioni senza scopo con cui l'evoluzione ha operato (come un «orologiaio cieco ») per selezionare le specie più adatte nel rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente; e la «casualità» sovrintende ai tanti microeventi che condizionano la nostra esperienza individuale, come infiniti «sentieri che si biforcano».
Immerso in questa tirannia dell'aleatorio, l'uomo può reagire soprattutto in due modi. Può affidarsi a una prospettiva — quella religiosa — che inquadra il caso come una limitazione del nostro sguardo, incapace (secondo sant'Agostino) di cogliere le regole e l'armonia del paesaggio cosmico; prospettiva, com'è noto, insita anche in certe implicazioni della scienza (il famoso «Dio non gioca ai dadi» di Einstein). Oppure — più modestamente — può affidarsi alla disciplina di Everitt, la statistica, sola strategia per venire a patti col caso e rendere «l'incertezza più certa».
La riconduzione del caso al divino nel mondo antico — ricorda Everitt nella parte storica del libro — ha prodotto una lunga serie di sopraffazioni arbitrarie, se ai dadi (e al loro antefatto, gli astragali, ricavati dalle ossa della caviglia di pecora) venivano affidate la giustizia (come nell'antica Roma) o la distribuzione della terra (come testimonia la Bibbia). E anche molto dopo la sconfessione di tale pratica da parte del cristianesimo (i dadi, per san Cipriano, sono una creazione di Lucifero), la concezione oracolare del caso ha continuato a produrre orrori: nella colonia penale dell'isola australiana di Norfolk — negli anni Trenta dell'Ottocento — veniva imposto un sorteggio di pagliuzze tra coppie di detenuti, che designava come condannato chi pescava la più corta e come boia chi pescava la più lunga. Del resto, prima di rendersi autonoma, la statistica stessa nasce come «effetto collaterale» delle scommesse nelle bettole e nei caffè sei-settecenteschi: snodo decisivo, il rapporto tra il Cavalier de Méré — accanito giocatore di dadi che sembra uscito da Barry Lyndon di Kubrick — e il suo «consulente» Pascal.
Affidarsi alla statistica e al calcolo delle probabilità — come a ogni altra scienza — significa anzitutto procedere contromano rispetto al senso comune e ai pregiudizi. Everitt allerta così i giocatori e gli scommettitori di ogni ramo (roulette, poker, cavalli) a non lasciarsi travolgere dalle «rotazioni immaginarie» del malinteso concetto di «media»: dopo dieci lanci di monetina in cui è uscito «testa», la probabilità che esca «croce » all'undicesimo, è la stessa che al primo, cioè il 50 per cento. Oppure invita i cultori della «coincidenza » (quelli che rimangono sconvolti per aver sognato dopo molto tempo un parente il giorno prima che morisse) a collocare gli eventi sorprendenti nella legge dei grandi numeri, senza confondere il «raro» col «soprannaturale». Che una coincidenza abbia «una probabilità su un milione» di realizzarsi, significa, in un Paese come gli Stati Uniti (di 250 milioni di abitanti), 250 coincidenze al giorno e quasi 100.000 l'anno. Non solo. Entrando nel vivo della propria professione, Everitt dimostra come la statistica possa fornire contributi decisivi alla scienza medica. L'evidenza empirica dei dati nella sperimentazione clinica, infatti (specie attraverso il cosiddetto «doppio cieco», cioè col medico e il paziente all'oscuro della cura sotto verifica), ha da un lato falsificato certe teorie della medicina ufficiale (quella sulla vitamina C come rimedio per il raffreddore) o evidenziato l'ambiguità di certe pratiche diagnostiche (vedi il lungo capitolo sui «falsi positivi» di certi esami), dall'altro ha drasticamente ridimensionato l'efficacia di tante cure alternative, dall'agopuntura all'omeopatia.
L'unica domanda inevasa — nel percorso di Everitt — è quella sull'ostinazione con cui sfidiamo certe leggi fino al masochismo. Eppure la biologia evoluzionistica e la neuropsicologia ce lo spiegano in modo convincente. Se continuiamo a puntare in un ippodromo o in un casinò sapendo di arricchire gli allibratori o il banco, è per una forma di addiction, di dipendenza, in cui il rischio fine a se stesso scatena maggior piacere persino della vincita. Se vediamo coincidenze dappertutto, è perché il nostro cervello è programmato per scremare ordine dal caos e senso dal nonsenso. E se giochiamo alla lotteria pur avendo chances quasi nulle di successo, è perché immaginarsi una vita più agiata aiuta a sopportare l'opacità di quella che conduciamo. In fondo, anche nei nostri comportamenti più complessi, siamo guidati da pulsioni adattative: per vivere o solo per sopravvivere, dobbiamo ricorrere all'illusione e al sogno; qualche volta, anche alla menzogna.

L'autore
Brian Everitt dirige l'istituto di Biostatistica al King's College di Londra.
Il suo libro «Le leggi del caso. Guida alla probabilità e al rischio», traduzione di Costanza Masi è edito da Utet (pp. 194, e 20)

Valori e diritti nei conflitti della politica

La Repubblica 22.2.08
Valori e diritti nei conflitti della politica
di Gustavo Zagrebelsky

Dietro ai conflitti della politica un paese diviso dai grandi dilemmi della bioetica
Dalla legge sull´aborto alle questioni legate alla vita nelle sue diverse forme
Ecco la storia di due concetti che hanno segnato la civiltà occidentale

Non si parla mai tanto di valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono "eticamente sensibili" (come se le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un´ostentazione di valori. Tanto più perentoriamente li si mette in campo, tanto più ci si sente moralmente a posto. Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.
Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l´autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l´inizio e la conclusione dell´agire "per valori" può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell´etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un´altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.
Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono "tirannici", cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di "tirannia dei valori" e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all´etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.
Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all´azione. La massima dell´etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un´immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l´azione c´è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d´uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce "per principi" si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d´una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all´autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all´etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.
Passando ora da queste premesse in generale alle loro conseguenze circa il modo di legiferare sulle questioni "eticamente sensibili" di cui si diceva all´inizio, avvicinandoci così alle discussioni odierne sul tema dell´aborto, qui prese a esempio (ma ci si potrebbe riferire anche ad altro, come l´eutanasia, la fecondazione assistita, ecc.), si può stabilire un´altra differenza a seconda che si adotti l´etica dei valori o quella dei principi. Nel primo caso (il caso del valore), saranno appaganti le norme giuridiche che proteggono in assoluto il bene assunto come valore prevalente, e inappaganti le norme giuridiche che danno rilievo, cercando di conciliarli relativizzandoli l´uno rispetto all´altro, a beni diversi. Possiamo parlare, per gli uni, di assolutismo etico-giuridico; per i secondi, di pluralismo (non certo, evidentemente, di relativismo etico, equivalente a indifferenza morale).
Nell´assolutismo, si trovano a casa propria tanto coloro che parlano dell´aborto, né più né meno, come di un assassinio (oggi si dice "feticidio"), quanto coloro che ne parlano come diritto incondizionato. Assassinio e diritto sono due modi per dire il riconoscimento assoluto, come valori, della vita o della libertà. I primi, in nome del valore prevalente della vita del concepito, si disinteressano di tutto il resto: la salute e la vita stessa della donna, messa in pericolo dagli aborti illegali e clandestini; i secondi, in nome dell´autodeterminazione della donna come valore prevalente, si disinteressano della sorte del concepito. Costoro, pur su fronti avversi, si muovono sullo stesso terreno e possono farsi la guerra. Ma, tutti, si troveranno insieme, alleati contro coloro che, ragionando diversamente, non accettano il loro assolutismo.
Questo ragionar diversamente, cioè ragionar per principi, è certo assai più difficile, ma è ciò che la Costituzione impone di fare: la Costituzione, ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi. Orbene, la Costituzione, attraverso l´interpretazione della Corte costituzionale, dice che nella questione dell´aborto ci sono due aspetti rilevanti, due esigenze di tutela, due principi: l´uno, a favore del concepito la cui situazione giuridica è da collocarsi, "con le particolari caratteristiche sue proprie", tra i diritti inviolabili della persona umana, il diritto alla vita; l´altro, a favore dei diritti alla vita e alla salute, fisica e psichica, della madre, che può essere anch´essa "soggetto debole". Quando entrambe le posizioni siano in pericolo, occorre operare in modo di salvaguardare sia la vita e la salute della madre, sia la vita del concepito, quando ciò sia possibile. Quando non è possibile, cioè quando i due diritti entrano in collisione, deve prevalere la salvaguardia della vita e della salute della donna, "che è già persona", rispetto al diritto alla vita del concepito, "che persona non è ancora". Dunque: si parla di diritti della donna e del concepito, ma non si parla mai di aborto come (dicono i giuristi) "diritto potestativo" della donna, né, al contrario, di dovere di condurre a termine la gravidanza. Ci si deve districare tra le difficoltà e non ci sono soluzioni a un solo lato.
Non interessa, ora, se la legge 194 bene abbia svolto il suo compito. Interessa il modo di ragionare e di porsi di fronte a questo "problema grave", un modo non intollerante, carico di tutte le possibili preoccupazioni morali, aperto alla considerazione di tutti i principi coinvolti. Se nel dibattito pubblico, si usano quelli che si sono detti "esangui fantasmi in lotta per diventare i tiranni unici delle coscienze", cioè i valori, la legge che ne verrà sarà solo sopraffazione.
C´è poi un altro aspetto della distinzione valore-principi, importante per il legislatore. Il ragionare per valori è compatibile, anzi esige leggi tassative: tutto o niente, bianco o nero, lecito o illecito, vietato o permesso. Il ragionar per principi spesso induce la legge a fermarsi prima, rinunciare alle regole generali e astratte e a rimettere la decisione ultima alla decisione responsabile di chi opera nel caso concreto. Prendiamo la discussione odierna circa la sorte degli "immaturi", i nati diverse settimane prima del tempo, portatori di deficienze nello sviluppo di organi e funzioni destinate a pesare più o meno pesantemente sull´esistenza futura, sempre che ci sia. C´è un qualunque legislatore che possa ragionevolmente imporre una regola assoluta circa il che fare? Per esempio, la rianimazione sempre e a ogni costo, senza considerare nient´altro? Solo la cieca assunzione della vita come valore assoluto, della vita come mera materia vivente, potrebbe giustificarla. Ma sarebbe, in molti casi, un arbitrio. Ogni caso è diverso dall´altro e i rigidi automatismi legali, quando si tratta di principi da far valere in situazioni morali di conflitto, si trasformano in sopraffazione.
C´è un dialogo classico tra Alcibiade e Pericle, riferito da Senofonte, che ci fa pensare. Il discepolo chiede al maestro, semplicemente: che cosa è la legge? Pericle risponde: ciò che l´assemblea ha deciso e messo per iscritto. Anche la sopraffazione, decisa e messa per iscritto? No, questa non sarebbe legge. È legge solo quella che riesce a "persuadere" tutti quanti, il resto è solo violenza in forma legale. Chi professa valori assoluti non si propone di persuadere ma di imporre. Chi ragiona per principi può sperare, districandosi nella difficoltà delle situazioni complicate, di essere persuasivo; naturalmente a condizione che si sia ragionevoli, non fanatici.

giovedì 21 febbraio 2008

Coscioni, due anni dopo. Ma la battaglia continua.

Coscioni, due anni dopo. Ma la battaglia continua.

L'Unità del 21 febbraio 2008

di Maria Antonietta Farina Coscioni

Sono passati due anni da quando Luca ci ha lasciato; lui per primo, credo, non avrebbe apprezzato commemorazioni, panegirici. Lui per primo, credo, ci avrebbe spinto a pensare piuttosto a quel che ancora c'è da fare, ed è tanto purtroppo, nel campo delle «libertà». Il filo della vita che manteneva in vita Luca erano come lui stesso diceva «il valore, il senso e la verità di una così grande battaglia di libertà e di civiltà, (...) valore, senso, verità del mio, del nostro passato, del presente e del futuro, indispensabili ed indissolubili, valore politico tout court»; se è così, e se la battaglia da lui intrapresa, ha reso consapevoli, coscienti, partecipi tante persone, va anche detto che è ben lontana dall'esser conclusa: la battaglia di etica civile che ha preceduto la morte di Luca è tutt'altro che finita. Cos'abbia rappresentato e costituito Luca è ben descritto e sintetizzato nelle parole del premio Nobel per la letteratura José Sara- mago: «Attendevamo da molto tempo che si facesse giorno, eravamo sfiancati dall'attesa, ma ad un tratto il coraggio di un uomo reso muto da una malattia terribile ci ha restituito nuova forza».

Ecco, Luca è stato - è ancora - questo: nuova forza, in attesa che si facesse giorno. Ha dovuto, abbiamo dovuto, pagare dei prezzi incredibili, un ostracismo feroce: ricordate? Non più di qualche anno fa, ad accordo elettorale praticamente già stipulato, tra radicali e le forze del centro sinistra, tutto andò a monte: ci venne chiesto di rinunciare a una lista con il suo nome, perché il nome di Luca faceva paura, turbava, non si doveva fare; la sua storia, le sue idee, la sua e nostra lotta non si dovevano conoscere. Oggi come due anni fa, siamo costretti a denunciare la campagna neo-oscurantista e la sistematica, proterva manipolazione dell'informazione, del duopolio Rai-Mediaset in merito alle questioni della vita e della morte. C'è una realtà nascosta, colpevolmente ignorata, che viene pervicacemente negata. Una realtà fatta di storie di persone che soffrono, vivono nel dolore, e nel dolore troppo spesso, sono lasciate morire. E una realtà «silenziata», in nome di un'opinione, di una fede, di un'ideologia. Non è certo un caso che sui lavori del VI Congresso dell'Associazione Luca Coscioni che si è svolto a Salerno giorni fa, con la presenza di tanti malati, scienziati, ricercatori e politici, sia calata una ferrea, impenetrabile cortina di silenzio.

Una censura grave. Ora una singola censura si può comprendere, può avere una qualche spiegazione. Quando la censura è ripetuta, però, si trasforma in vero e proprio ostracismo. Di fatto si negano e si tentano di eliminare temi dal confronto pubblico e politico, si tenta di annullare una forza politica capace di ascoltare le istanze di quanti, muti sono lasciati senza voce, immobili sono segregati tra le mura domestiche. Anche così si colpiscono al cuore i diritti individuali delle persone e la loro possibilità di poter scegliere in modo informato e responsabile. Senza l'ostracismo, la disinformazione, la deformazione sistematica potrebbe accadere l'incredibile e l'inaudito, come peraltro accaduto il giorno della morte di Luca. L'Italia ha conosciuto Luca Coscioni. Solo allora. Forse dovremmo prima o poi trovare il modo di fame un consuntivo, una sintesi politica: non foss'altro per non smarrirne la memoria e garantirne la conoscenza, non episodica. Luca era fiero di appartenere a un corpo politico che sebbene i mezzi, le risorse e le forze sempre esigui, è riuscito a fare tanto davvero tanto. Ma quello che ci attende è ancora un lungo e non facile cammino, ci attendono giorni e sfide che chiederanno tutto l'impegno, il rigore e la determinazione di cui, Caro Luca, eri straordinariamente capace. Grazie.

La moratoria non è un affare solo italiano

La moratoria non è un affare solo italiano

Il Riformista del 21 febbraio 2008, pag. 3

di Franca Bimbi

Quanto peserà la campagna sul­la moratoria nella campagna elet­torale? Molto, nell'intenzione di Ferrara e dei suoi sostenitori: adep­ti del Movimento per la vita, alti prelati, medici pronti a rianimare i grandi prematuri anche contro la volontà dei genitori, carabinieri pronti ad irrompere negli ospedali per requisire feti abortiti. Poco, se il Pd evita tre errori: spostare la pole­mica al suo interno; pensare che la moratoria e la sua strategia siano legate esclusivamente alla presen­za del Vaticano in Italia; adottare una strategia difensiva del tipo «la 194 non si tocca». Tralascio il primo rischio: non accettiamo le provoca­zioni apparentemente spirituali dei "nostri" teodem. Per il resto, occor­re guardare lontano, verso l'oriz­zonte mondiale.



La moratoria di Ferrara nasce dall'interno della riorganizzazione della chiesa cattolica di fronte alla globalizzazione, che nel mondo la espone ad una forte concorrenza religiosa e, specialmente in Occi­dente, in Europa, in Italia, all'esplosione del multiculturalismo. La chiesa, molto saggiamente, ristrut­tura i modi e gli stili del suo mes­saggio, ridefinendo persino il suo modello di universalismo. Essa ri­disegna i confini tra se stessa e il mondo, predicando un'investiga­zione razionale, una concettualizzazione delle leggi della natura, un'antropologia del femminile e del maschile, un diritto positivo, validati esclusivamente dal riconosci­mento della sua verità religiosa. E la verità religiosa viene fissata nell'interpretazione della Tradizione interna alla sola cultura occidenta­le (è il richiamo della lezione di Ratisbona), e riferita a un'antropo­logia del femminile e del maschile dipendenti esclusivamente dalle differenze biologiche tra i sessi e dalle regole del matrimonio cristia­no, indissolubile e monogamico.



Quanto al diritto positivo, esso non può nascere da convenzioni sociali, scambi tra culture e creden­ze diverse che non riposino, alla fi­ne, sulla dottrina della chiesa nelle interpretazioni specifiche e pun­tuali della sola gerarchia. L'autono­mia della persona, la libertà della scienza, la variabilità delle culture, devono tutte potersi iscrivere in questo quadro. In esso i diritti uma­ni di genere, così come si sono svi­luppati, contraddittoriamente ma decisamente a livello mondiale, contrastano con il disegno odierno del cattolicesimo. Infatti i diritti femminili alla salute riproduttiva ed alle scelte di procreazione com­portano mutamenti profondissimi, che coinvolgono la ricerca scientifi­ca, la vita quotidiana, le regole ma­trimoniali e i costumi sessuali; im­pongono l'esercizio di una respon­sabilità centrata sull'autonomia della persona e sulla sua capacità di discutere anche i valori fondativi della comunità familiare e religio­sa: una dinamica che dalla chiesa è paventata come relativismo morale e disgregazione sociale.



Quando il Papa all'Onu pro­nuncerà il suo discorso, e poi la rappresentanza vaticana al Palazzo di vetro lo tradurrà in richieste spe­cifiche, si capirà lo spessore della sfida. La chiesa si rivolgerà alle donne e agli uomini del nostro tempo, offrendo la soluzione del paradosso della libertà e della ne­cessità dei suoi limiti, dall'interno di una ragione unica, esplicitamente occiden­tale, che declina un con­flitto aperto tra cattoli­cesimo e modernità, attaccando le definizioni correnti dei diritti delle donne. Perciò sarebbe un errore considerare la moratoria una sfida solo italiana.



Sono in gioco punti nodali della libertà femminile: l'educazione alla contraccezione e la sua liceità, la sessualità prematrimoniale, l'auto­determinazione nella gravidanza, la responsabilità giuridica dei geni­tori nel trattamento dei prematuri, la liceità dell'aborto terapeutico. Questi nodi vengono presentati al­l'opinione pubblica come errori morali, disordini sociali, delitti pe­nali, causati dall'estensione dei di­ritti umani di genere. È un percor­so messo a punto durante le Confe­renze dell'Orni sulle donne: ce lo ricordano le pubblicazioni ufficiali del Pontificio Consiglio per la fa­miglia. La chiesa oggi (e la campa­gna di Ferrara) mette sullo stesso piano i «peccati» della libertà di genere e alcune odiose aggressioni alla vita delle donne, dei bambini e delle famiglie. All'Onu il Papa e il Vaticano proporranno indirizzi di politiche concrete: impedire ogni ulteriore apertura a favore della le­galizzazione dei diritti riproduttivi (dalla contraccezione all'aborto) o almeno restringere ciò che si è ac­quisito nei vari Paesi; bloccare le campagne nazionali e degli organi­smi internazionali per la salute riproduttiva e la pianificazione fami­liare; contrastare le politiche o le legislazioni che impongono alle donne ed alle famiglie una limitazione della fecondità, anche attra­verso l'offerta di incentivi econo­mici; contrastare ogni ricerca e spe­rimentazione sulla vita nascente in qualsiasi fase del suo sviluppo.



Come si può capire la chiesa è dalla parte delle donne quando ri­fiuta la sterilizzazione forzata, le politiche eugenetiche, l'aborto costretto dalla miseria o dalla decisione altrui, la selezione dei fe­ti femminili, l'uccisione delle neonate, le speri­mentazioni scientifiche azzardate, la mancanza di politiche a sostegno della maternità. Al contrario, altre proposte produrrebbero un aumento degli aborti, e delle stragi di donne e bambini. Mettere tutto sullo stesso piano serve a far crede­re che l'errore e gli orrori dipenda­no dalle libertà femminili: perciò l'aborto deve esser considerato un omicidio, e l'ovulo fecondato deve imporre sempre i suoi diritti sulla volontà e sulla vita della madre.



Per evitare di esser trascinati in un dibattito ideologizzato, prendia­mo sul serio la provocazione: la globalizzazione e il multiculturali­smo richiedono un nuovo modello di universalismo, centrato sui dirit­ti umani di genere, capace di discu­tere anche i limiti della 194, le deci­sioni sui grandi prematuri, la qua­lità dei consultori, gli azzardi delle sperimentazioni procreative. Le donne, in particolare nel Pd, devo­no riaprire l'agenda di genere di­fendendo anche la libertà dell'a­borto come scelta morale consape­vole e ragionando a favore di un sano relativismo culturale che non significa affatto piegarsi al relativi­smo etico.

NOTE

deputata del Pd, presidente della commissione Politiche dell'Unione europea

martedì 19 febbraio 2008

Dove hanno fallito Marx e Galileo

Dove hanno fallito Marx e Galileo

La Stampa.it del 19 febbraio 2008

di Marcello Cini
Fiorentino, classe 1923, Marcello Cini è uno dei fisici italiani più conosciuti, alungo ordinario all’Università La Sapienza di Roma. Noto anche per il suo impegno politico militante, collaboratore storico del Manifesto (tra i suoi libri «L’ape e l’architetto», Feltrinelli 1976, e «Dialoghi di un cattivo maestro», Bollati Boringhieri 2001), è l’autore della lettera aperta con cui 67 docenti e ricercatori della Sapienza hanno chiesto al rettore di annullare l’intervento di Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico, lo scorso gennaio. Qui anticipiamo uno stralcio della sua relazione al convegno sui «Maestri irregolari» che si tiene oggi alle 16,30 al Circolo dei Lettori di Torino.

Quando decisi, nel 1949, che avrei fatto il fisico di professione, pensavo che l'unica conoscenza valida del mondo fosse raggiungibile dalla scienza, attraverso un rigoroso esercizio del pensiero razionale. Non avevo dubbi.
Questi erano i capisaldi delle mie convinzioni di allora.
- L'unico metodo per ottenere conoscenze certe e veritiere sul mondo circostante consiste nell'accertamento di fatti riproducibili in condizioni controllate collegandoli mediante relazioni reciproche logicamente verificabili (Galileo: sensate esperienze e certe dimostrazioni).
- Premessa indispensabile per acquisire queste conoscenze è l'adozione di un postulato ontologico, secondo il quale la realtà è separabile in oggetti distinti. Le proprietà di un oggetto non dipendono dagli oggetti circostanti e sono interamente deducibili dalle proprietà delle parti che lo costituiscono e dalle loro relazioni reciproche. Da questo postulato segue, come obiettivo prioritario della scienza, la scoperta delle leggi necessarie e universali della natura che regolano le proprietà degli elementi ultimi.

- Condizione per raggiungere gli obiettivi precedenti è l'adesione a una deontologia professionale sintetizzabile nei quattro imperativi mertoniani (universalismo, comunitarismo, disinteresse e dubbio sistematico) come prescrizioni tecniche e morali per perseguire lo scopo istituzionale della scienza: l'accrescimento della capacità da parte dell'uomo di rappresentare la realtà esterna e di prevedere la sua evoluzione ricostruendone una immagine fedele.
Questi capisaldi erano a loro volta coerenti con la mia collocazione politica. L'esperienza della Resistenza in Piemonte, dall'8 settembre '43 al 25 aprile '45, e le infervorate letture che ne seguirono negli anni immediatamente successivi, mi avevano convinto che l'analisi marxiana della società capitalistica fosse lo strumento concettuale che meglio aveva colto il meccanismo fondamentale del suo sviluppo, in grado dunque di fornire anche i mezzi teorici e pratici per combattere i suoi aspetti più ingiusti e disumani.

Era dunque proprio l'aspetto «scientifico» del marxismo che mi attraeva e rafforzava la mia illimitata fiducia nella scienza. Vedevo, cioè, la scienza non solo come strumento per fornire all'umanità i mezzi materiali per vivere una vita liberata dalla miseria e dagli stenti, ma anche come faro per illuminare la strada verso la costruzione di una società giusta perché fondata sulla vittoria della razionalità dell'intelletto contro la prepotenza dei potenti e l'ignoranza dei deboli. \
Rievocando oggi quello che pensavo allora dovrei concludere a prima vista che avevo sbagliato tutto. Per quanto riguarda la scienza è vero che il metodo galileiano delle «sensate esperienze» e delle «certe dimostrazioni» ci ha permesso di formulare le grandi leggi della natura che stanno alla base della nostra conoscenza delle proprietà della materia inerte e del nostro dominio su di essa, ma è altrettanto vero che esso è certamente inadeguato a comprendere, per esempio, i fenomeni delle diverse forme della materia vivente e quelli della sfera della mente degli animali e dell'uomo.

La stessa critica vale per le mie certezze sul piano della politica. Per quanto riguarda la società è chiaro che la relazione di causa ed effetto fra «struttura» e «sovrastruttura» della teoria marxista allora in vigore postulava un rapporto «lineare» tra di loro sostanzialmente sbagliato. \ Ma si è rivelata un'utopia che non funziona anche l'idea che, con l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, una pianificazione razionale dell'economia organizzata centralmente possa realizzare una società senza ingiustizie sociali e uno sviluppo in grado di assicurare una qualità della vita migliore per tutti. Detto in termini brutali: ho sbagliato tutto?

Per illustrare l'idea citerò rapidamente alcuni esempi di «nuovi saperi». Il primo è legato al nome di Hans Jonas. Il più importante nuovo valore che dobbiamo introiettare, secondo questo autore, è fondato sull'obbligo morale di prefigurarci e di approfondire le possibilità ipotetiche che il nostro oggi, così gravido di conseguenze e sotto molti aspetti calcolabile, porta in grembo. Questo comporta una trasformazione profonda degli scopi del sapere tecnico-scientifico. È su queste basi, fra l'altro, che sono state formulate le norme internazionali che introducono il cosiddetto principio di precauzione.

Altri esempi di costruzione di saperi finalizzati ad affrontare i nuovi problemi posti, sia localmente che globalmente, dalle conseguenze ecologiche ed economiche impreviste dello sviluppo delle nuove tecnologie sono rappresentate dalle esperienze di democrazia ecologica illustrate da Daniele Ungaro e dalle pratiche di costruzione sociale della tecnologia teorizzate da Wiebe Bijker. La prima analizza nuove forme associative che estendono i diritti fondamentali a ciò che si considerava prima il non-umano (e come tale non rappresentabile). Di conseguenza, considerare le nostre relazioni con l'ambiente come bene primario significa riconoscere il diritto a tutti gli stakeholders (soggetti coinvolti) di intervenire per affermare i loro bisogni fondamentali. Questo significa estendere le comunità degli esperti che decidono sulle scelte da adottare. Anche nella seconda, che si pone in contrapposizione alla concezione standard della tecnologia come forza autonoma, rappresentata da macchine e processi che incorporano proprietà oggettive della materia, il punto di partenza sono i «gruppi sociali rilevanti». Gli artefatti tecnici sono descritti attraverso gli occhi dei membri di questi gruppi. Questa concezione costruttivista della tecnologia è cruciale per ogni discussione sul rapporto fra democrazia e tecnologia.

Rutelli non fuga i dubbi dei laici

Rutelli non fuga i dubbi dei laici
Il Riformista del 19 febbraio 2008, pag. 2

E’ una condanna senza appello quella pronunciata da Franco Grillini, deputato socialista, non appena Francesco Rutelli ha annunciato di aver sciolto la riserva e di accettare di correre per tornare a occupa­re la poltrona di sindaco di Roma. Niente da fare: per Grillini Rutelli è «invotabile». Neppure il «damose da fa'» pronunciato dal vicepremier lo ha commosso. Grillini, anzi, ha elencato una lunga lista di motivi per i quali l'ex sindaco col motorino non può essere votato. E tutti o quasi hanno qualcosa a che vedere con quel «damose da fa'» di vaticana memoria. E dunque: Rutelli «ha ritirato il patrocinio del Comune al World pride»; «ha candidato e fatto eleggere la signora del cilicio che ha votato contro il pro­prio governo negando la fiducia sull'antiomofobia e ha definito i gay co­me devianti»; senza contare, sostiene ancora Grillini, la posizione di Ru­telli sul referendum sulla fecondazione assistita. Insomma, è allarme: «occorre dimostrare che Roma non è papalina e baciapile. Occorre far capi­re che Roma non può diventare come Riad o come Teheran».



Paragonare Roma a Riad o Teheran ci pare quantomeno esagerato ma, eccessi polemici di Grillini a parte, qualcosa Rutelli dovrà pur dirla per evitare che il dubbio sul futuro di Roma serpeggi, si ingrossi e scavi il terreno sotto i piedi della sua candidatura. Insomma, provi a fare uno sfor­zo. Seppure molto sfumato, o forse del tutto evaporato, il suo ruolo di vi­cepremier è ancora lì a dargli qualche ragione per intervenire su alcune delle questioni sollevate da Grillini. La legge 40, ad esempio, e le linee gui­da che il ministero della Salute avrebbe già da tempo dovuto rinnovare. Sono scadute e, se non bastasse, sono state travolte dalle decisioni di di­versi tribunali. Prima del voto il governo è ancora in carica, dopo si chiu­derebbe una finestra che difficilmente tornerebbe a riaprirsi. Provi a fare un colpo di telefono, Rutelli, alla sua collega Livia Turco. Metta a tacere tutti coloro che mettono in dubbio la sua laicità. Basta poco, una sempli­ce telefonata. Il gettone, ce lo mettiamo noi.


Nel frattempo, sarebbe bastata, per iniziare bene la campagna elet­torale, una semplice dichiarazione di solidarietà con la comunità omo­sessuale per l'incendio che ha devastato un locale romano, il Coming out. Sono intervenuti in molti ma di Rutelli, almeno sino alle 20 di ieri sera, le agenzie non recavano traccia.

A chi piace il diritto all'aborto?

A chi piace il diritto all'aborto?
Il Manifesto del 19 febbraio 2008, pag. 1

di Ida Dominijanni

Un primo risultato la lista per la vita di Giuliano Ferrara l'ha già ottenuto, quello di far dire a Silvio Berlusconi e a Gianfranco Fini che la 194 è una buona legge e loro non intendono toccarla. Buono. Il secondo risultato lo sta ottenendo in queste ore, ed è di far calare la battaglia per la vita dall'empireo delle guerre culturali al sottoscala dello scambio politico: altro che i valori, l'amore e sant'Agostino, il problema è d'apparentamento col Pdl e i sondaggi sul comune di Roma. Ottimo. Un terzo risultato è anch'esso già all'incasso, ed è l'involgarimento sopra le righe del lessico politico, giornalistico e satirico: si veda la prima pagina (e le successive) dell'inserto dell'Unità di domenica, con un Casini informa di «feto abortito» da reimpiantare nell'utero di un Berlusconi «partoriente». E poi il Foglio si lamenta se sospettiamo che ci sia qualcosa da mandare in analisi dell'immaginario maschile sulla maternità e l'aborto che si sta scatenando di questi tempi. Pessimo.



Su tutto - guerre culturali, guerriglie di potere, minuetti fra opinion makers (esemplare il dialogo Ferrara-Merlo dei giorni scorsi) aleggia il fantasma del «diritto all'aborto». Con una nobile gara -maschile - a prendere le distanze da quello che sarebbe un dissennato e gaudente slogan femminista, anzi «delle femministe», di ieri e di oggi. E quando mai? Qui non si tratta di un immaginario perverso, ma di una proiezione in piena regola. La traduzione del problema dell'aborto in termini di diritto (da ridurre) è tutta loro oggi, così come fu dei Radicali (per conquistarlo) negli anni 70. Ma sfidiamo i Ferrara, i Merlo e quant'altri, a trovare nella letteratura femminista in materia un solo riferimento all'aborto come diritto. Disgrazia, lapsus, incidente, effetto dello squilibrio fra sessualità maschile e sessualità femminile: l'aborto è da sempre, nel vocabolario femminista, un'eccedenza irriducibile al linguaggio del diritto e dei diritti.



Non credere di avere dei diritti si intitola, significativamente, il volume della Libreria delle donne di Milano che ricostruisce questa eccedenza dell'aborto dal linguaggio del diritto e dei diritti. Noi sull'aborto facciamo un lavoro politico diverso, si intitolava un famoso documento del 75 che spostava 0 fuoco dalla richiesta di una legge all'analisi della sessualità e del desiderio (o non desiderio) di maternità sostenendo fra l'altro: «L'aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e colpevolizza ulteriormente il corpo della donna». «Mentre chiediamo l'abrogazione di tutte le leggi punitive dell'aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri, sessualità, maternità, socializzazione dei bambini», scriveva un altro testo del 73. E sono di Carla Lonzi le seguenti parole del 1971: «L'uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire. Ma la donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?».



Non per caso né per scelta, ma per via di questa eccedenza dell'aborto dal campo della giuridificazione, una parte significativa del femminismo degli anni 70 era più favorevole alla semplice depenalizzazione che non alla legalizzazione dell'aborto. E la 194, che oggi viene attaccata da un lato come una legge permissiva e difesa dall'altro come una trincea irrinunciabile, fu una legge di compromesso: fra patriarcato e libertà femminile, fra cultura laica e cultura cattolica, fra decriminalizzazione e statalizzazione dell'aborto. Un compromesso nel quale - e oggi si vede - molto sapere femminista restò fuori dalla codificazione. Ma che ha funzionato - anche questo oggi si vede, dai dati - non come legge abortista, ma come cornice di regolazione e limitazione degli aborti.



Come mai questa storia e questa elaborazione restino sistematicamente fuori dal campo della discussione pubblica, tradotte e tradite nello scontro violento e riduttivo «diritto all'aborto sì-diritto all'aborto no», è questione da interrogare. Di certo essa rivela un'incompetenza maschile pari all'ostinazione con cui gli uomini tentano, in modo ritornante e oggi più violento di altre volte, di reimpadronirsi della parola decisiva sulla procreazione e del potere di colpevolizzazione dell'esperienza femminile. Di certo essa rivela altresì che quel «lavoro politico diverso» sull'aborto è da riprendere da parte delle donne, a lato e oltre la difesa della 194. Le stesse cose ritornano, ma non ritornano mai le stesse. Sessualità, desiderio e non desiderio di maternità, relazione fra i sessi, rapporto fra libertà femminile e legge e fra esperienza femminile e sapere medico-scientifico restano e tornano, in condizioni diverse dagli anni 70, campi da indagare. Con le parole di verità che lo scontro politico non sa pronunciare.