martedì 19 febbraio 2008

Dove hanno fallito Marx e Galileo

Dove hanno fallito Marx e Galileo

La Stampa.it del 19 febbraio 2008

di Marcello Cini
Fiorentino, classe 1923, Marcello Cini è uno dei fisici italiani più conosciuti, alungo ordinario all’Università La Sapienza di Roma. Noto anche per il suo impegno politico militante, collaboratore storico del Manifesto (tra i suoi libri «L’ape e l’architetto», Feltrinelli 1976, e «Dialoghi di un cattivo maestro», Bollati Boringhieri 2001), è l’autore della lettera aperta con cui 67 docenti e ricercatori della Sapienza hanno chiesto al rettore di annullare l’intervento di Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico, lo scorso gennaio. Qui anticipiamo uno stralcio della sua relazione al convegno sui «Maestri irregolari» che si tiene oggi alle 16,30 al Circolo dei Lettori di Torino.

Quando decisi, nel 1949, che avrei fatto il fisico di professione, pensavo che l'unica conoscenza valida del mondo fosse raggiungibile dalla scienza, attraverso un rigoroso esercizio del pensiero razionale. Non avevo dubbi.
Questi erano i capisaldi delle mie convinzioni di allora.
- L'unico metodo per ottenere conoscenze certe e veritiere sul mondo circostante consiste nell'accertamento di fatti riproducibili in condizioni controllate collegandoli mediante relazioni reciproche logicamente verificabili (Galileo: sensate esperienze e certe dimostrazioni).
- Premessa indispensabile per acquisire queste conoscenze è l'adozione di un postulato ontologico, secondo il quale la realtà è separabile in oggetti distinti. Le proprietà di un oggetto non dipendono dagli oggetti circostanti e sono interamente deducibili dalle proprietà delle parti che lo costituiscono e dalle loro relazioni reciproche. Da questo postulato segue, come obiettivo prioritario della scienza, la scoperta delle leggi necessarie e universali della natura che regolano le proprietà degli elementi ultimi.

- Condizione per raggiungere gli obiettivi precedenti è l'adesione a una deontologia professionale sintetizzabile nei quattro imperativi mertoniani (universalismo, comunitarismo, disinteresse e dubbio sistematico) come prescrizioni tecniche e morali per perseguire lo scopo istituzionale della scienza: l'accrescimento della capacità da parte dell'uomo di rappresentare la realtà esterna e di prevedere la sua evoluzione ricostruendone una immagine fedele.
Questi capisaldi erano a loro volta coerenti con la mia collocazione politica. L'esperienza della Resistenza in Piemonte, dall'8 settembre '43 al 25 aprile '45, e le infervorate letture che ne seguirono negli anni immediatamente successivi, mi avevano convinto che l'analisi marxiana della società capitalistica fosse lo strumento concettuale che meglio aveva colto il meccanismo fondamentale del suo sviluppo, in grado dunque di fornire anche i mezzi teorici e pratici per combattere i suoi aspetti più ingiusti e disumani.

Era dunque proprio l'aspetto «scientifico» del marxismo che mi attraeva e rafforzava la mia illimitata fiducia nella scienza. Vedevo, cioè, la scienza non solo come strumento per fornire all'umanità i mezzi materiali per vivere una vita liberata dalla miseria e dagli stenti, ma anche come faro per illuminare la strada verso la costruzione di una società giusta perché fondata sulla vittoria della razionalità dell'intelletto contro la prepotenza dei potenti e l'ignoranza dei deboli. \
Rievocando oggi quello che pensavo allora dovrei concludere a prima vista che avevo sbagliato tutto. Per quanto riguarda la scienza è vero che il metodo galileiano delle «sensate esperienze» e delle «certe dimostrazioni» ci ha permesso di formulare le grandi leggi della natura che stanno alla base della nostra conoscenza delle proprietà della materia inerte e del nostro dominio su di essa, ma è altrettanto vero che esso è certamente inadeguato a comprendere, per esempio, i fenomeni delle diverse forme della materia vivente e quelli della sfera della mente degli animali e dell'uomo.

La stessa critica vale per le mie certezze sul piano della politica. Per quanto riguarda la società è chiaro che la relazione di causa ed effetto fra «struttura» e «sovrastruttura» della teoria marxista allora in vigore postulava un rapporto «lineare» tra di loro sostanzialmente sbagliato. \ Ma si è rivelata un'utopia che non funziona anche l'idea che, con l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, una pianificazione razionale dell'economia organizzata centralmente possa realizzare una società senza ingiustizie sociali e uno sviluppo in grado di assicurare una qualità della vita migliore per tutti. Detto in termini brutali: ho sbagliato tutto?

Per illustrare l'idea citerò rapidamente alcuni esempi di «nuovi saperi». Il primo è legato al nome di Hans Jonas. Il più importante nuovo valore che dobbiamo introiettare, secondo questo autore, è fondato sull'obbligo morale di prefigurarci e di approfondire le possibilità ipotetiche che il nostro oggi, così gravido di conseguenze e sotto molti aspetti calcolabile, porta in grembo. Questo comporta una trasformazione profonda degli scopi del sapere tecnico-scientifico. È su queste basi, fra l'altro, che sono state formulate le norme internazionali che introducono il cosiddetto principio di precauzione.

Altri esempi di costruzione di saperi finalizzati ad affrontare i nuovi problemi posti, sia localmente che globalmente, dalle conseguenze ecologiche ed economiche impreviste dello sviluppo delle nuove tecnologie sono rappresentate dalle esperienze di democrazia ecologica illustrate da Daniele Ungaro e dalle pratiche di costruzione sociale della tecnologia teorizzate da Wiebe Bijker. La prima analizza nuove forme associative che estendono i diritti fondamentali a ciò che si considerava prima il non-umano (e come tale non rappresentabile). Di conseguenza, considerare le nostre relazioni con l'ambiente come bene primario significa riconoscere il diritto a tutti gli stakeholders (soggetti coinvolti) di intervenire per affermare i loro bisogni fondamentali. Questo significa estendere le comunità degli esperti che decidono sulle scelte da adottare. Anche nella seconda, che si pone in contrapposizione alla concezione standard della tecnologia come forza autonoma, rappresentata da macchine e processi che incorporano proprietà oggettive della materia, il punto di partenza sono i «gruppi sociali rilevanti». Gli artefatti tecnici sono descritti attraverso gli occhi dei membri di questi gruppi. Questa concezione costruttivista della tecnologia è cruciale per ogni discussione sul rapporto fra democrazia e tecnologia.