Corriere della Sera 6.2.08
Il rapporto tra ragione e fede, Solo la filosofia può essere laica
di Emanuele Severino
H a ragione Claudio Magris a rilevare che l'uso del termine «laico » (sul Corriere del 17 gennaio scorso) è pieno di equivoci. Gli equivoci dei concetti rendono equivoche anche le azioni.
Mi sembra utile discutere il suo intervento. E dico subito all'amico Magris che è mia abitudine discutere le cose di rilievo. «Laicità », egli scrive, «è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede». Questa capacità non è cosa da poco. Presuppone che si sappia che cosa sia «dimostrazione razionale » e che cosa sia «fede ». Questa capacità segna niente di meno che la nascita della filosofia, la presa di distanza della filosofia dal mito, cioè dalla fede. Nella sua essenza più profonda «laicità» significa «filosofia». Non si può dire, allora, quello che Magris dice: che quella capacità «non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis ». Si può sì avere una forma mentis più o meno vicina al pensare filosofico (nel qual caso sarà appropriato chiamarla «laicità »), ma se questa forma non vuol essere a sua volta una fede deve diventare filosofia.
Ma è ancora più interessante l'affermazione con cui Magris esprime uno dei luoghi centrali del pensiero liberale: «Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze». Questa definizione di «laicità» intende completare la precedente, ma in effetti la mette in questione. Che la ragione vada distinta dalla fede è una certezza di Magris. Ma, allora, il «dubbio rivolto anche alle proprie certezze » mette in dubbio anche quella distinzione tra ragione e fede? Se non la mette in dubbio, allora c'è un sapere che non può esser messo in dubbio — e la definizione di «laicità» deve esser rivista. Se invece tutto è dubitabile, allora la «laicità» diventa, nonostante le intenzioni, quello scetticismo o quel relativismo nel quale la Chiesa ritiene consistere tutta la forza del pensiero del nostro tempo (che invece ha ben altra potenza) e che quindi la Chiesa fa presto a togliersi dattorno.
Nell'intervento di Magris c'è, tra le altre, una terza definizione di «laicità». Per lui (come per molti altri) la sentenza evangelica del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio è un «principio laico ». Qui debbo fare quello stesso che egli dice di esser costretto a fare; devo ripetere cioè cose che vado richiamando da decenni anche su queste colonne — convinto peraltro che sia opportuna la ripetizione (della quale chiedo scusa pur avvedendomi che non è superflua, come il discorso di Magris conferma). Sia opportuna affinché non accada che ognuno parli per conto proprio. Si tratta di capire che, per Gesù, dando a Cesare quel che gli spetta non gli si può dare tuttavia qualcosa che sia contro Dio (Gesù non può pensare una cosa del genere); e che, per i Romani (e per molte altre concezioni dello Stato), dando a Dio quel che a sua volta gli spetta non gli si può dare qualcosa che sia contro Cesare (nemmeno lo Stato, Cesare, potrebbe pensare una cosa del genere).
Le conseguenze sono notevoli e tutt'altro che «laiche ».
Nella logica evangelica, le leggi dello Stato non possono contrastare le leggi di Dio. Devono essere cioè leggi cristiane. Lo Stato deve essere cristiano. Il peccato è anche delitto. Non può esserci una zona «neutra » dove le leggi siano indifferenti rispetto alle leggi di Dio. Teocrazia; non «laicità».
Nella logica di Cesare, le leggi di Dio non possono contrastare le leggi di Cesare. Devono essere leggi statali. La religione dev'esser controllata dallo Stato. Il vero peccato non è quello punito da un Dio che sta nei cieli: è il delitto punito dallo Stato. Assolutismo, totalitarismo politico; non «laicità».
Il vero senso della frase: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio»
Il rapporto tra ragione e fede, Solo la filosofia può essere laica
di Emanuele Severino
H a ragione Claudio Magris a rilevare che l'uso del termine «laico » (sul Corriere del 17 gennaio scorso) è pieno di equivoci. Gli equivoci dei concetti rendono equivoche anche le azioni.
Mi sembra utile discutere il suo intervento. E dico subito all'amico Magris che è mia abitudine discutere le cose di rilievo. «Laicità », egli scrive, «è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede». Questa capacità non è cosa da poco. Presuppone che si sappia che cosa sia «dimostrazione razionale » e che cosa sia «fede ». Questa capacità segna niente di meno che la nascita della filosofia, la presa di distanza della filosofia dal mito, cioè dalla fede. Nella sua essenza più profonda «laicità» significa «filosofia». Non si può dire, allora, quello che Magris dice: che quella capacità «non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis ». Si può sì avere una forma mentis più o meno vicina al pensare filosofico (nel qual caso sarà appropriato chiamarla «laicità »), ma se questa forma non vuol essere a sua volta una fede deve diventare filosofia.
Ma è ancora più interessante l'affermazione con cui Magris esprime uno dei luoghi centrali del pensiero liberale: «Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze». Questa definizione di «laicità» intende completare la precedente, ma in effetti la mette in questione. Che la ragione vada distinta dalla fede è una certezza di Magris. Ma, allora, il «dubbio rivolto anche alle proprie certezze » mette in dubbio anche quella distinzione tra ragione e fede? Se non la mette in dubbio, allora c'è un sapere che non può esser messo in dubbio — e la definizione di «laicità» deve esser rivista. Se invece tutto è dubitabile, allora la «laicità» diventa, nonostante le intenzioni, quello scetticismo o quel relativismo nel quale la Chiesa ritiene consistere tutta la forza del pensiero del nostro tempo (che invece ha ben altra potenza) e che quindi la Chiesa fa presto a togliersi dattorno.
Nell'intervento di Magris c'è, tra le altre, una terza definizione di «laicità». Per lui (come per molti altri) la sentenza evangelica del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio è un «principio laico ». Qui debbo fare quello stesso che egli dice di esser costretto a fare; devo ripetere cioè cose che vado richiamando da decenni anche su queste colonne — convinto peraltro che sia opportuna la ripetizione (della quale chiedo scusa pur avvedendomi che non è superflua, come il discorso di Magris conferma). Sia opportuna affinché non accada che ognuno parli per conto proprio. Si tratta di capire che, per Gesù, dando a Cesare quel che gli spetta non gli si può dare tuttavia qualcosa che sia contro Dio (Gesù non può pensare una cosa del genere); e che, per i Romani (e per molte altre concezioni dello Stato), dando a Dio quel che a sua volta gli spetta non gli si può dare qualcosa che sia contro Cesare (nemmeno lo Stato, Cesare, potrebbe pensare una cosa del genere).
Le conseguenze sono notevoli e tutt'altro che «laiche ».
Nella logica evangelica, le leggi dello Stato non possono contrastare le leggi di Dio. Devono essere cioè leggi cristiane. Lo Stato deve essere cristiano. Il peccato è anche delitto. Non può esserci una zona «neutra » dove le leggi siano indifferenti rispetto alle leggi di Dio. Teocrazia; non «laicità».
Nella logica di Cesare, le leggi di Dio non possono contrastare le leggi di Cesare. Devono essere leggi statali. La religione dev'esser controllata dallo Stato. Il vero peccato non è quello punito da un Dio che sta nei cieli: è il delitto punito dallo Stato. Assolutismo, totalitarismo politico; non «laicità».
Il vero senso della frase: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio»