Corriere della Sera 16.2.08
Feto malformato, «Solo rinvii e dolore Mi hanno costretta a partire per Londra»
di B.Arg.
«Io lo amavo già. Sono arrivata al quinto mese di gravidanza e quel figlio lo volevo». Ma alla fine Veronica F., casalinga di 37 anni, a causa di una grave malformazione al feto, ha scelto di andare all'estero per un aborto terapeutico. Alla ventunesima settimana. «È stata l'ultima spiaggia. Prima di prendere appuntamento con una clinica inglese ho fatto tutti i passi richiesti dalla legge. Mi hanno fermato le lunghe liste d'attesa, i medici che temporeggiavano e le porte chiuse in faccia. Mi hanno trattato come se stessi per commettere un omicidio. Ma invece soffrivo». L'odissea di Veronica (il cognome non lo scriviamo per tutelare la sua privacy) è cominciata il 27 dicembre scorso, quando, durante un'ecografia morfologica all'ospedale Riuniti di Bergamo, ha scoperto che il feto presentava una spina bifida a livello sacrale e anche la sindrome Arnold Chiari di tipo 2, una malformazione rara del tronco encefalico, il sistema nervoso centrale. Una malattia che porta «nel 70 per cento dei casi alla morte nel neonato nei primi mesi di vita — dice la donna —. Il medico, mentre guardava lo schermo era vago. Dubbioso. Mi diceva 'forse c'è qualcosa'. E ha chiesto un consulto. Poi la verità. Mio marito ed io eravamo traumatizzati. Ci hanno rimandato da lì a 20 giorni. Con la richiesta di una risonanza». Dopo numerosi tentativi(«ci sono le feste»), «l'appuntamento al Buzzi, dove hanno confermato la diagnosi». Quindi è iniziato il calvario. «Non sapevo a chi rivolgermi. La mia ginecologa ha detto allora di essere obiettrice di coscienza. Si è rifiutata di aiutarmi». Al consultorio di Ostia (la donna è del Lazio e si è trasferita a Bergamo con il marito sette anni fa), la luce. «Mi hanno consigliato tre ospedali a Roma, uno a Brescia e infine due cliniche all'estero: una a Barcellona, l'altra a Londra». Nella capitale nessun aiuto: «Al San Giovanni mi hanno risposto che per l'intervento dovevo attendere trenta giorni. Avrei superato il termine consentito dalla legge. A Brescia non si volevano accollare il mio intervento. Certo, mi sarei potuta presentare. Ma non era il caso . Non sapevo più dove sbattere la testa». Quindi la decisione: Londra.
L'appuntamento «in una settimana». Poi il 7 gennaio la visita e la conferma. «La crescita del feto si era fermata quindici giorni prima, cioè alla diciannovesima settimana. Sarebbe morto». L'intervento è stato il giorno dopo. «Mi hanno addormentato. Non come in Italia che ti fanno il parto indotto. Non ho sentito nulla. Al risveglio avevo tutta la famiglia. Suoceri compresi». La donna si sente fortunata «perché ho avuto la possibilità economica di poter andare all'estero».
Per lei sarebbe stato il primo figlio. Al futuro non ci pensa. «Perché l'amore c'era già».
Feto malformato, «Solo rinvii e dolore Mi hanno costretta a partire per Londra»
di B.Arg.
«Io lo amavo già. Sono arrivata al quinto mese di gravidanza e quel figlio lo volevo». Ma alla fine Veronica F., casalinga di 37 anni, a causa di una grave malformazione al feto, ha scelto di andare all'estero per un aborto terapeutico. Alla ventunesima settimana. «È stata l'ultima spiaggia. Prima di prendere appuntamento con una clinica inglese ho fatto tutti i passi richiesti dalla legge. Mi hanno fermato le lunghe liste d'attesa, i medici che temporeggiavano e le porte chiuse in faccia. Mi hanno trattato come se stessi per commettere un omicidio. Ma invece soffrivo». L'odissea di Veronica (il cognome non lo scriviamo per tutelare la sua privacy) è cominciata il 27 dicembre scorso, quando, durante un'ecografia morfologica all'ospedale Riuniti di Bergamo, ha scoperto che il feto presentava una spina bifida a livello sacrale e anche la sindrome Arnold Chiari di tipo 2, una malformazione rara del tronco encefalico, il sistema nervoso centrale. Una malattia che porta «nel 70 per cento dei casi alla morte nel neonato nei primi mesi di vita — dice la donna —. Il medico, mentre guardava lo schermo era vago. Dubbioso. Mi diceva 'forse c'è qualcosa'. E ha chiesto un consulto. Poi la verità. Mio marito ed io eravamo traumatizzati. Ci hanno rimandato da lì a 20 giorni. Con la richiesta di una risonanza». Dopo numerosi tentativi(«ci sono le feste»), «l'appuntamento al Buzzi, dove hanno confermato la diagnosi». Quindi è iniziato il calvario. «Non sapevo a chi rivolgermi. La mia ginecologa ha detto allora di essere obiettrice di coscienza. Si è rifiutata di aiutarmi». Al consultorio di Ostia (la donna è del Lazio e si è trasferita a Bergamo con il marito sette anni fa), la luce. «Mi hanno consigliato tre ospedali a Roma, uno a Brescia e infine due cliniche all'estero: una a Barcellona, l'altra a Londra». Nella capitale nessun aiuto: «Al San Giovanni mi hanno risposto che per l'intervento dovevo attendere trenta giorni. Avrei superato il termine consentito dalla legge. A Brescia non si volevano accollare il mio intervento. Certo, mi sarei potuta presentare. Ma non era il caso . Non sapevo più dove sbattere la testa». Quindi la decisione: Londra.
L'appuntamento «in una settimana». Poi il 7 gennaio la visita e la conferma. «La crescita del feto si era fermata quindici giorni prima, cioè alla diciannovesima settimana. Sarebbe morto». L'intervento è stato il giorno dopo. «Mi hanno addormentato. Non come in Italia che ti fanno il parto indotto. Non ho sentito nulla. Al risveglio avevo tutta la famiglia. Suoceri compresi». La donna si sente fortunata «perché ho avuto la possibilità economica di poter andare all'estero».
Per lei sarebbe stato il primo figlio. Al futuro non ci pensa. «Perché l'amore c'era già».