domenica 29 giugno 2008

Bioetica, quando l'utile è morale

Corriere della Sera 29.6.08
Un saggio di Jonathan Baron contesta le certezze del «mondo latino» e riapre il dibattito
Bioetica, quando l'utile è morale
La lezione degli scienziati anglosassoni: empirici e possibilisti
di Edoardo Boncinelli

Il conflitto
In questa «guerra di religione» si fronteggiano pragmatismo e utilitarismo da una parte, essenzialismo e normativismo dall'altra

Una guerra di religione o, se preferite, di mentalità, è in atto da un certo numero di anni qui, al centro dell'Europa; una guerra culturale che vede da una parte principalmente l'Italia, e alcune frange di altri Paesi latini, e dall'altra il mondo anglosassone. Certamente meno devastanti del razzismo, ma più sornione, pervasive e forse perniciose, le guerre di religione offrono a chi le combatte il vantaggio di potersi sentire buono, se non santo: si lotta per i propri valori e la propria identità. E ci si sente moralmente superiori. «Gli altri» al contrario non hanno sensibilità, sono barbari, mentre è inutile far notare che, come in ogni guerra, esistono persone degnissime da una parte e dall'altra e loschi figuri sull'una e sull'altra sponda. Nel caso specifico si fronteggiano pragmatismo e utilitarismo da una parte ed essenzialismo e normativismo dall'altra, per non parlare degli opposti atteggiamenti dei due mondi verso il materialismo e l'empirismo. Nel campo morale gli uni amano quasi sempre veder adottare norme universali imposte una volta per tutte, gli altri preferiscono un atteggiamento possibilista e maggiore disponibilità a decidere caso per caso.
La divergenza, nata probabilmente con lo sviluppo della filosofia inglese del Sei-Settecento, nelle sue articolazioni conoscitive e morali, ha raggiunto una nuova notorietà e grande popolarità con il diffondersi delle questioni bioetiche e più in generale con l'imporsi del dibattito pubblico sugli interrogativi sollevati dalla biomedicina. Nelle questioni bioetiche la mentalità angloamericana è avversata apertamente dalle gerarchie della Chiesa cattolica, ma anche da esponenti della cultura laica italiana che affermano con un sospiro che gli anglosassoni hanno una cultura e una sensibilità differenti, ovvero una cultura e una sensibilità sbagliate. Qualcuno in passato si è appellato addirittura a Kant, che sarebbe debitamente preso in considerazione dalle nostre parti, ma non da «quelli», e qualcuno è arrivato a demonizzare tutto ciò che si fa o si dice in campo bioetico soprattutto in Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti e in Canada.
Come succede quasi sempre in questi casi, molte affermazioni nascono dall'ignoranza, per esempio a proposito della natura dell'utilitarismo, una dottrina filosofica considerata con grande sufficienza nel nostro Paese — al punto che nel linguaggio quotidiano l'aggettivo «utilitaristico » ha una connotazione assai negativa — ma che possiede invece un grande valore morale e politico se letto e studiato nella sua formulazione più autentica. Si tratta spesso di un vero e proprio abbaglio filosofico, alimentato da interessi culturali non sempre trasparenti.
Queste considerazioni mi sono venute prepotentemente alla mente leggendo Contro la bioetica di Jonathan Baron (Raffaello Cortina, a cura di Luca Guzzardi), un libro molto ponderato, aggiornato e coraggioso, centrato su alcuni aspetti particolari del ragionamento bioetico di oggi. Il titolo non deve ingannare; non si tratta di un libro contro la bioetica, ma di un tentativo sistematico di riconsiderarne alcuni lati sotto varie angolature. «Questo libro — dice infatti l'autore proprio all'inizio dell'opera — mette in relazione tre aree di ricerca che coltivo da anni: la teoria della decisione, l'utilitarismo e la bioetica applicata». Non insisterò sull'utilitarismo, una posizione che «ritiene che la scelta migliore sia quella che comporta il maggior bene atteso», perché ciò richiederebbe un discorso troppo lungo, ma vale la pena spendere due parole sulla moderna teoria della decisione, una disciplina che sta divenendo sempre più importante.
Partendo dalla considerazione che i pareri in tema di bioetica «tendono a fondarsi sulla tradizione e su giudizi intuitivi», l'autore ci ricorda quanto fallaci possano essere proprio i giudizi basati sull'intuizione e sulla prima impressione. Esistono ormai molti lavori, più o meno estesi e articolati, che illustrano tale punto con grande dovizia di particolari. Messo alla prova della logica, il nostro cervello fornisce molto spesso giudizi infondati e lo fa quasi sempre se deve pronunciarsi in fretta. È anche per questo motivo che molte cose costano 19,99 euro invece di 20 o 699 invece di 700. Se è costretto poi a ripensarci e a considerare le cose con più calma, il cervello di ciascuno di noi può anche ricredersi e formulare giudizi più corretti, ma in prima battuta siamo tutti inclini a sbagliare. E sempre nella stessa, prevedibile direzione. Sarebbe assurdo, dice Baron, non tenere conto di queste nostre tendenze innate, soprattutto oggi che le conosciamo bene, e arriva a proporre una sua «analisi utilitarista delle decisioni », una forma di ragionamento e di valutazione che potrebbe portare i comitati di bioetica o il consulente bioetico singolo a sbagliare di meno. Qualcuno potrebbe ribattere, dice il nostro autore, che gli eventuali sbagli sono «semplicemente il prezzo della moralità, ma quale "moralità" ci autorizza a peggiorare la situazione di qualcun altro? ». Al di sopra e al di là delle guerre ideologiche personali, dovrebbe esserci un'attenta e sollecita considerazione per il disagio e il dolore del singolo interessato: gli ideologi disputano, ma è il singolo che soffre. Lui e la sua famiglia.
Il saggio di Jonathan Baron, «Contro la bioetica», è edito da Raffaello Cortina (pp. 322, e 28)

sabato 28 giugno 2008

L’ex parroco pedofilo. "I superiori sapevano"

La stampa.it, 17/6/2008 (12:30) - IL CASO
L’ex parroco pedofilo. "I superiori sapevano"

Condannato a 8 anni per 16 episodi di molestie
RAPHAËL ZANOTTI
TORINO
Lo scandalo parte da Arezzo, con la condanna a otto anni dell’ex parroco di Farneta, don Pierangelo Bertagna, 46 anni, reo confesso di 38 casi di violenza sessuale e processato per 16 episodi di molestie a bambini. Ma il terremoto investe Torino e la diffusissima quanto discussa associazione dei «Ricostruttori nella preghiera», creatura di padre Vittorio Cappelletto, ottuagenario e carismatico gesuita il cui movimento conta ormai una cinquantina di sedi in tutta Italia.

A mettere nei guai i «Ricostruttori» è stato lo stesso Bertagna, sospeso a divinis e oggi senza tonaca. Arrestato nel 2005 a seguito della denuncia della famiglia di un 13enne, l’ex parroco non solo ha candidamente confessato, ma ha rivelato che i «Ricostruttori» e padre Cappelletto sapevano tutto fin dagli Anni Ottanta. Lui, nato e cresciuto nel gruppo e diventato parroco proprio grazie al gesuita torinese, avrebbe chiesto loro aiuto, ma senza riceverlo.

L’agghiacciante particolare, emerso nel corso del processo, troverebbe conferma nelle testimonianze di alcune famiglie delle vittime. Racconti prodotti al processo dai difensori dell’ex parroco, le avvocatesse Annelise Anania e Francesca Mafucci. Alcuni genitori si sarebbero rivolti a padre Cappelletto per segnalare che c’era qualcosa che non andava, ma dopo generiche rassicurazioni la situazione sarebbe rimasta identica. Secondo quanto dichiara Bertagna allo psicologo che lo ha avuto in cura negli ultimi tre anni (e riportato nella perizia depositata al processo), addirittura padre Cappelletto, di fronte alla sua confessione, lo avrebbe esortato a rimanere coi minori: «I bambini ti guariranno», avrebbe detto, prospettando anche un suo trasferimento in Brasile nel caso in cui le pressioni dei familiari si fossero fatte troppo forti. Una versione che oggi padre Cappelletto respinge con forza: «È una persona disperata - dice il gesuita mentre è in visita in una delle case del gruppo in Sicilia -. Non mi ha mai detto nulla, così come le famiglie. Se avessi saputo, lo avrei aiutato».

I «Ricostruttori», però, non vivono un buon momento. Il Centro di Consulenza Anti Abuso di Bologna ha raccolto numerose testimonianze di fuoriusciti che raccontano di pratiche che poco hanno a che vedere con il cattolicesimo, quanto piuttosto con l’induismo e le medicine energetiche, con forme che ricordano la setta spersonalizzante. «Una montagna di materiale venuto fuori dopo una tavola rotonda sul tema organizzata dal centro a dicembre del 2007», racconta la psicologa Silvana Radoani.

Il Vaticano sta valutando il caso dei «Ricostruttori» e i gesuiti hanno aperto un’istruttoria su padre Cappelletto. Il quale, però, smentisce ancora: «Se fossimo ambigui non ci avrebbero assegnato due cattedre alla Gregoriana e alla facoltà teologica di Palermo». Padre Cappelletto non è mai stato interrogato né indagato dai magistrati aretini. Le confessioni di Bertagna sarebbero avvenute in una provincia diversa.

Aborto, il buio oltre la legge

l’Unità 27.6.08
Aborto, il buio oltre la legge
di Pietro Greco

Come affrontare questo
oceano di dolore?
Con pudore e discrezione
e con un forte impegno
culturale e sociale
nella prevenzione

Una questione non solo
medica ma anche
politica su cui si
esercitano inusitate
e inaccettabili
pressioni religiose

DOMANI con l’Unità un libro di Carlo Flamigni che ripercorre la storia di una conquista civile delle donne, sancita con l’approvazione della 194, e dei tentativi medioevali da parte della Chiesa di cancellare questo diritto

L’aborto è una grande tragedia. L’Organizzazione Mondiale di Sanità calcola che ogni anno nel mondo si verificano oltre 80 milioni di gravidanze non desiderate. Di queste, ben 45 milioni vengono interrotte con un aborto. Molto spesso procurato in condizioni di rischio e/o con tecniche primitive, che determinano la morte di un numero di donne stimato tra 70 e 100mila e un numero ancora più grande - milioni - di donne che subiscono menomazioni e danni, fisici e psichici.
Come affrontare questo oceano di dolore? Con grande pudore e discrezione, da parte di tutti. Con un forte impegno, culturale e sociale, nella prevenzione. E con una grande fiducia (senza paternalismi) nella persona, la donna, che in questa tragedia investe più ogni altra: il suo amore materno, il suo corpo, la sua stessa vita. È questo l’approccio che Carlo Flamigni - medico ginecologo e membro della Commissione nazionale di Bioetica - propone per diminuire il carico dolente che accompagna il fenomeno dell’aborto.
La proposta è frutto di un’enorme esperienza medica, di un’ancora più grande partecipazione umana e di un’attenta riflessione etica. E attraversa per intero il libro L’aborto. Storia e attualità di un problema sociale, che l’Unità offre domani ai suoi lettori, senza far mai venir meno la razionalità logica delle argomentazioni, la chiarezza dell’esposizione e la nettezza delle prese di posizione. Quella che Carlo Flamigni ci propone è un’alta lezione di etica laica. E, soprattutto, un metodo per cercare di affrontare senza superbia uno dei temi più delicati che turbano e dividono la nostra società multietica.
L’aborto, ricorda Flamigni, è un «destino doloroso» che da sempre accompagna le donne (molte donne) nel loro percorso di vita: un’«ombra nera» che talvolta le uccide e sempre la angoscia. Presente in ogni tempo e in ogni angolo della Terra. Spesso usato non solo per evitare di portare avanti una gravidanza indesiderata, ma come strumento di controllo delle nascite. Sempre subìto dalle donne come tragica necessità. Anche se la sua accettabilità sociale è storicamente determinata. L’intensità dell’orrore provocato dall’aborto varia di tempo in tempo, da cultura a cultura, da situazione a situazione. Talvolta l’aborto è entrato (ed entra) in competizione con il matrimonio riparatore, l’offerta di adozione (con o senza compravendita del bambino), persino l’infanticidio come strumento di regolare gravidanze non desiderate. Talaltra l’aborto e persino l’infanticidio sono stati (e sono tuttora) usati come strumento di controllo delle nascite.
Molti popoli, fin dall’antichità, hanno cercato di regolare la pratica tragica dell’aborto. Nessuno è mai riuscito a eradicarla. Qualcuno, però, è riuscito a controllarla. Nel 1956 in Vietnam l’abortion rate era di 256 aborti annui ogni 1.000 donne in età riproduttiva, nel 2004 grazie a politiche di controllo è sceso a 30. In Svizzera, dove la pratica dell’aborto è ben regolata, si verificano 6,6 aborti per 1.000 donne in età riproduttiva. In Estonia, dove l’aborto è mal regolato, l’abortion rate sale a 53,8 aborti ogni 1.000 donne in età riproduttiva. Eccoci, dunque, alla prima, netta presa di posizione di Carlo Flamigni: regolare la piaga dell’aborto, lottando non per vietarlo in astratto ma per prevenirlo in concreto. Trattandolo come un problema di salute, quando la donna sente di dover interrompere una gravidanza. E prevenendo, appunto, i motivi che spingono all’angosciosa decisione, attraverso l’uso dei più efficaci sistemi anticoncezionali, una solida educazione sessuale e la rimozione delle cause economiche e sociali che portano alla decisione di rinunciare a un figlio.
Tenendo sempre presente che l’alternativa all’aborto controllato non è l’assenza di aborti, ma - sostiene Flamigni - l’aborto clandestino. Mentre la storia medica dimostra che il tentativo di controllare la tragedia dell’aborto, sottraendolo alla clandestinità e rendendolo un problema di salute da affidare a strutture mediche, consente di raggiungere due obiettivi di grane importanza: diminuire il numero assoluto di aborti e rendere meno rischiosa la pratica per la donna che lo subisce. Due obiettivi sempre elusi nelle società che evocano un astratto divieto assoluto.
Oggi nella gran parte dei paesi del mondo si cerca di regolare la tragedia dell’aborto, consentendo l’interruzione volontaria di gravidanza con l’assistenza del medico sulla base di principi (tra cui la ricerca del male minore), invece che di valori assoluti. E quasi ovunque il tentativo si risolve non solo nella diminuzione dei rischi di salute per le donne, ma nella diminuzione del numero assoluto di aborti. Quasi ovunque la regolazione avviene riconoscendo in buona sostanza che, quando la salute della donna entra in conflitto con la vita dell’embrione o anche del feto, è la prima a dover essere salvaguardata. In Italia a regolare l’aborto sulla base di questo principio (e non di questo valore, sottolinea Flamigni) è la legge 194, approvata dal Parlamento nel 1978 - trent’anni fa - e confermata dal referendum del 1981. I successi di questa legge sono innegabili. Negli anni ’70 il numero di aborti clandestini in Italia superavano il numero stimato di 350.000. Nell’anno 2000 si erano ridotti a 30.000. Ma anche gli aborti legali sono diminuiti: passando dal massimo di 234.801 del 1982, ai 129.588 del 2005. In questi trent’anni in Italia il numero complessivo di aborti si è, dunque, dimezzato. E, poiché la gran parte avviene in strutture mediche, la mortalità tra le donne è diminuita fin quasi ad azzerarsi.
Da un punto di vista medico si tratta di un successo indiscutibile. L’aborto resta una tragedia. Ma oggi è una tragedia che ha dimensioni minori. L’Italia è uno dei paesi al mondo col minor numero di aborti.
La legge 194 presenta, tuttavia, delle ombre. Una, secondo Carlo Flamigni, consiste nell’obiezione di coscienza tra i medici ginecologi, che in alcune regioni ha raggiunto punte così elevate - il 92% in Basilicata, l’80% in Veneto, contro il 20% in Val d’Aosta - da risultare non solo inspiegabili, ma anche inaccettabili, perché rischiano di svuotare la legge e di riconsegnare le donne povere alle mammane e le donne ricche alle cliniche svizzere. La proposta di Flamigni è, giustamente, radicale: proibire l’obiezione di coscienza. Un istituto giusto quando la legge 194 fu stabilita e un medico si sarebbe trovato, da un giorno all’altro, costretto o a praticare l’aborto o ad abbandonare la professione. Ma ingiusto oggi, perché chi ormai sceglie la professione di ginecologo da esercitare in una struttura pubblica conosce il quadro normativo. L’obiezione di coscienza va abolita, sostiene Flamigni, perché mette a repentaglio la salute delle donne.
Appassionata è anche la difesa che Carlo Flamigni propone della pillola abortiva RU486 - una tecnologia che consente non aborti più facili, ma aborti meno dolorosi. E della cosiddetta «pillola del giorno dopo», che non può in alcun modo essere considerata uno strumento abortivo, ma semplicemente un anticoncezionale.
Carlo Flamigni sa, tuttavia, che il problema dell’aborto non è solo una questione medica. E che non può essere affrontato solo in termini tecnici. È una grande questione politica, su cui si esercitano inusitate pressioni di tipo religioso. Carlo Flamigni vede che la legge 194 è oggi sotto attacco. E che questi attacchi possono metterla pesantemente in discussione. L’attacco avviene su diversi piani, a iniziare da quello culturale. Secondo Flamigni è in atto una «crociata della disperazione» da parte di una componente importante della gerarchia cattolica e dello stesso Pontefice, che ha per oggetto parti della legge e la sua stessa totalità. Questa pressione si fonda su alcuni presupposti concettuali. Il primo è che a guidare la società devono essere valori etici assoluti e intangibili, non principi pragmatici e storicamente determinati. Uno di questi valori è ben noto: la vita di ogni persona è un bene assoluto non negoziabile. E poiché «fin dall’inizio» l’embrione «è uno di noi», una persona a tutti gli effetti, con i medesimi diritti di un adulto, l’aborto deve essere considerato un male assoluto. Da proibire, non da regolare. Risultato di queste assunzioni sembra essere - in prospettiva - l’abrogazione della legge 194. Ma intanto gli attacchi si concentrano su aspetti particolari, in grado di metterne in discussione l’intero impianto. Uno di questi attacchi locali, riguarda, per esempio il ruolo del padre. Si giudica inaccettabile il fatto che nelle decisioni sull’interruzione di gravidanza la legge non preveda un suo ruolo, allo stesso livello di quello della madre. O anche il ruolo del medico. Si giudica inaccettabile che, anche nei primi 90 giorni, l’interruzione della gravidanza non sia il medico ad avere l’ultima parola. O, ancora, il ruolo dei «centri di dissuasione»: si tenta di stabilire negli ospedali presidi di volontari che, scrive Flamigni «avrebbero l’unica funzione di dissuadere la donna dal portare a compimento la propria scelta». Nell’insieme l’obiettivo è chiaro: mettere in discussione il diritto all’autodeterminazione delle donne. Sottrarre loro il «potere di decisione». C’è, in questo attacco, qualcosa che a Carlo Flamigni appare del tutto inaccettabile. L’idea - del tutto priva di fondamenta - che l’aborto sia utilizzato nella nostra società come un metodo di contraccezione e non come una necessità angosciante. L’idea che la donna non sia in grado di pensare e di decidere con la propria testa, per cui occorre che altri decidano a posto suo: il marito, il medico, i gruppi di volontari per la vita. Mentre demandare la scelta alla donna non è solo lo strumento più giusto - è la donna, non il marito, il medico o il volontario, che mette in gioco il suo corpo e il suo amore materno - ma anche il più ragionevole: nessuno più della donna è in grado di scegliere tra il male minore, proprio perché nessuno più di lei ha poste in gioco così alte.
Si dirà: ma questo libro poteva essere scritto trent’anni fa. All’epoca della stesura della 194 o tre anni dopo, all’epoca del referendum. Ma qui sta tutta la sua drammatica attualità. Il libro è una sveglia. Attenti che possiamo ritornare a trent’anni fa. «Temo che le ragazze nate dopo il 1978 siano convinte - scrive Flamigni - che i diritti acquisiti, nessuno te li può più toccare, e non si rendano conto di quanto sta accadendo. In realtà, basta dormire un po’ più a lungo che quando ti svegli i tuoi diritti non ci sono più». Qualcuno te li ha rubati. E i ladri di diritti sono dappertutto. Non lasciamoli agire indisturbati.

La Chiesa contro Montaigne

La Repubblica 28.6.08
La Chiesa contro Montaigne
Un saggio di Saverio Ricci su "Inquisitori, censori e filosofi"
di Benedetta Craveri

Quando arrivò a Roma nel 1580 lo scrittore si vide sequestrare i bagagli compresa la copia degli "Essais" fresca di stampa
Dopo lo scisma protestante ci fu una lotta capillare anche preventiva contro l´eresia
Molti libri erano semplicemente messi all´Indice, altri venivano emendati

Più che mai determinata, dopo lo scisma protestante, a condurre una lotta capillare contro l´eresia, la Chiesa di Roma mise a punto un grandioso sistema censorio volto a preservare l´ortodossia del mondo cattolico. Non si trattava soltanto di bloccare l´importazione delle opere dei pensatori riformati o sequestrare dalle biblioteche pubbliche e private i libri che si erano rivelati pericolosi, a cominciare dalle traduzioni dei testi sacri in lingua volgare che, consentendo ai lettori comuni una conoscenza diretta delle scritture, li incoraggiava allo spirito critico e alla controversia. Bisognava controllare l´intera vita intellettuale del mondo cattolico, sottoponendo a una severa censura preventiva qualsiasi testo destinato alla pubblicazione e innescando di conseguenza negli scrittori un meccanismo di auto censura di cui è impossibile oggi misurare la portata.
Dopo la pubblicazione dei primi Indici romani dei libri proibiti (1559,1564), tre organi furono chiamati a fare fronte in modo sistematico a questo programma totalizzante. Il Santo Uffizio che, istituito nel 1542, aveva la somma responsabilità di vigilare sull´ortodossia di tutta la res publica christiana; la Congregazione dell´Indice dei libri proibiti, creata da Pio V nel 1571 e incaricata, almeno in teoria, di esercitare la sua attività su tutto il mondo cattolico; il Maestro del Sacro Palazzo, vale a dire il teologo del papa, responsabile della censura a Roma.
Il programma censorio prevedeva due fasi. La prima, e di gran lunga la più semplice, consisteva nella messa all´indice preventiva delle opere che per una qualsiasi ragione potevano apparire sospette. La seconda, assai più complessa, prevedeva l´emendatio, vale a dire un vero e proprio lavoro di editing - soppressioni, manipolazioni, chiose - a cui sottoporre i testi confiscati giudicati recuperabili.
Fra gli esponenti più illuminati del clero l´esigenza di una difesa intransigente del dogma si accompagnava, infatti, alla convinzione che il pensiero religioso non andasse tagliato fuori dagli sviluppi del pensiero filosofico e che si dovesse tenere conto tanto delle esigenze dei lettori colti, quanto degli interessi del mercato librario dell´intera Penisola che una politica di censura senza appello rischiava di mettere in ginocchio. Eppure, nonostante uno straordinario dispiegamento di forze, le cose non andarono nel modo auspicato. Mentre il numero dei titoli messi all´indice a scopo cautelativo non avrebbe fatto che aumentare, il lavoro di revisione, che doveva consentire a molti dei testi congelati di rientrare in circolazione, procedeva a rilento, rivelandosi, nella maggioranza dei casi, inattuabile.
Basti pensare al fallimento dell´expurgatio del Talmud ebraico, alle mancate revisioni del Cortegiano di Castiglione e del Decamerone di Boccaccio, o al tormentato problema della «espurgabilità» di Machiavelli e di Erasmo. Perché, lungi dal limitare il suo campo di intervento all´eresia teologica, la Chiesa era andata estendendo la sua volontà di controllo a tutti i campi dello scibile, dagli studi politici e giuridici alla fisica, alla scienza, alla matematica, all´astronomia, ai trattati di magia, alle arti esoteriche. E la sua attività censoria investiva ugualmente la letteratura antica e moderna, i poemi cavallereschi, la poesia erotica, i romanzi. Per esaminare l´opera del popolarissimo Ariosto si istruì, ad esempio, a Ferrara, una commissione apposita, interamente consacrata a correggerne gli errori.
In questo quadro di guerra preventiva, la filosofia rimaneva naturalmente la maggiore indiziata e la condanna al rogo di Giordano Bruno nel 1600 e il terribile processo a Tommaso Campanella dovevano testimoniare in modo non equivoco dell´intransigenza della curia romana in fatto di dottrina. Ed è proprio a partire da una attenta messa in prospettiva critica di un secolo e mezzo di studi sull´azione della censura pontificia che Saverio Ricci, prese le debite distanze sia dalla leggenda nera dell´Inquisizione che da una sua ancor più inaccettabile leggenda «rosa», riapre oggi, in un libro dotto e appassionante, l´immenso dossier sulla politica di salvaguardia della Chiesa nei confronti della filosofia alla luce di alcuni casi significativi di censura cinquecentesca.
Se non è qui possibile rendere conto della complessità del quadro storico culturale e delle preoccupazioni teologiche che fanno da sfondo a Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della controriforma (Salerno Editrice, pagg. 426, euro 24,00), i due importanti capitoli consacrati da Ricci a Montaigne ci consentono di cogliere le esitazioni della Chiesa sulla strategie filosofiche da seguire come pure le contraddizioni che la paralizzavano dall´interno, costringendola a una politica di compromesso non sempre proficua. Come scrive, infatti, Ricci «la Chiesa cattolica avvertì precocemente un sentore di eterodossia negli Essais del signore di Montaigne, non appena questi e il suo libro arrivarono a Roma, ma dimostrò molto tardi piena contezza del pericolo che quel libro avrebbe potuto costituire per la fede. La inserì infatti nell´Indice dei libri proibiti quasi un secolo dopo la sua pubblicazione, sulla base di una nuova lettura, e in un contesto molto mutato». Proviamo, dunque, sul filo della ricostruzione dello studioso, a capire le ragioni di questa censura in due tempi.
Giunto a Roma nel novembre del 1580, Montaigne ebbe la sgradita sorpresa di vedersi sequestrare dagli ufficiali della dogana pontificia tutti i volumi trovati tra i suoi bagagli, ivi compreso un esemplare degli Essais fresco di stampa. Benché autorizzata dalla curia di Bordeaux e munita di regolare privilegio reale, l´opera era ora chiamata a fare i conti con quel sistema inquisitoriale che i re di Francia si erano rifiutati di insediare nel loro paese. Mentre le autorità competenti passavano al vaglio ciò che aveva scritto, Montaigne riceveva, per altro, un accoglienza degna di un dotto gentiluomo che godeva della considerazione di Caterina de´ Medici e di Enrico III di Valois, nonché dell´amicizia personale dell´ambasciatore di Francia a Roma il conte d´Albain. E presentato al papa Gregorio XIII e ammesso al bacio della pantofola, Montaigne veniva esortato dal pontefice a «continuar nella devozione da lui sempre professata alla Chiesa e nel servizio del re cristianissimo».
In realtà tanto la devozione di Montaigne che quella del suo sovrano suscitavano non poche giustificate riserve agli occhi della curia romana. Dopo l´exploit della notte di San Bartolomeo, salutata a Roma da un tripudio di Te Deum, i Valois si erano, infatti, mostrati colpevolmente esitanti nella lotta contro l´eresia protestante ed avevano appena sottoscritto la pace di Fleix che metteva fine alla settima guerra di religione, là dove Montaigne, ignorando il divieto che pesava sull´opera, aveva tradotto in francese la Theologia naturalis di Raimond Sebond per poi tornare ad interessarsi alle posizioni dell´agostiniano catalano nell´Apologia di Raimondo Sebond nel secondo libro degli Essais.
Ma proprio in considerazione della difficile situazione francese, non bisognava disconoscere a Montaigne il merito di avere diffuso nel suo paese un trattato che, pur colpevole di ridimensionare il ruolo di mediazione della Chiesa nella interpretazione delle Scritture, insistendo sulla dimostrabilità razionale delle verità cattoliche, sul libero arbitrio, sull´eccellenza umana, poteva rivelarsi utile nella confutazione degli eretici? E venendo alle convinzioni scettico-fideistiche e alla concezione politica della religione esposte da Montaigne stesso negli Essais, queste non andavano tollerate nella misura in cui l´autore si schierava contro i protestanti, dichiarandosi contrario a tutti i sovvertimenti religiosi che mettevano in pericolo la pace civile e auspicando che la Francia si mantenesse nella fede cattolica?
Vi erano poi gli strali rivolti da Montaigne contro i processi alle streghe contenuti nel capitolo del I libro degli Essais dal titolo Della forza dell´immaginazione. Lo scrittore si chiedeva, in polemica con il suo conterraneo Jean Bodin, ossessionato dal problema, come fosse possibile «arrostire un essere umano» scambiando per manifestazioni diaboliche delle pure e semplici patologie mentali. «Per uccidere la gente», egli scriveva, «ci vuole una chiarezza luminosa e netta: e la nostra vita è troppo reale ed essenziale per garantire quei fatti soprannaturali e immaginari». Ora, benché non fosse certo quella «chiarezza luminosa» a fare difetto al Santo Uffizio, la posizione di Montaigne andava nella direzione assunta in quegli anni dalla Chiesa in fatto di stregoneria. Visto l´inquietante dilagare del fenomeno della caccia alle streghe e la sua strumentalizzazione tanto nei paesi cattolici che in quelli protestanti, Roma preferiva difendere la propria competenza in materia di sovrannaturale e assumeva una posizione critica rispetto ai fenomeni di superstizione e di magia. Di conseguenza il suo sistema inquisitoriale si sarebbe su questo punto distinto dalla politica dei tribunali civili e da quelli protestanti dando prova di una maggiore moderazione e di una «indubbia modernità».
Di ben altra gravità veniva giudicato, invece, l´uso del termine «fortuna» intesa, in accordo con la filosofia antica, come una forza cieca che determinava le vicende degli uomini e ne forgiava il destino secondo le mutevoli categorie del vero e del falso.
Come pure estremamente gravi apparivano talune concordanze di pensiero con Machiavelli. Eppure, nonostante ciò, al momento della partenza di Montaigne dalla Città Eterna di cui, nel frattempo, era stato fatto cittadino onorario, il Maestro del Sacro Palazzo, si limitava a consegnargli una lista di appunti invitandolo amabilmente a tenerne conto nelle edizioni future dell´opera. Vuoi per calcolo politico, vuoi per un eccesso di fiducia nelle virtù del proprio metodo, la censura papale disconosceva così la portata sovversiva di un´opera che si preparava a disseminare, all´insegna di una «doppia verità», lo scetticismo e il dubbio tra le file dei suoi numerosissimi lettori. Perché, inutile dire che tornato in patria, Montaigne non procedette a auto-emendatio di sorta, lasciando ai censori romani la magra consolazione di intervenire pesantemente sulla traduzione italiana dell´opera.
Ad aprire gli occhi alla censura papale sarebbe stata la doppia condanna, teologica e morale, degli Essais pronunciata dalle autorità calviniste nel 1602, ma a determinare la sentenza del 1676 - la condanna dell´opera in tutte le lingue - furono molto probabilmente «le perniciose conseguenze che un vasto e inadeguato pubblico avrebbe potuto trarne». Non meno pernicioso doveva, tuttavia, apparire l´impatto sui lettori colti. Per capire che la posta in gioco era ancora più grande bastava a Roma di guardare a Venezia dove il teologo eretico della Serenissima, il frate Paolo Sarpi, aveva contestato l´autorità pontificia con il soprannome di «Montaigne col cappuccio».
Non era, in effetti, la strategia incerta del dialogo e dell´emendatio, bensì l´esercizio senza concessioni di una feroce censura, che avrebbe consentito alla Chiesa di Roma di vincere la sua battaglia politica risparmiando all´Italia il dramma dello scisma ma isolandola culturalmente dal resto dell´Europa.

giovedì 26 giugno 2008

Onorevoli in pellegrinaggio in Terra Santa, ma chi paga?

Onorevoli in pellegrinaggio in Terra Santa, ma chi paga?

Liberazione del 26 giugno 2008, pag. 4

Il Pastore Monsignor Rino Fisichella, cappellano di Montecitorio, porterà le onorevoli pecorelle in Terra Santa «lungo gli itinerari percorsi da Gesù». Per la quinta volta gli onorevoli vanno in pellegrinaggio (nella prima settimana di settembre) e fioccano le adesioni, già 70 e ovviamente bipartisan. «Un pellegrinaggio per sua natura religioso», ribadisce il Monsignore a scanso di equivoci. «Si tratta di un vero e proprio pellegrinaggio - conferma Maurizio Lupi, vice presidente della Camera, esponente di Cl e tra i promotori - ma assume un significato particolare perché compiuto da persone che hanno una responsabilità politica». Una sola domanda: chi paga la gita confessionale? Il contribuente?

Eluana non avrebbe voluto vivere come un vegetale

Eluana non avrebbe voluto vivere come un vegetale

QN del 26 giugno 2008, pag. 17

di Mario Consani

Dopo lo spiraglio aperto dalla Cassazione, l’odissea di Eluana torna al vaglio dei giudici milanesi. Entro dieci giorni la prima Corte d’appello dovrà decidere se disporre o meno un supplemento istruttorio sul caso della giovane donna in stato vegetativo permanente da sedici anni e per la quale il padre chiede che venga sospesa l’alimentazione artificiale. Ieri mattina, nell’ambito del nuovo processo ordinato dalla Suprema Corte - che a ottobre annullò le precedenti decisioni negative dei tribunali lombardi - è stato sentito per circa un’ora Beppino Englaro, il padre della ragazza, a proposito dei convincimenti e della personalità di Eluana prima dell’incidente stradale che l’ha ridotta in questo stato. Al termine dell’audizione, il collegio composto dai giudici Giuseppe Patrone, Filippo Lamanna e Flavìo Lapertosa si è riservato di decidere se nominare o meno un collegio di consulenti medici per accertare l’effettiva irreversibilità della condizione di Eluana e se convocare o meno una serie di testimoni per accertare quale pensiero avesse espresso la giovane donna, prima di cadere in coma, a proposito di situazioni come la sua. Proprio questo, del resto, la Cassazione ha chiesto otto mesi fa. Dopo otto dinieghi pronunciati negli anni dai diversi giudici, la sentenza della Suprema Corte ha segnato un’importante inversione di tendenza non solo per la drammatica vicenda di Eluana. La spina si può staccare, dissero in sintesi i giudici, purché il coma sia assolutamente irreversibile e purché vi sia la prova certa che così avrebbe voluto il paziente se fosse ancora in grado di scegliere.



«Quello che sognavo si è verificato», ha detto ieri il padre Beppino dopo essere stato sentito dai giudici civili. Ha risposto alle loro domande «con il massimo dell’approfondimento» sui convincimenti di Eluana, «una creatura splendida, libera, pura». Englaro ha osservato che prima della vicenda di sua figlia, in Italia «non si è mai affrontato un caso del genere» e si è detto fiducioso nella magistratura: «Faranno quello che è giusto per Eluana».



Fuori dal Palazzo di giustizia, un piccolo sit-in dei radicali dell’associazione «Luca Coscioni» di Milano e Lecco, la città dove la ragazza viveva. Sullo striscione la scritta: «Libertà per Eluana». Alessandro Litta Modignani, esponente radicale, ha chiesto che «venga posto fine a questo inutile calvario che dura da seimila giorni». La Cassazione, lo scorso ottobre, aveva anche puntato il dito sulla «attuale carenza di una specifica disciplina legislativa» che fornisca indicazioni da seguire, sollecitando il Parlamento a intervenire. «Ove il malato giaccia da moltissimi anni in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione e idratazione - scrissero i giudici su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario». Purché esistano due precisi presupposti: «Quando la condizione di stato vegetativo sia irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno a una percezione del mondo esterno». E sempre che tale istanza «sia realmente espressiva, in base a elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona».

Il figlio di Calvi: la Orlandi rapita per intimidire la Santa Sede

Corriere della Sera 26.6.08
La ragazza sparita Da due mesi la Dia sta verificando i collegamenti con la morte del banchiere
Il figlio di Calvi: la Orlandi rapita per intimidire la Santa Sede
Nuova pista: presa per errore, verifiche su una socia di Flavio Carboni
di Giovanni Bianconi

ROMA — Un segmento dell'indagine ancora aperta sull'omicidio di Roberto Calvi — il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra — porta alla scomparsa di Emanuela Orlandi, e all'intreccio tra i due fatti avvenuti a un anno di distanza uno dall'altro. Il banchiere fu ucciso il 18 giugno 1982, la ragazza fu sequestrata il 22 giugno 1983.
Carlo Calvi, figlio di Roberto, ha dichiarato ai magistrati che tuttora cercano la verità sull'omicidio del padre: «Il rapimento della Orlandi è un messaggio teso a intimare al Vaticano il silenzio su certe questioni molto delicate, come quelle di natura finanziaria, che hanno visto il coinvolgimento di banche, mafia, partiti politici. Queste oscure vicende, come il rapimento di Emanuela Orlandi, risulteranno sempre legate alla nostra vicenda, alla morte di mio padre e alla fine dell'Ambrosiano».
Prendendo spunto da questa dichiarazione e da altri elementi emersi nel corso di un procedimento che dura da anni, due mesi fa la Direzione investigativa antimafia ha ricevuto una delega dalla Procura di Roma per approfondire un'ipotesi che non solo tiene insieme i due fatti, ma chiama di nuovo in causa Flavio Carboni, il faccendiere già assolto dall'omicidio Calvi nel giudizio di primo grado, in attesa del processo d'appello. Gli accertamenti richiesti muovono dall'ipotesi, già affacciata in passato, che nel sequestro di Emanuela Orlandi, figlia di un dipendente vaticano, ci sia stato un errore di persona: la vittima avrebbe dovuto essere Raffaella Gugel, una ragazza che assomigliava molto a Emanuela e abitava nello stesso palazzo e allo stessa piano.
Il padre della giovane che solo per caso sarebbe sfuggita al rapimento è Angelo Gugel, assistente personale di papa Giovanni Paolo II e in precedenza - per quanto risulta ai magistrati romani - «stretto collaboratore di Marcinkus», il monsignore ex presidente dello Ior, la banca vaticana.
Già «aiutante di camera» di papa Luciani, pontefice per 33 giorni del 1978, tra Paolo VI e Giovanni Paolo II, Gugel è stato anche al fianco di Benedetto XVI.
Qual è l'ipotetico collegamento con la morte di Calvi e la vicenda dell'Ambrosiano? Il fatto che in diverse società a cui è interessato Flavio Carboni - ancora imputato per l'omicidio del banchiere nonostante l'assoluzione in primo grado - figuri tra i soci tale Rita Gugel: identico cognome dell'assistente del papa, peraltro poco diffuso in Italia. La richiesta giunta alla Dia è di accertare se quella Rita Gugel socia di Carboni sia parente di Angelo, attraverso verifiche anagrafiche e nelle camere di commercio.
L'ipotesi investigativa è dunque nell'eventuale intreccio tra Carboni e un uomo - o una famiglia - molto vicino al papa, alle mosse di monsignor Marcinkus e quindi della finanza vaticana tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, quando lo Ior si mescolò con la vicenda di Calvi e dell'Ambrosiano. Nel caso dell'errore di persona, il sequestro della Orlandi avrebbe dovuto essere un segnale lanciato in quell'ambiente.
Sabina Minardi, l'ex amante del bandito della Magliana Enrico De Pedis che alcune settimane fa ha reso dichiarazioni alla polizia sul rapimento (e a suo dire l'uccisione) della ragazza, non fa alcun accenno a uno sbaglio dei rapitori.
Ma tira in ballo monsignor Marcinkus (morto nel 2006), che dice di aver conosciuto al pari di Carboni e Calvi. In maniera confusa e contraddittoria, sommando indicazioni riscontrabili ad altre già smentite, la nuova testimone ha detto che l'arcivescovo sarebbe il mandante del sequestro, eseguito da De Pedis e i suoi amici. Sul movente riferisce ricordi vaghi, che vanno dai imprecisati documenti in possesso del padre della ragazza al denaro della banda della Magliana affidato al prelato-banchiere. Affermazioni che gli investigatori della squadra mobile considerano la parte più debole di un racconto già traballante. Con maggiore precisione la donna ha rivelato di aver portato a casa di Marcinkus delle prostitute, descrivendo l'appartamento del monsignore e fornendo altri particolari.
Se il coinvolgimento «della Magliana» nel sequestro Orlandi è ancora un'ipotesi, quello nella vicenda Ambrosiano-Calvi è invece una realtà certificata dalla morte di uno dei «testaccini» della banda, ucciso a Milano dopo aver sparato al vice-presidente della banca Roberto Rosone. «Era un avvertimento per Calvi, considerato non più affidabile», spiegò il suo amico e sodale De Pedis, secondo il racconto del pentito Maurizio Abbatino. Due mesi dopo Calvi fu ucciso, e un anno più tardi sparì Emanuela Orlandi: la nuova indagine proverà a verificare eventuali collegamenti mai accennati da Abbatino e dagli altri pentiti della banda.

mercoledì 25 giugno 2008

La Bibbia entra nelle urne

La Bibbia entra nelle urne

La Stampa del 25 giugno 2008, pag. 14

di Maurizio Molinari
Il leader evangelico James Dobson si lancia all’attacco di Barack Obama e nella campagna presidenziale americana scocca l’ora della «Bible War», la guerra della Bibbia, su chi interpreta più fedelmente il contenuto dei sacri testi.

James Dobson è uno dei più autorevoli leader del movimento evangelico che nel 2004 assicurò la rielezione a George W. Bush andando in massa alle urne. Deve la sua popolarità alla creazione, nel 1977, di «Focus on the Family», dal quale è nato il «Family Research Group», protagonista di battaglie contro l’aborto e a favore della sacralità del matrimonio «fra uomo e donna». Nato a Shrevenport, in Louisiana, e superata la soglia dei 72 anni, James Dobson è considerato l’erede di leader evangelici come Billy Graham e Pat Robertson, anche perché guida un impero mediatico che ruota attorno al programma radiofonico «Focus on the Family» con 220 milioni di ascoltatori in 164 Paesi del mondo.

Proprio attraverso questa trasmissione Dobson ha ieri, per la prima volta, attaccato frontalmente Barack Obama, imputandogli di «stravolgere la Bibbia e la Costituzione» per quanto detto in un sermone pronunciato nel giugno del 2006. A conferma che l’attacco a freddo di Dobson annuncia una campagna in grande stile, è stato preceduto e seguito dalla mobilitazione di gruppi di attivisti evangelici, che hanno consegnato ai media i 18 minuti del discorso incriminato.

Si tratta di un intervento che Obama fece nel momento in cui stava girando l’America puntando a diventare un politico di spessore nazionale. Accettò l’invito a parlare che gli era venuto da «Call to Renewal», il gruppo di credenti liberal che segue il teologo Jim Wallis, e in quell’occasione lanciò un duro attacco proprio contro i fondamentalisti evangelici. «Anche se fra noi non vi fossero altro che cristiani, anche se avessimo espulso tutti i non cristiani dall’America, quale cristianesimo insegneremmo nelle scuole, quello di James Dobson o di Al Sharpton?» si chiese Obama, indicando nel leader liberal afroamericano di Harlem l’esatto opposto del predicatore evangelico bianco. Obama andò oltre, e per dimostrare l’infondatezza dell’interpretazione letterale della Bibbia che distingue proprio i fondamentalisti cristiani, aggiunse: «In Libri come il Levitico si afferma che la schiavitù va bene mentre si ritiene sbagliato mangiare frutti di mare». E ancora: «Il Sermone di Gesù sulla Montagna è un testo talmente estremo da dubitare che anche il nostro Dipartimento della Difesa possa sopravvivere alla sua applicazione». La tesi di Obama fu che «la gente non legge la Bibbia» e dunque finisce per credere ciecamente in un testo non più applicabile testualmente.

Dobson ha picchiato duro dall’etere. «Con quelle parole Obama ha deliberatamente distorto il messaggio tradizionale della Bibbia per piegarlo alle sue idea e alla sua confusa teologia», anche perché «le diete alimentari del Vecchio Testamento non possono essere equiparate agli insegnamenti di Gesù nel Nuovo Testamento». La parte più dura dell’intervento di Dobson investe l’impostazione stessa del pensiero religioso di Obama, secondo il quale «anche in dibattiti su questioni come l’aborto i credenti devono esprimersi in cornici accessibili a tutti i cittadini». «Questo significa stravolgere la Costituzione americana» obietta Dobson, tuonando: «Non accetterò mai di venire a patti con l’idea sanguinosa di togliere la vita ai bambini, quello che Obama tenta di affermare è il principio in base al quale se tutti sono d’accordo io non ho più alcun diritto a dissentire».

Sebbene Dobson durante le primarie repubblicane abbia sostenuto Mike Huckabee e non John McCain, il suo affondo apre di fatto la mobilitazione degli evangelici per bloccare la strada ad Obama, impegnato proprio in queste settimane nella campagna «American Values House Parties» puntata a mobilitare i credenti per ricostruire il legame fra il partito democratico e i gruppi religiosi. Barack gioca questa carta nell’ambito della strategia tesa a strappare ai repubblicani Stati tradizionalmente conservatori - come Virginia, Georgia, North Carolina e Colorado - e non a caso i suoi portavoci hanno replicato a Dobson assicurando che «parliamo con tutti gli uomini di fede». Ma la «Bible War» è solo all’inizio e potrebbe decidere chi andrà la Casa Bianca.

Marcinkus, il faccendiere Vaticano che non ha mai detto la verità

Marcinkus, il faccendiere Vaticano che non ha mai detto la verità

Liberazione del 25 giugno 2008, pag. 14

di Fulvio Fania
Il morto interrogato non rispose. Chiamano in causa i defunti le ultime rivelazioni di Sabrina Minardi, la compagna del boss della Magliana Enrico De Pedis detto Renatino, sul rapimento di Emanuela Orlandi. E nella calura di questo inizio estate c'è il rischio che l'improvviso incendio venga spento come fuoco fatuo.
Un morto illustre spicca su tutti, l'arcivescovo Paul Casimir Marcinkus, deceduto il 20 febbraio di due anni fa. L'atletico prelato americano, per lunghi anni disinvolto presidente dello Ior, ora accusato dalla donna come mandante del rapimento della ragazza, non potrà replicare. In sua difesa interviene la Santa sede.
«Si divulgano accuse infamanti senza fondamento nei confronti di monsignor Marcinkus morto da tempo e impossibilitato a difendersi», dichiara il direttore della Sala stampa Federico Lombardi che prosegue: «Colpisce l'amplissima divulgazione giornalistica di informazioni riservate non sottoposte a verifica alcuna, provenienti da una testimonianza di valore estremamente dubbio». Il padre gesuita sembra alludere alla incongruenza di date già emersa dalle rivelazioni di Sabrina Minardi secondo la quale il cadavere di Emanuela, assassinata, sarebbe stato impastato nel cemento di una betoniera a Torvajanica insieme a quello dell'undicenne Domenico Nicitra che in realtà fu trucidato diversi anni dopo.
Il Vaticano, pur contestando il «sensazionalismo» della stampa, assicura di «non voler in alcun modo interferire con i compiti della magistratura nella sua doverosa verifica di fatti e responsabilità».
Marcinkus, da parte sua, non si mostrò molto loquace neppure da vivo quando, nel 1987, si avvalse dell'immunità vaticana per sottrarsi al mandato d'arresto spiccato dal giudice istruttore Renato Bricchetti per il crack del Banco Ambrosiano, lo scandalo esploso nel 1981 e già costato la vita al banchiere Roberto Calvi. Nella ricostruzione fornita dalla donna i due gialli si intrecciano. La verità del rapimento Orlandi andrebbe cercata in quel groviglio di ricatti e interessi finanziari, anziché nei depistaggi delle piste bulgare, dell'attentato al Papa e del Lupo grigio Ali Agca. La versione di Sabrina Minardi converge «in parte» con quella offerta dal pentito della banda della Magliana Antonio Mancini. Identica l'accusa ad Enrico De Pedis di aver ucciso Emanuela, figlia di un commesso di Casa Pontificia e cittadina vaticana, rapita all'uscita della scuola di musica il 22 giugno del 1983. Minardi punta più esplicitamente il dito contro l'arcivescovo che, sentendosi ormai perduto, avrebbe tentato di ricattare il papa per costringerlo a non mollarlo. Negli ambienti vaticani preferiscono far credere invece ad un ricatto della mafia per riavere i soldi persi nel fallimento dell'Ambrosiano. Ma non è finita. Senza bisogno di addossare a Marcinkus addirittura la responsabilità di un rapimento emergono altre inquietanti supposizioni. Secondo alcuni giornali l'allora vice capo del Sisde Vincenzo Parisi, in una nota rimasta riservata fino al 1995, avrebbe fornito un identikit del famoso "amerikano" delle telefonate anonime alla famiglia durante il sequestro che corrisponderebbe alle caratteristiche del capo dello Ior.
Marcinkus è morto in una sorta di esilio a Sun City in una parrocchia dell'Illinois, ormai lontano dai soldi e dai poteri di curia. Enrico De Pedis, il capo banda della Magliana, fu ucciso dai suoi in un regolamento di conti a Campo de' Fiori e sepolto beato per declarati meriti di donazione ai poveri nella basilica papale di Sant'Apollinare, onorato come un non comune mortale in piena proprietà pontificia grazie a misteriosi ordini superiori. Quel sepolcro di criminale in terra sacra resta immobile come un colossale interrogativo sui misteri di curia, per lo meno sulle vere ragioni che spinsero don Piero Vergari, rettore della basilica retta dall'Opus Dei, a benedire Renatino con tanta devozione. Nessuno rimuoverà la tomba. Nel 2005, infatti, il Vicariato di Roma spiegò che «per il rispetto che si deve ad ogni defunto» ci si doveva rassegnare a pregare accanto alle spoglie del capo della Magliana.
E' ormai morto anche il padre della povera Emanuela che, stando alle ultime rivelazioni, avrebbe visto in Vaticano carte che non doveva vedere e per questo sarebbe stato colpito con il sequestro della figlia. Una tesi che la famiglia respinge in modo categorico.
Dietro le mura apostoliche in queste ore sembra riaffacciarsi un incubo. Di nuovo Marcinkus: credevano di aver chiuso il capitolo agli inizi degli anni Novanta. Il banchiere di Dio che giocava a golf e faceva girare soldi a palate dallo Ior a società con sede nelle Bahamas, come la Overseas fondata insieme a Roberto Calvi, l'arcivescovo che giocava capitali a Wall Street e ingigantiva la borsa vaticana, aveva terminato la sua corsa. Inseguito dal crack della finanza "amica" dell'Ambrosiano - che ha travolto capitali della banda della Magliana - lo Ior ha dovuto sborsare almeno 250 milioni di dollari per tacitare i creditori. Licio Gelli, alla sua morte, giurò di non aver mai conosciuto Marcinkus, ma c'è poco da credergli visti i contatti tra massoneria P2, Michele Sindona, Roberto Calvi e Ior dell'epoca.
Marcinkus in fondo se l'è cavata con poco. Sostituito nell'incarico nell'89 da un interregno di monsignor Donato De Bonis, che ne era stato collaboratore, è tornato negli Usa. Secondo Francesco Cossiga quel suo ritiro dimostrerebbe quanto fosse umile il monsignore. In realtà Marcinkus fu allontanato dopo quarant'anni trascorsi in Vaticano. Era nato a Cicero, vicino a Chicago, nella stessa città di Al Capone. Paolo VI lo fece vescovo nel 1969 e due anni dopo lo promosse dalla sezione inglese della Segreteria di stato alla direzione dell'Istituto opere di religione, lo Ior appunto.
Con Wojtyla per lui, americano di origini lituane, fu un vero cursus honorum e per poco mancò la berretta cardinalizia. Organizzò 35 viaggi papali all'estero e una volta a Manila lanciò il suo robusto corpo per proteggere il pontefice da un attentato. Ma sembra proprio che tra le sue benemerenze agli occhi del papa polacco ci fossero gli aiuti finanziari a Solidarnosc contro il regime del Poup in Polonia. Il banchiere di Dio giocò la sua spregiudicatezza anche in America Latina che in quegli anni era dominata dalle dittature di destra. E non faceva certo favori all'opposizione. D'altra parte lo Ior aveva prescelto la finanza mondiale. Solo alla fine, quando il Vaticano dovette mettere mano al portafoglio per saldare i contraccolpi dell'era Marcinkus, Wojtyla si decise a riformare lo Ior. Angelo Caloja, il banchiere cattolico che ha guidato questo processo e che tuttora sovraintende alla banca vaticana, ha tuttavia avallato l'immagine di un Marcinkus senza peccati mortali, soltanto «facilone, pressapochista, mal consigliato», tuttavia «onesto».
Un quadretto rassicurante per una delle figure più imbarazzanti della storia pontificia recente. E non soltanto per quei suoi modi yankee che infastidivano la felpata discrezione curiale.

Rifiuto delle cure, i diritti dei pazienti e quelli dei medici

Rifiuto delle cure, i diritti dei pazienti e quelli dei medici
Il Messaggero del 25 giugno 2008, pag. 22

di Lorenzo D'Avack

E’ recente la notizia che il Tribunale di Modena, nella persona del suo Presidente in funzione di Giudice Tutelare, dr. Guido Stanzani, con il decreto del 13 maggio 2008, utilizzando la legge del 2004 sull’istituto dell’amministrazione di sostegno, ha ritenuta legittimala volontà di una donna affetta da sclerosi laterale amiotrofica con grave insufficienza respiratoria a non essere tracheostomizzata e sottoposta a ventilazione meccanica nel momento in cui se ne fosse manifestata la necessità, affidando al marito il ruolo di garante di tale volontà. É bene ricordare che la legge richiamata ha la finalità di tutelare, mediante interventi di sostegno temporanei o permanenti, le persone in tutto o in parte prive di autonomia nell’espletamento delle funzioni della loro vita quotidiana, ricomprendendo fra queste non solo la sfera economica-patrimoniale, ma anche i bisogni e le aspirazioni proprie di un essere umano.



Nello specifico i fatti rilevanti, che hanno avuto una ricaduta nel giuridico, possono essere riassunti nella volontà della paziente di non essere sottoposta a ventilazione artificiale in caso di necessità, volontà manifestata oralmente prima alla propria famiglia e in un secondo momento allo stesso giudice tutelare, recatosi a visitare la persona al fine di accertare la sua informata e consapevole decisione. Ne è conseguito da tali circostanze la nomina del marito quale amministratore di sostegno e l’autorizzazione nella sua funzione a rifiutare per conto della moglie il consenso alla terapia medica, anche se salva vita, nel momento in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della paziente, l’evolversi della malattia avesse imposto questo specifico intervento. Inoltre, all’amministratore è affidato il compito di ottenere dai sanitari le cure palliative più efficaci al fine di accompagnare la paziente verso una morte naturale, priva di sofferenze.



Questa decisione del Tribunale di Modena ha suscitato grande interesse, anche nel inondo politico, perché si è detto che la legge sull’amministrazione di sostegno escluderebbe la necessità del c.d. "testamento biologico", o "dichiarazioni anticipate di trattamento" ormai da diverse legislature in discussione in Parlamento, dato che è in grado di consentire al paziente di vedere garantito il suo diritto costituzionale di rifiutare quelle cure da lui ritenute gravose, invocando il rispetto del percorso biologico naturale. Un concetto ripreso da Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, che ragionevolmente ha osservato (Il Messaggero, 30 maggio 2008) da un lato che la decisione del Tribunale di Modena è solo un’applicazione del diritto garantito dalla Costituzione di rifiutare le cure da parte di un paziente pienamente cosciente e dall’altro che questo caso dimostra come si possa fare tranquillamente a meno di una legge sul testamento biologico. Di contro, non sono mancate critiche da parte sia di chi vede messo in discussione il riconoscimento del proprio disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Ignazio Marino), sia di chi ribadisce l’inviolabilità e la sacralità della vita in ogni circostanza (Paola Binetti).



Va comunque considerato che nelle vicende di fine vita.si presentano situazioni fra loro diverse e il rifiuto informato al trattamento medico cambia spesso aspetto e tutela a seconda della malattia di cui soffre il paziente, a seconda del trattamento che gli viene proposto e infine a seconda della situazione psicologica e assistenziale in cui viene a trovarsi. A fronte di tale casistica potrebbe anche apparire opportuno rimettere nelle mani del magistrato il giudizio sul singolo caso. Una opzione peraltro di sovente invocata dagli stessi giuristi che nella regolamentazione delle scelte fortemente personali, che coinvolgono nozioni come "dignità della persona", "qualità della vita", "disponibilità o indisponibilità del corpo", vedono con favore attribuito alla magistratura un ruolo decisionale, caso per caso, con una maggiore resa sociale. Tuttavia le sentenze che hanno affrontato problemi simili (Welby, Englaro, ecc.) dimostrano la mancanza di principi e di orientamenti sicuri in grado di risolvere in modo coerente conflitti che possono insorgere all’interno del rapporto paziente-medico, considerato anche l’obbligo di cura che grava a carico di quest’ultimo (alleanza terapeutica). La difficoltà di ricavare dalla Costituzione e dal nostro ordinamento giuridico certezza sui possibili significati del "diritto di lasciarsi morire" hanno portato a sentenze difformi e contrapposte, con cadute negative su quel principio irrinunciabile per una società qual è la "certezza del diritto". Una situazione, allora, che potrebbe essere sanata da un intervento legislativo (e di cui il testamento biologico è soltanto un aspetto), come avvenuto nella maggior parte dei Paesi europei, che chiarisca ciò che è lecito fare e ciò che è invece illecito in quelle fattispecie di disorientate e disorientanti letture. Anche in considerazione del fatto che esistono certamente i diritti dei malati, ma che vi sono anche i diritti dei medici e il loro diritto primario è conoscere con sufficiente certezza se determinati comportamenti costituiscono reato.



Forse lo sforzo legislativo può essere racchiuso in una norma primaria che preveda che l’eventuale rifiuto delle terapie, anche quelle salva vita, consapevole ed informato del paziente, valido con precisi criteri anche per il tempo successivo ad una sopravvenuta perdita della capacità naturale, debba essere rispettato dal medico. Al contempo che si preveda, come per altre normative, la possibilità della "obiezione di coscienza" a favore del medico o dell’equipe medica a svolgere quanto richiesto, se contrario alla sua o alla loro coscienza individuale, alle proprie concezioni etiche e professionali.

Accanimento di Stato

Accanimento di Stato

L'Opinione del 25 giugno 2008, pag. 1

di Alessandro Litta Modignani

Si apre stamane a Milano un nuovo capitolo della dolorosa vicenda giudiziaria e umana di Eluana Englaro, la giovane donna di Lecco che giace in “stato vegetativo permanente” da più di 16 anni, a seguito di un incidente stradale. Oggi Beppino Englaro, il mite e determinato padre di Eluana, chiederà per l’ennesima volta a un tribunale della Repubblica di interrompere le inutili e disumane “cure” che da 6.000 giorni tengono artificialmente in vita il corpo inanimato di sua figlia. Eluana trascina, contro la sua volontà, un’esistenza priva di qualsiasi dignità. Una cannula, attraverso il naso, le introduce ogni giorno nello stomaco una pappetta maleodorante e disgustosa; le viene evacuato regolarmente l’intestino. Il suo corpo viene sistematicamente lavato, asciugato, voltato, rivoltato e rilavato. Tutto ciò senza la benché minima speranza di guarigione, anzi con la piena consapevolezza di una patetica e tragica inutilità.

Le labbra sono scosse da un costante tremore, gli arti tesi allo spasimo, i piedi contorti in posizione equina. Consola appena il fatto che Eluana non si accorga di nulla: la corteccia ha subìto lesioni irreversibili e le funzioni cerebrali sono definitivamente compromesse. E’ lecito questo accanimento ? L’udienza di oggi, la prima in Corte d’Appello, è una nuova tappa – la nona per l’esattezza – di un calvario giudiziario che però ora sembra giunto a un punto di svolta. Lo scorso 16 ottobre, con una sentenza di 60 pagine, la Corte di Cassazione ha dichiarato nulla una precedente sentenza di appello, che respingeva nel merito le richieste di Englaro. Tutto da rifare dunque, ma stavolta con le perentorie indicazioni della Corte, alle quali i giudici milanesi dovranno attenersi. Secondo la Costituzione italiana (art. 32) nessun cittadino può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la sua volontà, se non in casi eccezionali previsti dalla legge. Eluana Englaro, vittima di un incidente stradale, quel “consenso informato” non ha mai potuto esprimerlo. Al contrario, in circostanze precedenti aveva pronunciato, riguardo al mantenimento in vita di persone in coma irreversibile, parole chiare e inequivocabili, come testimoniano entrambi i genitori e i suoi amici più cari. Inoltre, la giurisprudenza nega la possibilità di sottoporre un malato a cure, quando non esista alcuna speranza né di guarigione né di sia pur minimo miglioramento, come in questo caso.

E’ questo l’aspetto di maggior rilievo, dal punto di vista etico, medico e giuridico: il divieto assoluto di accanimento terapeutico, che deve essere garantito e che invece viene violato ai danni di una cittadina inerme, non più in grado di difendersi da pratiche inutili e invasive. Naturalmente, all’interruzione del trattamento tecnico si oppongono i fanatici difensori della vita “dal concepimento alla morte naturale”, la cui ipocrisia non conosce limiti. Cosa ci sia di “naturale” nella vita di Eluana Englaro, non è dato di sapere: suona davvero come una bestemmia chiamare “vita” una condizione così disumana. Eppure, da 6.000 giorni, Eluana è costretta alla sopravvivenza da uno Stato sempre più etico e sempre meno laico, severamente ossequioso della “autorità morale” che ha sede all’interno dei suoi confini. Stamane, fuori dal Palazzo di giustizia di Milano, a sostegno di Beppino Englaro (che non si è mai rassegnato a una soluzione privata e “all’italiana” della vicenda) ci sarà soltanto la solita sparuta pattuglia di militanti radicali e dell’associazione Luca Coscioni. Troveranno i giudici di Milano il coraggio di accogliere – come sarebbe loro dovere – le indicazioni della Suprema Corte, e di resistere alle pressioni degli integralisti ? “Fatemi tornare dal Padre mio” disse Giovanni Paolo II, quando capì che la sua vita era giunta al termine. A Eluana Englaro la sorte non ha concesso questa opportunità. Negarle un gesto di coraggio laico e di pietà cristiana sarebbe davvero crudele, incivile e intollerabile.

Il mistero di Emanuela nelle mani dell'Opus Dei

il Riformista 25.6.08
Sepolture. Don Pedro riaprirà la tomba del boss a sant'Apollinare?
Il mistero di Emanuela nelle mani dell'Opus Dei
di Paolo Rodari

Aprire la tomba di Enrico De Pedis per fare luce sulla scomparsa di Emanuela Orlandi? Don Pedro Huidobro, oggi rettore della basilica di Sant'Apollinare in Roma nella quale è sepolto Renatino, ovvero Enrico De Pedis, boss della banda della Magliana, si è dichiarato disponibile, purché la decisione sia presa dalle autorità competenti.
Il corpo di Renatino, infatti, è sepolto in una cripta la quale, secondo il regime concordatario, è inaccessibile per le autorità italiane. E l'Opus Dei (alla quale la parrocchia è stata affidata nel 1992) vigila che nessuno stravolga le regole. Al fianco della Chiesa, a pochi metri dal portone, c'è pure l'università pontificia Santa Croce, anch'essa dell'Opus Dei, i cui uscieri controllano la basilica.
Ma, diciamolo subito, con la sepoltura di Renatino sotto Sant'Apollinare, l'Opus Dei non c'entra nulla. Perché la richiesta è partita nel 1990 quando la basilica non era ancora dell'Opus. C'entra, invece, l'allora rettore di Sant'Apollinare, monsignor Piero Vergari: il 6 marzo 1990, Vergari ne attestò con una lettera lo status di grande benefattore. Ecco cosa dice il documento conservato negli archivi della basilica: «Si attesta che il signor Enrico De Pedis è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica e ha aiutato concretamente a tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare per la loro formazione cristiana e umana».
Basandosi su queste motivazioni, quattro giorni dopo, l'allora vicario generale della diocesi di Roma e presidente della Cei, il cardinale Ugo Poletti, ha rilasciato il nulla osta alla sepoltura di De Pedis. Il 24 aprile dello stesso anno la salma venne tumulata (fu prelevata da un cimitero comunale nella quale era stata provvisoriamente deposta) e le chiavi del cancello consegnate alla vedova.
Vergari conobbe De Pedis quando era cappellano del Regina Coeli: «Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali - si legge in una nota scritta il 3 ottobre del 2005 da Vergari -, parlavamo di cose religiose o di attualità; De Pedis veniva come tutti gli altri e, fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po' di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie abbandonate da oltre cento anni nei sotterranei di Sant'Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido, come sempre, il solenne principio dei Romani "Parce sepolto": perdona se c'è da perdonare a chi è morto e sepolto».

martedì 24 giugno 2008

«Lo Ior e il sequestro per i debiti di Calvi: verità credibile»

Corriere della Sera 24.6.08
Il giudice Otello Lupacchini indagò sul gruppo della Magliana e sulla fine del banchiere. «Ma sul cardinale come mandante solo fantasie»
«Lo Ior e il sequestro per i debiti di Calvi: verità credibile»
di Andrea Garibaldi

ROMA — Dice il giudice Otello Lupacchini: «È ragionevole pensare che la banda della Magliana abbia effettuato il sequestro di Emanuela Orlandi o che abbia sfruttato la situazione che derivava da quel sequestro». Subito, aggiunge: «Attenzione, però. Perché le dichiarazioni di questa nuova "supertestimone" sconfinano nel soprannaturale, soprattutto quando colloca nello stesso luogo il cadavere della Orlandi (rapita nel 1983), il cadavere del piccolo Nicitra (rapito nel 1993) e De Pedis (ucciso nel 1990). Attenti a non cadere nell'incubo gotico, nella trama alla Dan Brown, nella "Notte dei morti viventi"».
Lupacchini fu giudice istruttore al processo alla banda della Magliana, anni '93-'94, e giudice per le indagini preliminari al processo per stabilire se Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, fosse morto suicida o ucciso, sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra.
Torniamo al ragionamento teorico.
«Partiamo da qui: esistevano rapporti tra il banchiere Calvi e la banda della Magliana, o meglio una sua parte, ben rappresentata da "Renatino" De Pedis. L'episodio più clamoroso è l'attentato (aprile 1982) al vicepresidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone: l'attentatore era Danilo Abbruciati, esponente della banda della Magliana, che sparò a Rosone e fu ucciso da una guardia giurata. Ma è noto anche che Calvi si rivolse agli usurai di Campo de' Fiori, pure vicini alla banda».
Andiamo avanti.
«La banda della Magliana, in particolare il gruppo di Testaccio-Trastevere, che faceva capo a De Pedis e ad Abbruciati, si può considerare una costola di Cosa Nostra».
Di conseguenza?
«Il quadro sarebbe questo: Cosa Nostra investe denaro nelle spericolate operazioni finanziarie di Roberto Calvi. Calvi muore a Londra (giugno 1982) e i soldi diventano non più esigibili. Un'organizzazione che controlla il territorio come la banda della Magliana, a questo punto, può effettuare il sequestro della figlia di un dipendente vaticano o può decidere di "gestire" il sequestro».
Con quale movente?
«Il Vaticano, tramite lo Ior diretto da monsignor Marcinkus, aveva investito copiosi capitali nell'Ambrosiano. Il sequestro poteva essere un modo, da parte della banda della Magliana per conto della mafia, per ricattare, per rivalersi su una sorta di "socio" del debitore Calvi».
E De Pedis, ammazzato per la strada a revolverate, finisce sepolto in una cripta della basilica di Sant'Apollinare, in quanto «benefattore dei poveri»...
«Credo che quel sepolcro sia un simbolo. Un memento di un giuramento solenne, di un patto tra alcuni uomini della Chiesa e personaggi della malavita».
Antonio Mancini, pentito della banda della Magliana, ha sostenuto che quella tomba di marmo, oro e zaffiri sarebbe il riconoscimento dell'intervento di De Pedis per interrompere il ricatto al Vaticano.
«È verosimile. La tomba come sigillo che una grave vicenda è finita, con soddisfazione delle parti».
La nuova testimone, però, sostiene anche che il mandante del sequestro potrebbe essere Marcinkus.
«Qui si abbandona la logica e si passa alla fantasia. Come quando fu ipotizzato che nella tomba di De Pedis possa celarsi anche il corpo della Orlandi ».

Mistero Emanuela Orlandi «C’entra anche Marcinkus»

l’Unità 24.6.08
Mistero Emanuela Orlandi «C’entra anche Marcinkus»
di Anna Tarquini

Emanuela Orlandi rapita su ordine di Marcinkus per mettere sotto scacco il Vaticano e dire: «noi sappiamo cosa accade lì...». Emanuela tenuta sequestrata in un appartamento a Roma, poi drogata e infine uccisa e seppellita in una betoniera a Torvaianica. Oppure seppellita a Roma, di nascosto, in quella tomba nella chiesa di Sant’Apollinare dove da anni - e misteriosamente - per ordine del cardinale vicario Poletti riposa un pluriassassino. Perché la Chiesa si sarebbe tanto ostinata a difendere la sepoltura di un boss della Banda della Magliana? Perché dentro quella tomba non ci sarebbe lui, ma lei, Emanuela. E Marcinkus? «Amava le minorenni e poi riciclava i soldi della Banda della Magliana». Misteri, depistaggi, coincidenze francamente eccessive. A venticinque anni esatti dalla sua scomparsa ecco, a bomba, una supertestimone che dice di conoscere il mistero della Orlandi rapita il 22 giugno del 1983. È la donna di Renatino De Pedis, capo storico della Banda della Magliana assassinato nel 1990 a pistolettate, colui che riposa in terra vaticana. Siamo a una svolta o invece una vicenda tutt’altro che chiara come sostengono in molti a cominciare dalla famiglia? Certo almeno una grande inesattezza c’è: secondo la donna Emanuela sarebbe stata seppellita insieme a Domenico Nicitra, un bambino di 11 anni ucciso per vendetta dalla banda. A farlo sarebbe stato De Pedis. Ma quando Nicitra venne rapito De Pedis era morto da due anni. Invece esiste - e le fonti sono attendibili - la casa della betoniera.
Cominciamo subito da una certezza che è insieme anche cosa inusuale. Ieri mattina alla procura di Roma era in programma un vertice per fare il punto sulle indagini mai chiuse. Già da domenica, nel giorno dell’anniversario della scomparsa, si vociferava di una superteste. Ieri però dalla Procura è uscita qualcosa di più di una notizia: il testo praticamente integrale degli interrogatori - in data 14 e 15 marzo - della signora Sabrina Minardi. Tanto è vero che la polizia ha perquisito l’agenzia di stampa che aveva i verbali. Ecco. Dare in pasto un testimone così, a regola, vuol dire screditarlo. Invece chiara è la precisazione con la quale i magistrati stessi accompagnano le notizie: ci sono sì incongruenze temporali nel racconto, ma anche dettagli che devono essere approfonditi con attenzione.
Chi è Sabrina Minardi? Si autodefinisce da sola una donna «dal passato avventuroso». Ex moglie del calciatore Bruno Giordano, ex tossicodipendente, finita «in cronaca» per giri di prostituzione. Sua figlia - quando si scatena il caso - è la ragazza finita sui giornali perché era in auto con il pirata della strada che ha massacrato a Roma due studenti universitari in motorino. Circa due mesi fa, e dopo un silenzio di 25 anni, la signora Minardi si è presentata ai magistrati per raccontare la sua verità. «Emanuela è morta, la portai io stessa in automobile da un uomo. Scese da una Mercedes nera targata Città del Vaticano. Era vestito da prete: con l’abito nero lungo e il cappello a grandi falde. Prese Emanuela e la portò via».
Ancora un passo indietro. Tre anni fa la trasmissione «Chi l’ha visto?» si occupa del caso Orlandi. E in trasmissione chiama il figlio di Roberto Calvi, il banchiere dello Ior assassinato a Londra sotto il ponte dei Frati neri. Dice il figlio di Calvi: la banda della Magliana venne utilizzata nel rapimento di Emanuela Orlandi. «C’è una forte possibilità - dice - che sia stata utilizzata per i suoi legami con la mafia, che a sua volta ha rapporti con i Lupi Grigi, per mandare un ulteriore minaccia al Papa». Siamo ancora alla pista che vuole Emanuela rapita per far liberare Alì Agca, l’attentatore del Papa. Emanuela e Mirella Gregori, anche lei cittadina vaticana. Successivamente in trasmissione arriva un’altra telefonata che dice: «Se volete sapere qualcosa di Emanuela guardate nella tomba di Renatino De Pedis, a Sant’Apollinare». Si apre la polemica: ma come, un criminale sepolto in una chiesa? E la Chiesa risponde: «Ha fatto molte opere di bene». Poi è la volta di Antonio Mancini, superpentito della Magliana, giudicato attendibile che dice: «Ho riconosciuto la voce del telefonista, quello che mandava i messaggi in casa Orlandi. È la voce di Mario l’autista di De Pedis». L’anello si ricongiunge. È praticamente certo che la Banda della Magliana ha avuto parte nel sequestro. Mancini viene interrogato ma poi, di recente, la procura lo liquida come inattendibile. «Dice che De Pedis è vivo». E anche se lui nega di aver mai detto tale bestialità la procura insiste. Quella stessa procura che ieri ha dato ai giornali la versione «discretamente attendibile» della super teste Sabrina Minardi.
«Me lo chiese Renatino di fare una cosa. Io arrivai lì al bar Gianicolo con una macchina. Poi Renato, il signor De Pedis, con cui in quel tempo avevo una relazione, mi disse di prendere un’altra macchina che era una Bmw e di accompagnare questa ragazza dove sta il benzinaio del Vaticano, che ci sarebbe stata una macchina targata Città del Vaticano che stava aspettando questa ragazza. Io così feci». Minardi non sa nulla, ma a un certo punto si accorge che sta portando Emanuela Orlandi, il suo volto è sui manifesti di tutta Roma. Tutto avviene sette mesi prima della presunta morte. «La identificai come Emanuela Orlandi. Era frastornata, era confusa sta ragazza. Si sentiva che non stava bene: piangeva, rideva. Parlava di un certo Paolo, non so se fosse il fratello. Diceva: “Mi porti da Paolo ora vero?”. Quando l’accompagnai c’era un signore con tutte le sembianze di essere un sacerdote. Io feci scendere la ragazza: “Buonasera, lei aspettava me?”. “Sì, credo proprio di sì”. Poi, dopo che avevo realizzato chi era dissi a Renato: “A Renà, ma quella non era..”. Ha detto: “Tu, se l’hai riconosciuta è meglio che non la riconosci, fatti gli affari tuoi”. Rapita e tenuta nascosta, ma dove? Sabrina Minardi segna ancora un collegamento con quell’oscuro mondo criminale. Emanuela era tenuta prigioniera in uno scantinato enorme, sulla gianicolense. Era in casa di una donna, la signora Daniela Mobili, legata a un altro boss della Magliana, Danilo Abbruciati. La ragazza venne accompagnata all’appuntamento al bar Gianicolense dalla signora Teresina, la governante. «Vai bella via - le disse - . Ora vai con la signora io ti riaspetto, ritorni qui». «Parlava male sta ragazza, trascinava le parole. Le domandai: “Come ti chiami?” “Emanuela” mi rispose». «Di lì a pochi giorni - continua la donna - tentarono di rapire mia figlia. Chiamai immediatamente Renato e mi disse: “Ma se tu ti sei scordata quello che hai visto non succederà niente a tua figlia”».
Il movente. «Emanuela Orlandi sarebbe stata prelevata da Renatino De Pedis su ordine di monsignor Marcinkus, all’epoca presidente dello Ior». Perché? «È come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro. Era lo sconvolgimento che avrebbe creato la notizia». Nessuno può smentire: né De Pedis, né Marcinkus che sono morti. E Sabrina Minardi spiega: «Renato aveva interesse a cosare con Marcinkus perché questi gli metteva sul mercato estero i soldi provenienti dai sequestri». E dietro insistenze: «Io la motivazione esatta non la so, però posso dire che con De Pedis conobbi monsignor Marcinkus. Io a monsignor Marcinkus a volte portavo anche le ragazze lì, in un appartamento di fronte, a via Porta Angelica. Sarà successo in totale quattro o cinque volte. lui era vestito come una persona normale. C’era poi il segretario, un certo Flavio. Mi telefonava al telefono di casa mia e mi diceva: “C’è il dottore che vorrebbe avere un incontro”. Poi, a lui piacevano più minorenni». Ricorda, Sabrina, di quella volta che portarono un miliardo a monsignor Marcinkus. E racconta - lo aveva già detto nel 2006 a Chi l’ha visto? - di quella volta che Renatino le comprò un vestito nero, «sembravo una suora», ed era per una cena. «Andai a cena a casa di Andreotti, con Renato. E in quel periodo Renato era latitante».

Ma Nicitra sparì due anni dopo...
La testimonianza di Sabrina Minardi, tanto precisa, cade sulle date e su una circostanza, la più importante, la sepoltura di Emanuela. Perché, sostiene, Emanuela venne seppellita insieme a Domenico Nicitra, figlio del boss della Magliana rapito e ucciso. Ma Nicitra sparì due anni dopo la morte di Renatino De Pedis.
Ecco il suo racconto: «Renato mi portò a pranzo in un ristorante a Torvaianica, da “Pippo l’Abruzzese”. Lui aveva un appuntamento con Sergio (che, a suo dire, faceva da autista a Renato) il quale portò quel bambino: Nicitra; il nome non me lo ricordo. Portò, dice lui, il corpo di Emanuela Orlandi. Io non lo so che c’era dentro i sacchi perché rimasi in macchina. Dice che, però, era meglio sterminare tutto, lui la pensava così. Sterminare tutto così non ce stanno più prove, non ci sta più niente. Lui mi disse che dentro a quella betoniera ci buttò quei due corpi». «C’era un cantiere lì vicino, come dire, una cosa in costruzione. Noi riprendemmo tranquillamente la macchina e pensavo di dirigermi verso Roma. Lui mi disse: “Gira qui, vai li” e andammo in questo cantiere. Disse: “Stanno costruendo”. Dico: “Che me devo fermà a fà?”. Dice: “No, qui stanno a costruì delle case delle persone che conosco, sta a costruì un palazzo o a ristrutturare, non mi ricordo. Fermate qua!”. Mi fermai e arrivò Sergio con la sua macchina e ad un certo punto misero in moto la betoniera. Vidi Sergio con una sacco per volta e dopo chiesi a Renato: “aho, ma che c’era dentro a quel..”. “Ah, è meglio ammazzalle subito, levalle subito le prove”, dice. “E chi c’era?”. Dice: “Che te lo devo dì io!”. “Poi, io andai a casa e spinta dalla curiosità, le dico la verità, lo feci pippà Renato spinta proprio dalla curiosità di voler sapere e lui me lo disse. “Le prove si devono estirpare”. Lui usava molto questa parola: “dall’inizio, dalla radice”. Non lo so se ’sta ragazza aveva visto qualcuno; ’B non essendoci più nè i corpi, nè niente, era meglio togliere di mezzo tutto, la parola tua contro la mia, diceva lui». La donna riferisce che la sua relazione con De Pedis iniziò nella primavera inoltrata dell’82 e andò avanti fino a novembre ’84. Quindi, Renatino venne arrestato e lei lo avrebbe rivisto dopo la sua uscita dal carcere nell’87. Di Emanuela Orlandi si persero le tracce il 22 giugno dell’83. Domenico Nicitra, il bambino di 11 anni, figlio di Salvatore, imputato al processo per i delitti commessi dalla banda della Magliana, scomparve il 21 giugno 1993 assieme allo zio Francesco, fratello del padre. E De Pedis in quell’epoca era già morto: venne ammazzato il 2 febbraio del ’90.

domenica 22 giugno 2008

La pillola del giorno dopo e l’alibi dell’obiezione di coscienza

La pillola del giorno dopo e l’alibi dell’obiezione di coscienza
L'Opinione del 20 giugno 2008, pag. 5

di Alessandro Litta Modignani

Se mai qualcuno avesse ancora bisogno di un esempio, per capire fino a che punto la presenza del Vaticano in Italia condiziona negativamente le leggi dello Stato e la libertà degli individui, eccolo servito. La questione della cosiddetta "pillola del giorno dopo" è emblematica ed estremamente significativa dell’arretratezza culturale e politica della vita pubblica italiana. Chiariamo subito che questo farmaco non può a nessun titolo essere considerato abortivo. La "pillola dei giorno dopo" - ma sarebbe meglio chiamarla contraccezione d’emergenza - infatti non agisce sull’ovulo fecondato (contrariamente alla RU 486, che provoca l’aborto farmacologico), né impedisce l’insediamento dell’ovulo stesso all’interno dell’utero, come avviene con la spirale. Al contrario, il "levonorgestrel" è un progestinico che agisce sull’ovulazione, impedendo la penetrazione dello spermatozoo, come qualsiasi altro contraccettivo a base di ormoni. Proprio per questa ragione, esso è tanto più efficace quanto prima viene assunto, dopo un rapporto a rischio. Questa pillola esercita la sua massima efficacia (95%) nelle prime 12 ore, mentre la mantiene alta (60%) entro le 60 ore successive. Più tardi perde progressivamente di efficacia sino a risultare del tutto inutile, a ovulo fecondato, anche se non dannosa: la contraccezione di emergenza non presenta infatti controindicazioni di alcun genere.



Perché allora in Italia viene pretesa la ricetta medica? Essa non è richiesta in Francia, in Gran Bretagna né in gran parte d’Europa; non in Israele né in Tunisia e neppure negli Stati Uniti di Bush, che ne hanno abolito l’obbligo due ani fa. Ma soprattutto, perché mai a un medico deve essere consentito di rifiutarsi di prescriverla? Quale obiezione di coscienza può mai essere invocata, in questo caso? La risposta è elementare. Essa proviene, manco a dirlo, dai soliti che poi alzano il ditino contro gli "atteggiamenti ideologici" (quelli degli altri, ovviamente), nonché contro l’immancabile fondamentalismo laicista e la deriva relativista della nostra società. Insomma dai fanatici dell’integralismo religioso. Il Vaticano è da sempre contrario non solo alla lealizzazione dell’aborto, ma anche a qualsiasi forma di contraccezione, e i suoi seguaci politici si adeguano. Se usare il preservativo è peccato, perché mai - in caso di rottura di questa "cosa cattiva" - si dovrebbe collaborare con chi cerca di porvi rimedio? Lo Stato non considera forse la religione cattolica un valore positivo, e la sua Chiesa un’autorità morale? Ecco allora che per la doma cui è capitato questo inconveniente, inizia un angoscioso calvario. Costei dovrà girare di farmacia in farmacia, vedendosi negare la pillola per mancanza di ricetta; allora sarà costretta a vagare tutta la notte da un pronto soccorso all’altro, per sentirsi rispondere da un’acida infermiera - pagato dallo Stato - che "qui siamo tutti obiettori", senza naturalmente ottenere uno straccio di diniego scritto. Intanto il tempo scorre inesorabile e lo spettro dell’aborto - quello vero - si materializza di ora in ora. Nei giorni scorsi, i Radicali hanno annunciato - grazie alla disponibilità di alcuni medici davvero coscienziosi - la messa a disposizione di due numeri telefonici d’emergenza, a Milano (345 50 11 223) e a Roma (333 98 56 046) durante il week-end. L’iniziativa è lodevole, ma non può certo colmare un disservizio pubblico generalizzato e in ogni caso non risolve il problema.



L’unica soluzione è l’abolizione della ricetta, ultimo alibi per un’obiezione di coscienza priva di assunto, come avviene in quasi tutti gli altri paesi occidentali, dove lo Stato è laico, liberale e civile.

Cordone ombelicale Un nuovo divieto alla conservazione

Corriere della Sera 20.6.08
Cordone ombelicale Un nuovo divieto alla conservazione
di Margherita De Bac

ROMA — No alla conservazione «personale» del cordone ombelicale.
L'ordinanza che vieta la pratica «autologa solidale», scadenza 30 giugno, è stata prorogata fino al 29 febbraio dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Il via libera, tuttavia, sembra solo rinviato, come spiega Francesca Martini, sottosegretario con delega alla Salute: «Stiamo elaborando linee guida che serviranno alle Regioni per accreditare le strutture pubbliche e private — dice la Martini —. Sono favorevole.
Non c'è motivo di negare questa possibilità. Purché non diventi una moda e purché non costituisca un costo per il servizio sanitario. Quindi ci sarà un ticket. Le donne devono sapere che la comunità scientifica ha molti dubbi sull'utilità delle staminali del cordone. Chiederemo ai ginecologi di aiutarci a fare informazione». L'unica alternativa restano i centri stranieri. La conservazione del cordone è prevista dal decreto Milleproroghe che però subordinava l'introduzione del nuovo sistema alla presenza di una rete di biobanche, di cui al momento non c'è ancora il disegno.
L'ordinanza di divieto contiene una sola deroga. Sì alla conservazione privata solo se in famiglia ci sono casi di malattie potenzialmente curabili con trapianto di staminali. Si parla di autologa solidale quando il sangue cordonale viene messo a disposizione della comunità dal legittimo proprietario. L'unica banca privata su suolo italiano è il Bioscience di San Marino. Altri centri offrono un diverso tipo di servizio: il sangue viene raccolto in Italia e inviato in strutture straniere, soprattutto in Svizzera e in Inghilterra. Nel 2007 sono stati esportati circa 5 mila cordoni, la richiesta di autorizzazioni al ministero della Salute è in vorticoso aumento. Diminuite invece le donazioni.
«Mai proroga fu più inopportuna e intempestiva. L'Italia si potrebbe allineare al resto del mondo e invece rinuncia», è critica Donatella Poretti, deputata radicale. Chiede al governo «di non perdere l'opportunità e di mettersi al passo con le direttive europee» Luca Marini, presidente di Assobiobanche, l'associazione delle imprese che si occupano di ricerca e servizi in questo settore. Secondo Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale trapianti, la rete italiana è di ottimo livello: «Sono perplesso sull'uso autologo. Mancano prove su applicazioni di staminali cordonali autologhe».

giovedì 19 giugno 2008

Gli irriducibili della laicità

La Repubblica 19.6.08
Gli irriducibili della laicità
di Anais Ginori

La procedura non è facile, serve impegno e vocazione. Primo, mettere le mani sul certificato di battesimo originale, che non è cosa semplice. Magari è stato perso in qualche trasloco, magari è custodito da una vecchia zia-madrina. Senza di quello, non si va avanti. Rintracciati il nome del sacerdote, il luogo, la data e l´ora della cerimonia, si deve inoltrare una richiesta in triplice copia: alla parrocchia dove è avvenuto il battesimo, a quella dove si risiede e al vescovo di competenza. Le prime richieste vengono ignorate. È anche un modo per lasciare un tempo di riflessione. La propria volontà, quindi, deve essere manifestata con forza, all´occorrenza sollecitare con raccomandate. I "teo-no", tecnicamente apostati, non si scoraggiano. In Francia, avanza un manipolo di irriducibili della laicità. Militano contro l´ingerenza della religione nella vita pubblica, nell´epoca dei "teocon" e dei "teodem". Ora che Sarkozy ha riabbracciato il dialogo con il Vaticano, il movimento in favore degli "sbattezzati" prende nuova linfa. In duecento hanno rinnegato quest´anno la religione cattolica, pretendendo pure il certificato. Alcuni di questi hanno riportato in auge una vecchia istituzione della Rivoluzione francese, il battesimo civile che oggi si celebra in alcuni quartieri di Parigi con tanto di madrina e padrino repubblicano. Invece del culto mariano, quello di Marianne.

martedì 17 giugno 2008

Legge 40, tra coscienza e incoerenza

l’Unità 17.6.08
Legge 40, tra coscienza e incoerenza
di Maria Antonietta Farina Coscioni

Non ho alcuna intenzione di polemizzare con la mia collega Paola Binetti: non ha firmato, dice, la mozione di centotrenta parlamentari della maggioranza e dell’Udc per chiedere di ritirare le linee guida alla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita emanate dall’ex ministro della Salute Livia Turco; però si dice «disposta a sostenerla in Aula». È un suo diritto di parlamentare, ed esercita secondo la sua coscienza le sue prerogative costituzionalmente garantite. Però posso incidentalmente annotare un filo di incoerenza? Da una parte Paola Binetti rivendica ogni volta che crede il primato del suo “sentire” e della sua coscienza sulle posizioni del gruppo politico cui ha aderito; dall’altra - come ha fatto l’altro giorno - rimprovera a noi radicali eletti nel Pd di aver presentato progetti di legge e di cercare di rappresentare posizioni note che fanno parte della nostra storia, del nostro Dna. L’indipendenza e la libertà di coscienza vale se ci si chiama Binetti, vale meno se, per esempio, ci si chiama Farina Coscioni?
Per entrare nel merito della questione: la mozione del centro-destra chiede che il governo intervenga su un provvedimento che viene definito «contestabile nel merito e nel metodo», e che rischierebbe di promuovere «una inaccettabile cultura eugenetica», in quanto scardinerebbe i principi della legge 40 «travisando l’intento terapeutico che essa tentava faticosamente di conservare».
È bene, visto che si usano certe espressioni forti (e infondate) cercare di fare un po’ di chiarezza. Cominciamo allora col dire che l’emanazione delle linee guida ha posto la parola fine a una situazione di mancato rispetto della legge; si tratta di un provvedimento che costituisce un passo in avanti verso la scelta autonoma e responsabile della donna, pur nei margini - angusti - previsti dalla legge 40. L’aver eliminato per esempio il divieto di analisi reimpianto che non sia limitata all’analisi osservazionale, altro non fa che recepire le sentenze della magistratura da una parte; dall’altra fornisce un quadro di maggiori garanzie per i portatori di malattie genetiche trasmissibili. Come si fa a definire tutto questo “cultura eugenetica”?
Più che intervenire per peggiorare una situazione già difficile per le coppie che intendono accedere alla fecondazione assistita, come di fatto suggerisce la mozione del centro-destra, penso che si debba operare perché le possibilità aperte con le linee-guida siano aperte anche a pazienti non sterili e non solo chi è infetto da Hiv o epatite.
Le precedenti linee-guida erano scadute nell’agosto 2007. Con Marco Cappato e numerosi militanti e dirigenti dell’Associazione Luca Coscioni, abbiamo, con l’azione della “lotta nonviolenta”, con uno sciopero della fame di “dialogo” chiesto che venisse presa una decisione, quale essa fosse, per uscire dall’illegalità in cui si era precipitati. Alla fine, anche a costo di ruvidezze e incomprensioni con Livia Turco - ministro del governo Prodi di cui eravamo gli “ultimi giapponesi” - l’obiettivo è stato conseguito.
Immediatamente, e sapientemente alimentate da oltretevere, l’essere usciti da questo stato di illegalità è stato salutato da una quantità di polemiche, attacchi e condanne; attacchi culminati con l’iniziativa parlamentare del centro-destra. Non solo cercheremo di contrastare questa posizione, ma opereremo perché siano ulteriormente ampliati i margini, strettissimi, lasciati dalla legge 40, convinti come siamo che la modifica profonda e radicale della legge costituisca la condizione indispensabile: aperti al confronto e al dialogo con tutti, senza scomuniche, condanne, anatemi.
In questo siamo confortati dall’importante, significativa, presa di posizione del professor Giuseppe Testa, dell’Istituto europeo di oncologia, che su TuttoScienze de la Stampa invita a evitare «interventi legislativi che ostacolino l’intero ambito della ricerca. I divieti ad ampio spettro svuotano di senso lo stesso strumento giuridico. Altra cosa è invece un attento regime di regolazione, che indirizzi l’evoluzione sia della scienza sia della società, oltre alle nostre concezioni dell’esser genitori». Meglio non si potrebbe dire.
Deputata radicale nel Pd
ma.farinacoscioni@radicali.it

lunedì 16 giugno 2008

Una legge di Bolzano: «Le scuole diffondano le radici cristiane»

Corriere della Sera 16.6.08
Scontro in Provincia I laici: è anticostituzionale
Una legge di Bolzano: «Le scuole diffondano le radici cristiane»
di Marisa Fumagalli

Divisi il presidente e la vice, il testo passa
La legge si applica ad asili, elementari e medie inferiori. Gli oppositori: «È in atto un processo di evangelizzazione»

BOLZANO — L'Alto Adige, la scuola, il cristianesimo. E la rana di Kippenberger: cioè la «scandalosa» scultura (un anfibio verde inchiodato alla croce, con la lingua fuori e il boccale di birra nella mano destra), esposta al Museinon di Bolzano, che nelle scorse settimane ha suscitato clamore in città, facendo insorgere i cattolici più intransigenti, con il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche e del presidente Luis Durnwaldner, impegnato a chiederne la rimozione. Sembra incredibile, eppure le polemiche attorno a questa opera dell'artista tedesco hanno creato il clima favorevole affinché il Consiglio provinciale approvasse una legge scolastica (asili, elementari e medie inferiori) che, nell'articolo 1 (comma C) introduce quel concetto rimasto fuori dalla Costituzione europea, nonostante le discussioni e le pressioni. Tra le politiche d'indirizzo educativo, la Provincia di Bolzano ha inserito «la diffusione e il rafforzamento del pensiero e della cultura europea, fondata su radici cristiane». «È vero, la rana di Kippenberger ci ha messo del suo — conferma Arnold Tribus, direttore del quotidiano, laico e corsaro, Tageszeitung
—. Poiché si stava varando la riforma dell'istruzione, ecco che si è avuto gioco facile ad influenzare il dibattito». «Ma vuole tutta la verità? — continua —. A ottobre si vota e questa, a mio parere, è una manovra preelettorale. La SVP di Durnwaldner sta perdendo qualche colpo. Si si cerca di recuperare a destra».
Anche se i supporter del codicillo contestato minimizzano e puntualizzano («è scritto cultura cristiana, che io intendo nel senso più ampio», fa notare la pasionaria sudtirolese Eva Kloz), i contrari parlano di obiettivi di «evangelizzazione ». «È una legge anticostituzionale », insiste Tribus. «Non mi pare che questo sia il momento. In Alto Adige e in Italia », ribatte Laura Gnecchi, neodeputata del Pd e vicepresidente della Giunta Provinciale di Bolzano. L'onorevole Gnecchi aveva tentato una mediazione, proponendo di emendare il comma C con un testo più articolato («conoscenza» invece di «diffusione e rafforzamento », «cultura classica, ebraismo e cristianesimo», invece di «cristianesimo»), senza tuttavia riuscire nell'intento. Il fronte trasversale ha fatto muro. Dalla sua, aveva 5 consiglieri su 35 tra i quali, il «dissidente» liberal/forzista Alberto Pasquali. Che si è preso una bacchettata dalla collega Michaela Biancofiore, onorevole di punta del Pdl. «Resto convinta che il mio emendamento sarebbe potuto passare se non fosse scoppiata la bufera attorno alla rana di Kippenberger. Determinante è stato l'intervento del vescovo, Wilhelm Egger. Sembrava che a Bolzano, la religione cattolica fosse minacciata». Durissimo il j'accuse all'articolo della discordia, da parte del presidente del Consiglio provinciale (leader dell'opposizione interetnica), Riccardo Dello Sbarba. «Questa legge toglie ogni cenno all'interculturalità e al plurilinguismo, l'essenza di questa terra», ha dichiarato al
Corriere dell'Alto Adige. E dire che la Klotz avrebbe voluto inserire nel testo anche il concetto di «patrimonio culturale tirolese ». «Sì, intendevo richiamarmi allo Statuto Catalano», conferma. Sul comma C, il suo pensiero è netto: «La cultura cristiana non c'entra con il fondamentalismo cattolico».

domenica 15 giugno 2008

Addio mia concubina

Il Sole 24 Ore Domenica 15.6.08
Addio mia concubina
Negli anni ruggenti della Contriforma, quando la battaglia contro le eresie fu vinta, gli amori proibiti, fino a quel momento leciti, entrarono nel mirino della Chiesa
di Massimo Firpo

È sotto gli occhi di tutti il fatto che il matrimonio, inteso come vincolo giuridico (e sacramentale per i cattolici) di una coppia eterosessuale non può esaurire il magmatico e mutevole universo dei rapporti affettivi, delle pratiche sessuali, delle forme di convivenza di adulti consenzienti, e che pertanto lo stesso concetto tradizionale di famiglia sta conoscendo mutamenti profondi. Le iniziative di legge sulla regolamentazione delle coppie di fatto hanno occupato in tempi recenti le prime pagine dei giornali, e in merito la Chiesa di Roma non ha mancato di far sentire la sua prevedibile voce per contrastare il riconoscimento di pur minimi diritti ai protagonisti di forme alternative di convivenza che, evidentemente, non sono soltanto il deplorevole esito dei processi di secolarizzazione, del relativismo culturale, del dilagante edonismo che il magistero papale non si stanca di denunciare, ma riflettono mutamenti sociali profondi e inarrestabili, che riguardano la condizione della donna, il lavoro, l'educazione dei figli eccetera. Il problema esiste, insomma, e deve (o dovrebbe) essere affrontato in termini di civile tolleranza, senza presunti monopoli ideologici.
Tanto più che esso è sempre esistito, per l'impossibilità di coartare entro rigidi scherni normativi l'irriducibile pulsione di sentimenti, affetti, passioni, desideri che si annida nel cuore di uomini e donne. Non è quindi sugli «amori proibiti» in quanto tali che il nuovo libro di Giovanni Romeo si sofferma, ma sul delinearsi e affermarsi della loro repressione da parte dell'istituzione ecclesiastica tra Cinque e Seicento, negli anni ruggenti della Controriforma, quando la battaglia contro il dilagare delle eresie anche al di qua delle Alpi era stata ormai vinta e la Chiesa poté dedicarsi a un sempre più capillare controllo dei pensieri, delle pratiche sociali, dei comportamenti deifedeli, utilizzando sia gli strumenti pastorali della pedagogia e della persuasione sia, e sempre più intensamente, quelli repressivi della punizione e della condanna. Solo nel 1514, del resto, il Concilio lateranense V aveva proibito il concubinato dei laici, e solo con molta fatica riuscirono infine a imporsi i canoni tridentini che vietavano la diffusissima prassi delle convivenze prematrimoniali tra fidanzati. Certo, si trattava di una questione delicata, non solo perché comportava di spiare nelle case e nei letti della gente, ma anche perché all'indomani della conclusione del Concilio di Trento concubinato e famiglie di fatto allignavano largamente anche nel clero, di cui occorreva salvaguardare il prestigio, mentre il rispetto del voto di castità via via impostosi non avrebbe fatto altro che alimentare nelle sue fila una ipersensibilità per le questioni sessuali (peraltro destinata a lunga e tenace fortuna), da cui sarebbero scaturiti nuovi e gravi problemi, quali - per esempio - la solicitatio ad turpis durante la confessione o forme di esasperato misticismo in cui la presunzione di impeccabilità avrebbe consentito e alimentato disordini gravissimi nei conventi femminili.
Il bel libro di Giovanni Romeo si focalizza su Napoli, allora la più grande città europea, brulicante di vita, di uomini, di miseria, di espedienti, di creatività popolare, e segue con grande [mezza, sulla base di una documentazione ricchissima e in molti casi di straordinaria suggestione, il progressivo imporsi della Chiesa su reati che in passato erano di esclusiva competenza dello Stato o di foro misto (non solo il concubinato, ma anche la bigamia, l'adulterio, la sodomia), usando se necessario il grimaldello inquisitoriale in virtù del sospetto che comportamenti ralmente eteronomi nascondessero idee logicamente eterodosse. Debolissime furono nella capitale del Regno le resistenze giurisdizionali dell'autorità politica, incapace di porre un freno all'affermarsi della Chiesa quale unica tutrice della morale pubblica. Di qui l'avvio di una nuova politica di occhiuta sorveglianza e severa repressione (scomuniche, multe, punizioni infamanti, carcere, sepoltura in terra sconsacrata) contro ogni forma di convivenza e relazione non sancita dal vincolo matrimoniale, che poté avvalersi di nuovi ed efficacissimi strumenti per il controllo delle coscienze quali la confessione frequente, propagandata soprattutto dai gesuiti, e la verifica della comunione pasquale.
Contro questa dirompente offensiva rigorista dell'autorità ecclesiastica, contro le sue pretese di «entrare con forza nella vita quotidiana» e di «combattere senza tregua tutte le idee e le pratiche ritenute lesive dell'ortodossia, anche quelle più insignificanti, da sempre trascurate o rimesse allo zelo pastorale di vescovi, curati e confessori» (p. VII): non mancarono tuttavia moltepli resistenze, variamente modulate nel popolo, nella borghesia, nel ceto aristocratico fatte di espedienti, artifici, ipocrisie, talora anche grazie alla saggezza pastorale di parroci pronti a chiudere un occhio, ma anche della scelta di "tenersi" la scomunica e talora addirittura di plateali proteste e rabbiose ribellioni, spesso all'origine di ulteriori più gravi guai per i malcapitati, quasi sempre donne, ferite nell'onorabilità, talora costrette a separarsi dai figli, spesso rimaste prive di ogni forma di sostentamento. Da questo tenace «impegno moralizzatore» (p. 165) di vescovi e vicari per imporre alla società un severo «governo della sessualità» (p. 73), certo responsabile di molte sofferenze e approdato infine a scarsi risultati emerge un quadro tutt'altro che edificante del cosiddetto «disciplinamento» tridentino. L'intransigenza con cui la Chiesa cercè di regolare la vita sessuale e familiare dei fedeli contrasta vistosamente, per esempio, con la sostanziale tolleranza nei confronti del flagello dell'usura, evidentemente ritenuto di rilevanza morale assai inferiore al concubinato. Nel suo riflettere una scala di priorità, anch'essa destinata a lunga durata, è questo un dato su cui riflettere, anche perché - come sempre - solo nelle sue radici storiche il presente può rivelarsi intelligibile.

Giovanni Romeo, «Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione», Laterza, Roma-Bari, pagg. 256, € 18,00.