domenica 1 giugno 2008

Ma il Vaticano non bruciò

Gazzetta di Parma, 30 luglio 2005
Ma il Vaticano non bruciò. Intervista a Ottavia Niccoli

Carlo Baja Guarienti

«L’avara Babilonia ha colmo il sacco», recita l’incipit di un sonetto del Petrarca spesso citato nel Cinquecento. Babilonia, epiteto biblico che riassume in sé tutto il baratro del vizio, l’inizio e la fine di ogni peccato. E la spada di un lanzichenecco lascerà questo stesso nome su un affresco della Farnesina durante il grande rogo purificatore della città eterna: il sacco di Roma del 1527.

Se il termine «anticlericalismo» nasce in Francia intorno alla metà dell’Ottocento, le emozioni e le ragioni sottese a questo atteggiamento affondano le proprie radici molto più lontano, almeno nel Medioevo: le risentite invettive di Dante contro i papi simoniaci e corrotti ne sono un illustre esempio poetico, le beffarde narrazioni di avventure fratesche lasciateci da Boccaccio un campione meno aulico ma non per questo meno efficace. Ma è nel Cinquecento che vede la sua massima fioritura (e la sua più dura condanna) una pratica che porta l’astio e il disprezzo contro la curia romana a divenire quasi un genere letterario: la pasquinata. Il sentimento anticlericale, nascendo tanto vicino agli altari, ha in Italia la caratteristica particolare di fondere la familiarità di riti e figure sacre con l’avversione per essi: il fustigatore è vicinissimo al fustigato, talvolta una vera serpe in seno.

Abbiamo incontrato Ottavia Niccoli, docente di storia moderna presso l’università di Trento e autrice di numerosi importanti studi di storia della cultura, della società e della religione, che nel suo ultimo libro affronta con un taglio avvincente e mai noioso il tema dell’evoluzione del risentimento nei confronti della gerarchia ecclesiastica durante il XVI secolo: Rinascimento anticlericale (Laterza), appunto, un moto che dalla capitale della cristianità attraversa un’Europa scossa dai fermenti della Riforma e della Controriforma. Fogli anonimi attaccati ai palazzi del potere o alla statua romana di Pasquino, incisioni di grandi artisti come Lucas Cranach e invettive di umanisti come Erasmo si mischiano a formare un corpus variegato cui anche l’Aretino contribuisce con il suo noto vigore: «O vil canaglia, o asin da bastoni / bestie senza saper, senza intelletto, / nati solo a pacchiar e a stare in letto / con puttane, ragazi e bugiaroni…»

Anticlericalismo: fenomeno più storico o antropologico?

L’anticlericalismo è un fenomeno storico, legato alle specificità di varie situazioni politiche anche profondamente differenziate fra loro; in Italia è in primo luogo il frutto della vicinanza alla sede del papato, e quindi del peso che questo dato ha avuto sulla vita degli stati italiani prima dell’unità, e del Regno d’Italia e poi delle Repubblica italiana in epoche successive. I periodi in cui il Tevere è stato «più largo», per riprendere le parole di un papa, hanno certamente visto una attenuazione del fenomeno. Detto questo, si può aggiungere che l’anticlericalismo rinascimentale si è espresso in forme del tutto tradizionali e rituali, cioè per mezzo di scritte infamanti ed anonime appese pubblicamente, e in questo senso è stato un fenomeno antropologico.

Si possono individuare generi letterari in qualche modo figli dell’anticlericalismo?

La pasquinata, che era un componimento poetico anonimo, diretto con grande violenza contro papi e cardinali. Paradossalmente, gli autori di questi testi – a parte Pietro Aretino – sono in genere chierici essi stessi, figure marginali della curia romana, esterne alla gestione del potere ma abbastanza vicine ad esso per poterne conoscere soprattutto le dinamiche più meschine.

L’anticlericalismo del Cinquecento e quello odierno sono sovrapponibili?

Certamente no, in quanto l’Italia di oggi è radicalmente diversa da quella di cinquecento anni fa. Dunque sono situazioni diverse da quelle di allora che fanno emergere oggi atteggiamenti di tipo anticlericale. Però c’è sempre il rischio che nei momenti di crisi e di tensione riemerga il ricordo di antichi rancori che possono alimentare i nuovi.