La Repubblica 28.6.08
La Chiesa contro Montaigne
Un saggio di Saverio Ricci su "Inquisitori, censori e filosofi"
di Benedetta Craveri
Quando arrivò a Roma nel 1580 lo scrittore si vide sequestrare i bagagli compresa la copia degli "Essais" fresca di stampa
Dopo lo scisma protestante ci fu una lotta capillare anche preventiva contro l´eresia
Molti libri erano semplicemente messi all´Indice, altri venivano emendati
Più che mai determinata, dopo lo scisma protestante, a condurre una lotta capillare contro l´eresia, la Chiesa di Roma mise a punto un grandioso sistema censorio volto a preservare l´ortodossia del mondo cattolico. Non si trattava soltanto di bloccare l´importazione delle opere dei pensatori riformati o sequestrare dalle biblioteche pubbliche e private i libri che si erano rivelati pericolosi, a cominciare dalle traduzioni dei testi sacri in lingua volgare che, consentendo ai lettori comuni una conoscenza diretta delle scritture, li incoraggiava allo spirito critico e alla controversia. Bisognava controllare l´intera vita intellettuale del mondo cattolico, sottoponendo a una severa censura preventiva qualsiasi testo destinato alla pubblicazione e innescando di conseguenza negli scrittori un meccanismo di auto censura di cui è impossibile oggi misurare la portata.
Dopo la pubblicazione dei primi Indici romani dei libri proibiti (1559,1564), tre organi furono chiamati a fare fronte in modo sistematico a questo programma totalizzante. Il Santo Uffizio che, istituito nel 1542, aveva la somma responsabilità di vigilare sull´ortodossia di tutta la res publica christiana; la Congregazione dell´Indice dei libri proibiti, creata da Pio V nel 1571 e incaricata, almeno in teoria, di esercitare la sua attività su tutto il mondo cattolico; il Maestro del Sacro Palazzo, vale a dire il teologo del papa, responsabile della censura a Roma.
Il programma censorio prevedeva due fasi. La prima, e di gran lunga la più semplice, consisteva nella messa all´indice preventiva delle opere che per una qualsiasi ragione potevano apparire sospette. La seconda, assai più complessa, prevedeva l´emendatio, vale a dire un vero e proprio lavoro di editing - soppressioni, manipolazioni, chiose - a cui sottoporre i testi confiscati giudicati recuperabili.
Fra gli esponenti più illuminati del clero l´esigenza di una difesa intransigente del dogma si accompagnava, infatti, alla convinzione che il pensiero religioso non andasse tagliato fuori dagli sviluppi del pensiero filosofico e che si dovesse tenere conto tanto delle esigenze dei lettori colti, quanto degli interessi del mercato librario dell´intera Penisola che una politica di censura senza appello rischiava di mettere in ginocchio. Eppure, nonostante uno straordinario dispiegamento di forze, le cose non andarono nel modo auspicato. Mentre il numero dei titoli messi all´indice a scopo cautelativo non avrebbe fatto che aumentare, il lavoro di revisione, che doveva consentire a molti dei testi congelati di rientrare in circolazione, procedeva a rilento, rivelandosi, nella maggioranza dei casi, inattuabile.
Basti pensare al fallimento dell´expurgatio del Talmud ebraico, alle mancate revisioni del Cortegiano di Castiglione e del Decamerone di Boccaccio, o al tormentato problema della «espurgabilità» di Machiavelli e di Erasmo. Perché, lungi dal limitare il suo campo di intervento all´eresia teologica, la Chiesa era andata estendendo la sua volontà di controllo a tutti i campi dello scibile, dagli studi politici e giuridici alla fisica, alla scienza, alla matematica, all´astronomia, ai trattati di magia, alle arti esoteriche. E la sua attività censoria investiva ugualmente la letteratura antica e moderna, i poemi cavallereschi, la poesia erotica, i romanzi. Per esaminare l´opera del popolarissimo Ariosto si istruì, ad esempio, a Ferrara, una commissione apposita, interamente consacrata a correggerne gli errori.
In questo quadro di guerra preventiva, la filosofia rimaneva naturalmente la maggiore indiziata e la condanna al rogo di Giordano Bruno nel 1600 e il terribile processo a Tommaso Campanella dovevano testimoniare in modo non equivoco dell´intransigenza della curia romana in fatto di dottrina. Ed è proprio a partire da una attenta messa in prospettiva critica di un secolo e mezzo di studi sull´azione della censura pontificia che Saverio Ricci, prese le debite distanze sia dalla leggenda nera dell´Inquisizione che da una sua ancor più inaccettabile leggenda «rosa», riapre oggi, in un libro dotto e appassionante, l´immenso dossier sulla politica di salvaguardia della Chiesa nei confronti della filosofia alla luce di alcuni casi significativi di censura cinquecentesca.
Se non è qui possibile rendere conto della complessità del quadro storico culturale e delle preoccupazioni teologiche che fanno da sfondo a Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della controriforma (Salerno Editrice, pagg. 426, euro 24,00), i due importanti capitoli consacrati da Ricci a Montaigne ci consentono di cogliere le esitazioni della Chiesa sulla strategie filosofiche da seguire come pure le contraddizioni che la paralizzavano dall´interno, costringendola a una politica di compromesso non sempre proficua. Come scrive, infatti, Ricci «la Chiesa cattolica avvertì precocemente un sentore di eterodossia negli Essais del signore di Montaigne, non appena questi e il suo libro arrivarono a Roma, ma dimostrò molto tardi piena contezza del pericolo che quel libro avrebbe potuto costituire per la fede. La inserì infatti nell´Indice dei libri proibiti quasi un secolo dopo la sua pubblicazione, sulla base di una nuova lettura, e in un contesto molto mutato». Proviamo, dunque, sul filo della ricostruzione dello studioso, a capire le ragioni di questa censura in due tempi.
Giunto a Roma nel novembre del 1580, Montaigne ebbe la sgradita sorpresa di vedersi sequestrare dagli ufficiali della dogana pontificia tutti i volumi trovati tra i suoi bagagli, ivi compreso un esemplare degli Essais fresco di stampa. Benché autorizzata dalla curia di Bordeaux e munita di regolare privilegio reale, l´opera era ora chiamata a fare i conti con quel sistema inquisitoriale che i re di Francia si erano rifiutati di insediare nel loro paese. Mentre le autorità competenti passavano al vaglio ciò che aveva scritto, Montaigne riceveva, per altro, un accoglienza degna di un dotto gentiluomo che godeva della considerazione di Caterina de´ Medici e di Enrico III di Valois, nonché dell´amicizia personale dell´ambasciatore di Francia a Roma il conte d´Albain. E presentato al papa Gregorio XIII e ammesso al bacio della pantofola, Montaigne veniva esortato dal pontefice a «continuar nella devozione da lui sempre professata alla Chiesa e nel servizio del re cristianissimo».
In realtà tanto la devozione di Montaigne che quella del suo sovrano suscitavano non poche giustificate riserve agli occhi della curia romana. Dopo l´exploit della notte di San Bartolomeo, salutata a Roma da un tripudio di Te Deum, i Valois si erano, infatti, mostrati colpevolmente esitanti nella lotta contro l´eresia protestante ed avevano appena sottoscritto la pace di Fleix che metteva fine alla settima guerra di religione, là dove Montaigne, ignorando il divieto che pesava sull´opera, aveva tradotto in francese la Theologia naturalis di Raimond Sebond per poi tornare ad interessarsi alle posizioni dell´agostiniano catalano nell´Apologia di Raimondo Sebond nel secondo libro degli Essais.
Ma proprio in considerazione della difficile situazione francese, non bisognava disconoscere a Montaigne il merito di avere diffuso nel suo paese un trattato che, pur colpevole di ridimensionare il ruolo di mediazione della Chiesa nella interpretazione delle Scritture, insistendo sulla dimostrabilità razionale delle verità cattoliche, sul libero arbitrio, sull´eccellenza umana, poteva rivelarsi utile nella confutazione degli eretici? E venendo alle convinzioni scettico-fideistiche e alla concezione politica della religione esposte da Montaigne stesso negli Essais, queste non andavano tollerate nella misura in cui l´autore si schierava contro i protestanti, dichiarandosi contrario a tutti i sovvertimenti religiosi che mettevano in pericolo la pace civile e auspicando che la Francia si mantenesse nella fede cattolica?
Vi erano poi gli strali rivolti da Montaigne contro i processi alle streghe contenuti nel capitolo del I libro degli Essais dal titolo Della forza dell´immaginazione. Lo scrittore si chiedeva, in polemica con il suo conterraneo Jean Bodin, ossessionato dal problema, come fosse possibile «arrostire un essere umano» scambiando per manifestazioni diaboliche delle pure e semplici patologie mentali. «Per uccidere la gente», egli scriveva, «ci vuole una chiarezza luminosa e netta: e la nostra vita è troppo reale ed essenziale per garantire quei fatti soprannaturali e immaginari». Ora, benché non fosse certo quella «chiarezza luminosa» a fare difetto al Santo Uffizio, la posizione di Montaigne andava nella direzione assunta in quegli anni dalla Chiesa in fatto di stregoneria. Visto l´inquietante dilagare del fenomeno della caccia alle streghe e la sua strumentalizzazione tanto nei paesi cattolici che in quelli protestanti, Roma preferiva difendere la propria competenza in materia di sovrannaturale e assumeva una posizione critica rispetto ai fenomeni di superstizione e di magia. Di conseguenza il suo sistema inquisitoriale si sarebbe su questo punto distinto dalla politica dei tribunali civili e da quelli protestanti dando prova di una maggiore moderazione e di una «indubbia modernità».
Di ben altra gravità veniva giudicato, invece, l´uso del termine «fortuna» intesa, in accordo con la filosofia antica, come una forza cieca che determinava le vicende degli uomini e ne forgiava il destino secondo le mutevoli categorie del vero e del falso.
Come pure estremamente gravi apparivano talune concordanze di pensiero con Machiavelli. Eppure, nonostante ciò, al momento della partenza di Montaigne dalla Città Eterna di cui, nel frattempo, era stato fatto cittadino onorario, il Maestro del Sacro Palazzo, si limitava a consegnargli una lista di appunti invitandolo amabilmente a tenerne conto nelle edizioni future dell´opera. Vuoi per calcolo politico, vuoi per un eccesso di fiducia nelle virtù del proprio metodo, la censura papale disconosceva così la portata sovversiva di un´opera che si preparava a disseminare, all´insegna di una «doppia verità», lo scetticismo e il dubbio tra le file dei suoi numerosissimi lettori. Perché, inutile dire che tornato in patria, Montaigne non procedette a auto-emendatio di sorta, lasciando ai censori romani la magra consolazione di intervenire pesantemente sulla traduzione italiana dell´opera.
Ad aprire gli occhi alla censura papale sarebbe stata la doppia condanna, teologica e morale, degli Essais pronunciata dalle autorità calviniste nel 1602, ma a determinare la sentenza del 1676 - la condanna dell´opera in tutte le lingue - furono molto probabilmente «le perniciose conseguenze che un vasto e inadeguato pubblico avrebbe potuto trarne». Non meno pernicioso doveva, tuttavia, apparire l´impatto sui lettori colti. Per capire che la posta in gioco era ancora più grande bastava a Roma di guardare a Venezia dove il teologo eretico della Serenissima, il frate Paolo Sarpi, aveva contestato l´autorità pontificia con il soprannome di «Montaigne col cappuccio».
Non era, in effetti, la strategia incerta del dialogo e dell´emendatio, bensì l´esercizio senza concessioni di una feroce censura, che avrebbe consentito alla Chiesa di Roma di vincere la sua battaglia politica risparmiando all´Italia il dramma dello scisma ma isolandola culturalmente dal resto dell´Europa.
La Chiesa contro Montaigne
Un saggio di Saverio Ricci su "Inquisitori, censori e filosofi"
di Benedetta Craveri
Quando arrivò a Roma nel 1580 lo scrittore si vide sequestrare i bagagli compresa la copia degli "Essais" fresca di stampa
Dopo lo scisma protestante ci fu una lotta capillare anche preventiva contro l´eresia
Molti libri erano semplicemente messi all´Indice, altri venivano emendati
Più che mai determinata, dopo lo scisma protestante, a condurre una lotta capillare contro l´eresia, la Chiesa di Roma mise a punto un grandioso sistema censorio volto a preservare l´ortodossia del mondo cattolico. Non si trattava soltanto di bloccare l´importazione delle opere dei pensatori riformati o sequestrare dalle biblioteche pubbliche e private i libri che si erano rivelati pericolosi, a cominciare dalle traduzioni dei testi sacri in lingua volgare che, consentendo ai lettori comuni una conoscenza diretta delle scritture, li incoraggiava allo spirito critico e alla controversia. Bisognava controllare l´intera vita intellettuale del mondo cattolico, sottoponendo a una severa censura preventiva qualsiasi testo destinato alla pubblicazione e innescando di conseguenza negli scrittori un meccanismo di auto censura di cui è impossibile oggi misurare la portata.
Dopo la pubblicazione dei primi Indici romani dei libri proibiti (1559,1564), tre organi furono chiamati a fare fronte in modo sistematico a questo programma totalizzante. Il Santo Uffizio che, istituito nel 1542, aveva la somma responsabilità di vigilare sull´ortodossia di tutta la res publica christiana; la Congregazione dell´Indice dei libri proibiti, creata da Pio V nel 1571 e incaricata, almeno in teoria, di esercitare la sua attività su tutto il mondo cattolico; il Maestro del Sacro Palazzo, vale a dire il teologo del papa, responsabile della censura a Roma.
Il programma censorio prevedeva due fasi. La prima, e di gran lunga la più semplice, consisteva nella messa all´indice preventiva delle opere che per una qualsiasi ragione potevano apparire sospette. La seconda, assai più complessa, prevedeva l´emendatio, vale a dire un vero e proprio lavoro di editing - soppressioni, manipolazioni, chiose - a cui sottoporre i testi confiscati giudicati recuperabili.
Fra gli esponenti più illuminati del clero l´esigenza di una difesa intransigente del dogma si accompagnava, infatti, alla convinzione che il pensiero religioso non andasse tagliato fuori dagli sviluppi del pensiero filosofico e che si dovesse tenere conto tanto delle esigenze dei lettori colti, quanto degli interessi del mercato librario dell´intera Penisola che una politica di censura senza appello rischiava di mettere in ginocchio. Eppure, nonostante uno straordinario dispiegamento di forze, le cose non andarono nel modo auspicato. Mentre il numero dei titoli messi all´indice a scopo cautelativo non avrebbe fatto che aumentare, il lavoro di revisione, che doveva consentire a molti dei testi congelati di rientrare in circolazione, procedeva a rilento, rivelandosi, nella maggioranza dei casi, inattuabile.
Basti pensare al fallimento dell´expurgatio del Talmud ebraico, alle mancate revisioni del Cortegiano di Castiglione e del Decamerone di Boccaccio, o al tormentato problema della «espurgabilità» di Machiavelli e di Erasmo. Perché, lungi dal limitare il suo campo di intervento all´eresia teologica, la Chiesa era andata estendendo la sua volontà di controllo a tutti i campi dello scibile, dagli studi politici e giuridici alla fisica, alla scienza, alla matematica, all´astronomia, ai trattati di magia, alle arti esoteriche. E la sua attività censoria investiva ugualmente la letteratura antica e moderna, i poemi cavallereschi, la poesia erotica, i romanzi. Per esaminare l´opera del popolarissimo Ariosto si istruì, ad esempio, a Ferrara, una commissione apposita, interamente consacrata a correggerne gli errori.
In questo quadro di guerra preventiva, la filosofia rimaneva naturalmente la maggiore indiziata e la condanna al rogo di Giordano Bruno nel 1600 e il terribile processo a Tommaso Campanella dovevano testimoniare in modo non equivoco dell´intransigenza della curia romana in fatto di dottrina. Ed è proprio a partire da una attenta messa in prospettiva critica di un secolo e mezzo di studi sull´azione della censura pontificia che Saverio Ricci, prese le debite distanze sia dalla leggenda nera dell´Inquisizione che da una sua ancor più inaccettabile leggenda «rosa», riapre oggi, in un libro dotto e appassionante, l´immenso dossier sulla politica di salvaguardia della Chiesa nei confronti della filosofia alla luce di alcuni casi significativi di censura cinquecentesca.
Se non è qui possibile rendere conto della complessità del quadro storico culturale e delle preoccupazioni teologiche che fanno da sfondo a Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della controriforma (Salerno Editrice, pagg. 426, euro 24,00), i due importanti capitoli consacrati da Ricci a Montaigne ci consentono di cogliere le esitazioni della Chiesa sulla strategie filosofiche da seguire come pure le contraddizioni che la paralizzavano dall´interno, costringendola a una politica di compromesso non sempre proficua. Come scrive, infatti, Ricci «la Chiesa cattolica avvertì precocemente un sentore di eterodossia negli Essais del signore di Montaigne, non appena questi e il suo libro arrivarono a Roma, ma dimostrò molto tardi piena contezza del pericolo che quel libro avrebbe potuto costituire per la fede. La inserì infatti nell´Indice dei libri proibiti quasi un secolo dopo la sua pubblicazione, sulla base di una nuova lettura, e in un contesto molto mutato». Proviamo, dunque, sul filo della ricostruzione dello studioso, a capire le ragioni di questa censura in due tempi.
Giunto a Roma nel novembre del 1580, Montaigne ebbe la sgradita sorpresa di vedersi sequestrare dagli ufficiali della dogana pontificia tutti i volumi trovati tra i suoi bagagli, ivi compreso un esemplare degli Essais fresco di stampa. Benché autorizzata dalla curia di Bordeaux e munita di regolare privilegio reale, l´opera era ora chiamata a fare i conti con quel sistema inquisitoriale che i re di Francia si erano rifiutati di insediare nel loro paese. Mentre le autorità competenti passavano al vaglio ciò che aveva scritto, Montaigne riceveva, per altro, un accoglienza degna di un dotto gentiluomo che godeva della considerazione di Caterina de´ Medici e di Enrico III di Valois, nonché dell´amicizia personale dell´ambasciatore di Francia a Roma il conte d´Albain. E presentato al papa Gregorio XIII e ammesso al bacio della pantofola, Montaigne veniva esortato dal pontefice a «continuar nella devozione da lui sempre professata alla Chiesa e nel servizio del re cristianissimo».
In realtà tanto la devozione di Montaigne che quella del suo sovrano suscitavano non poche giustificate riserve agli occhi della curia romana. Dopo l´exploit della notte di San Bartolomeo, salutata a Roma da un tripudio di Te Deum, i Valois si erano, infatti, mostrati colpevolmente esitanti nella lotta contro l´eresia protestante ed avevano appena sottoscritto la pace di Fleix che metteva fine alla settima guerra di religione, là dove Montaigne, ignorando il divieto che pesava sull´opera, aveva tradotto in francese la Theologia naturalis di Raimond Sebond per poi tornare ad interessarsi alle posizioni dell´agostiniano catalano nell´Apologia di Raimondo Sebond nel secondo libro degli Essais.
Ma proprio in considerazione della difficile situazione francese, non bisognava disconoscere a Montaigne il merito di avere diffuso nel suo paese un trattato che, pur colpevole di ridimensionare il ruolo di mediazione della Chiesa nella interpretazione delle Scritture, insistendo sulla dimostrabilità razionale delle verità cattoliche, sul libero arbitrio, sull´eccellenza umana, poteva rivelarsi utile nella confutazione degli eretici? E venendo alle convinzioni scettico-fideistiche e alla concezione politica della religione esposte da Montaigne stesso negli Essais, queste non andavano tollerate nella misura in cui l´autore si schierava contro i protestanti, dichiarandosi contrario a tutti i sovvertimenti religiosi che mettevano in pericolo la pace civile e auspicando che la Francia si mantenesse nella fede cattolica?
Vi erano poi gli strali rivolti da Montaigne contro i processi alle streghe contenuti nel capitolo del I libro degli Essais dal titolo Della forza dell´immaginazione. Lo scrittore si chiedeva, in polemica con il suo conterraneo Jean Bodin, ossessionato dal problema, come fosse possibile «arrostire un essere umano» scambiando per manifestazioni diaboliche delle pure e semplici patologie mentali. «Per uccidere la gente», egli scriveva, «ci vuole una chiarezza luminosa e netta: e la nostra vita è troppo reale ed essenziale per garantire quei fatti soprannaturali e immaginari». Ora, benché non fosse certo quella «chiarezza luminosa» a fare difetto al Santo Uffizio, la posizione di Montaigne andava nella direzione assunta in quegli anni dalla Chiesa in fatto di stregoneria. Visto l´inquietante dilagare del fenomeno della caccia alle streghe e la sua strumentalizzazione tanto nei paesi cattolici che in quelli protestanti, Roma preferiva difendere la propria competenza in materia di sovrannaturale e assumeva una posizione critica rispetto ai fenomeni di superstizione e di magia. Di conseguenza il suo sistema inquisitoriale si sarebbe su questo punto distinto dalla politica dei tribunali civili e da quelli protestanti dando prova di una maggiore moderazione e di una «indubbia modernità».
Di ben altra gravità veniva giudicato, invece, l´uso del termine «fortuna» intesa, in accordo con la filosofia antica, come una forza cieca che determinava le vicende degli uomini e ne forgiava il destino secondo le mutevoli categorie del vero e del falso.
Come pure estremamente gravi apparivano talune concordanze di pensiero con Machiavelli. Eppure, nonostante ciò, al momento della partenza di Montaigne dalla Città Eterna di cui, nel frattempo, era stato fatto cittadino onorario, il Maestro del Sacro Palazzo, si limitava a consegnargli una lista di appunti invitandolo amabilmente a tenerne conto nelle edizioni future dell´opera. Vuoi per calcolo politico, vuoi per un eccesso di fiducia nelle virtù del proprio metodo, la censura papale disconosceva così la portata sovversiva di un´opera che si preparava a disseminare, all´insegna di una «doppia verità», lo scetticismo e il dubbio tra le file dei suoi numerosissimi lettori. Perché, inutile dire che tornato in patria, Montaigne non procedette a auto-emendatio di sorta, lasciando ai censori romani la magra consolazione di intervenire pesantemente sulla traduzione italiana dell´opera.
Ad aprire gli occhi alla censura papale sarebbe stata la doppia condanna, teologica e morale, degli Essais pronunciata dalle autorità calviniste nel 1602, ma a determinare la sentenza del 1676 - la condanna dell´opera in tutte le lingue - furono molto probabilmente «le perniciose conseguenze che un vasto e inadeguato pubblico avrebbe potuto trarne». Non meno pernicioso doveva, tuttavia, apparire l´impatto sui lettori colti. Per capire che la posta in gioco era ancora più grande bastava a Roma di guardare a Venezia dove il teologo eretico della Serenissima, il frate Paolo Sarpi, aveva contestato l´autorità pontificia con il soprannome di «Montaigne col cappuccio».
Non era, in effetti, la strategia incerta del dialogo e dell´emendatio, bensì l´esercizio senza concessioni di una feroce censura, che avrebbe consentito alla Chiesa di Roma di vincere la sua battaglia politica risparmiando all´Italia il dramma dello scisma ma isolandola culturalmente dal resto dell´Europa.