mercoledì 25 giugno 2008

Rifiuto delle cure, i diritti dei pazienti e quelli dei medici

Rifiuto delle cure, i diritti dei pazienti e quelli dei medici
Il Messaggero del 25 giugno 2008, pag. 22

di Lorenzo D'Avack

E’ recente la notizia che il Tribunale di Modena, nella persona del suo Presidente in funzione di Giudice Tutelare, dr. Guido Stanzani, con il decreto del 13 maggio 2008, utilizzando la legge del 2004 sull’istituto dell’amministrazione di sostegno, ha ritenuta legittimala volontà di una donna affetta da sclerosi laterale amiotrofica con grave insufficienza respiratoria a non essere tracheostomizzata e sottoposta a ventilazione meccanica nel momento in cui se ne fosse manifestata la necessità, affidando al marito il ruolo di garante di tale volontà. É bene ricordare che la legge richiamata ha la finalità di tutelare, mediante interventi di sostegno temporanei o permanenti, le persone in tutto o in parte prive di autonomia nell’espletamento delle funzioni della loro vita quotidiana, ricomprendendo fra queste non solo la sfera economica-patrimoniale, ma anche i bisogni e le aspirazioni proprie di un essere umano.



Nello specifico i fatti rilevanti, che hanno avuto una ricaduta nel giuridico, possono essere riassunti nella volontà della paziente di non essere sottoposta a ventilazione artificiale in caso di necessità, volontà manifestata oralmente prima alla propria famiglia e in un secondo momento allo stesso giudice tutelare, recatosi a visitare la persona al fine di accertare la sua informata e consapevole decisione. Ne è conseguito da tali circostanze la nomina del marito quale amministratore di sostegno e l’autorizzazione nella sua funzione a rifiutare per conto della moglie il consenso alla terapia medica, anche se salva vita, nel momento in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della paziente, l’evolversi della malattia avesse imposto questo specifico intervento. Inoltre, all’amministratore è affidato il compito di ottenere dai sanitari le cure palliative più efficaci al fine di accompagnare la paziente verso una morte naturale, priva di sofferenze.



Questa decisione del Tribunale di Modena ha suscitato grande interesse, anche nel inondo politico, perché si è detto che la legge sull’amministrazione di sostegno escluderebbe la necessità del c.d. "testamento biologico", o "dichiarazioni anticipate di trattamento" ormai da diverse legislature in discussione in Parlamento, dato che è in grado di consentire al paziente di vedere garantito il suo diritto costituzionale di rifiutare quelle cure da lui ritenute gravose, invocando il rispetto del percorso biologico naturale. Un concetto ripreso da Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, che ragionevolmente ha osservato (Il Messaggero, 30 maggio 2008) da un lato che la decisione del Tribunale di Modena è solo un’applicazione del diritto garantito dalla Costituzione di rifiutare le cure da parte di un paziente pienamente cosciente e dall’altro che questo caso dimostra come si possa fare tranquillamente a meno di una legge sul testamento biologico. Di contro, non sono mancate critiche da parte sia di chi vede messo in discussione il riconoscimento del proprio disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Ignazio Marino), sia di chi ribadisce l’inviolabilità e la sacralità della vita in ogni circostanza (Paola Binetti).



Va comunque considerato che nelle vicende di fine vita.si presentano situazioni fra loro diverse e il rifiuto informato al trattamento medico cambia spesso aspetto e tutela a seconda della malattia di cui soffre il paziente, a seconda del trattamento che gli viene proposto e infine a seconda della situazione psicologica e assistenziale in cui viene a trovarsi. A fronte di tale casistica potrebbe anche apparire opportuno rimettere nelle mani del magistrato il giudizio sul singolo caso. Una opzione peraltro di sovente invocata dagli stessi giuristi che nella regolamentazione delle scelte fortemente personali, che coinvolgono nozioni come "dignità della persona", "qualità della vita", "disponibilità o indisponibilità del corpo", vedono con favore attribuito alla magistratura un ruolo decisionale, caso per caso, con una maggiore resa sociale. Tuttavia le sentenze che hanno affrontato problemi simili (Welby, Englaro, ecc.) dimostrano la mancanza di principi e di orientamenti sicuri in grado di risolvere in modo coerente conflitti che possono insorgere all’interno del rapporto paziente-medico, considerato anche l’obbligo di cura che grava a carico di quest’ultimo (alleanza terapeutica). La difficoltà di ricavare dalla Costituzione e dal nostro ordinamento giuridico certezza sui possibili significati del "diritto di lasciarsi morire" hanno portato a sentenze difformi e contrapposte, con cadute negative su quel principio irrinunciabile per una società qual è la "certezza del diritto". Una situazione, allora, che potrebbe essere sanata da un intervento legislativo (e di cui il testamento biologico è soltanto un aspetto), come avvenuto nella maggior parte dei Paesi europei, che chiarisca ciò che è lecito fare e ciò che è invece illecito in quelle fattispecie di disorientate e disorientanti letture. Anche in considerazione del fatto che esistono certamente i diritti dei malati, ma che vi sono anche i diritti dei medici e il loro diritto primario è conoscere con sufficiente certezza se determinati comportamenti costituiscono reato.



Forse lo sforzo legislativo può essere racchiuso in una norma primaria che preveda che l’eventuale rifiuto delle terapie, anche quelle salva vita, consapevole ed informato del paziente, valido con precisi criteri anche per il tempo successivo ad una sopravvenuta perdita della capacità naturale, debba essere rispettato dal medico. Al contempo che si preveda, come per altre normative, la possibilità della "obiezione di coscienza" a favore del medico o dell’equipe medica a svolgere quanto richiesto, se contrario alla sua o alla loro coscienza individuale, alle proprie concezioni etiche e professionali.