martedì 30 settembre 2008

CAMPANIA Il soprintendente archeologo obbliga il vescovo a rimuovere il totem di benvenuto al Pontefice

CAMPANIA Il soprintendente archeologo obbliga il vescovo a rimuovere il totem di benvenuto al Pontefice
LAURA CESARANO
28/09/2008 il Mattino

L’EVENTO LA POLEMICA
Il dispiacere del cardinale Sepe

Pompei. «Fino al 19 ottobre c’è ancora tempo: monsignor Liberati può presentare una richiesta formale per installare nuovamente il totem di benvenuto a papa Benedetto XVI». Il suggerimento arriva dal soprintendente ai beni architettonici di Napoli Stefano Gizzi. Chiamato a intervenire sul cartellone della discordia - quello fatto sistemare dal vescovo di Pompei davanti agli Scavi, in area demaniale e fatto rimuovere 24 ore dopo dal soprintendente archeologo Pietro Giovanni Guzzo perché abusivo - Gizzi commenta: «Conosco personalmente Guzzo e monsignor Liberati, due persone di grande spessore culturale. Sono certo che la divergenza sia nata soltanto da un equivoco. Un passaggio formale da parte del vescovo prima dell’installazione avrebbe probabilmente evitato ogni questione; d’altra parte, la visita del Pontefice è pur sempre un evento che non capita tutti i giorni e anche di questo aspetto occorre tener conto. Ma ripeto, visto che c’è ancora tempo il passaggio che è mancato si può recuperare». Intanto, smontato il tabellone, l’unico in area demaniale di quelli fatti installare in diversi punti della città, resta in piedi la polemica. Tra parole di rammarico per la decisione di Guzzo, come quelle del cardinale Crescenzio Sepe, che ha fatto sapere di essere «dispiaciuto» per la rimozione del totem di benvenuto, e toni orientati decisamente verso la censura, come quelli della parlamentare Teresa Armato, già assessore al Turismo per la Regione Campania. La Armato, che al santuario di Pompei è legata dalla particolare devozione mariana (impegni permettendo, non si perde una Supplica, era lì alla visita di Wojtyla e sarà lì all’arrivo di Ratzinger) definisce eccessivo il provvedimento del soprintendente. «Vietare quell’installazione come se si trattasse di una speculazione, di una qualsiasi pubblicità commerciale è davvero troppo. L’impegno di monsignor Liberati per Pompei dovrebbe essere sostenuto e incoraggiato. Il vescovo andrebbe ringraziato per aver invitato Benedetto XVI a Pompei, per aver promosso la riapertura della Casa della madre e del bambino e l’accordo per la realizzazione del museo degli ex voto. Tutta questa vicenda andava trattata con un po’ di buonsenso». Come dire: per un evento eccezionale sarebbe stata apprezzata un’eccezione. Luigi Bobbio, già parlamentare e magistrato, solitamente critico nei confronti delle scelte del soprintendente, usa toni molto severi: «Con questo suo comportamento Guzzo, prima che alla Curia e al Vaticano, ha dato uno schiaffo al senso religioso dei pompeiani. È vero che sul piano formale il vescovo avrebbe dovuto presentare la richiesta prima di procedere all’installazione, ma il soprintendente ha trasformato un problema di forma in formalismo. Penso che avrebbe potuto risparmiare a se stesso e alla città questa brutta figura».

venerdì 26 settembre 2008

America: e la destra disse Dio è con noi

l’Unità 26.9.08
America: e la destra disse Dio è con noi
di Furio Colombo

DOMANI CON L’UNITÀ il libro di Furio Colombo dedicato al trionfo del fondamentalismo religioso nella politica degli Usa. Dalla religiosità di Carter a quella mediatica di Reagan e dei due Bush

Era il 1979, nel corso di una dura e difficile campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti quando la religione ha fatto il suo clamoroso ingresso nella politica americana. I due candidati erano Jimmy Carter, e Ronald Reagan. Carter, Presidente in carica, era noto per la sua religiosità personale, si era da tempo definito born again, nato di nuovo alla grazia di Dio, un fenomeno che stava divulgandosi nelle Chiese protestanti di denominazione battista, di cui Jimmy Carter era membro e dove insegnava il catechismo. In quella stessa Chiesa, una sorella del Presidente era ritenuta autrice di alcuni miracoli. Reagan, come tutti ricordano, era il tipico personaggio di Hollywood, mondano, simpatico, ottimo conversatore, religioso solo al modo formale e cinematografico della gran parte della middle america: la cerimonia domenicale, la moglie col cappellino, il pastore che ringrazia sulla porta della piccola Chiesa bianca. Anche Reagan era protestante ma senza alcuna affiliazione nota. Era stato protagonista della politica californiana come Governatore ed era, agli occhi dei suoi estimatori e dei suoi avversari, un conservatore senza rigidità, circondato però da personaggi aspramente schierati a destra... ma lui stesso, era personaggio benevolo, incline alla comunicazione, interessato al grande consenso e con scarsa vocazione dogmatica. Vorrei ricordare ai lettori che sto parlando del Ronald Reagan della campagna elettorale, non ancora di un Presidente di destra e tuttavia ricco d’istinto politico, autore della celebre frase sull’Urss come impero del male, ma pronto a coglierne i segni del cambiamento e il messaggio di Gorbaciov sulla fine della Guerra fredda. Tra i candidati, il Presidente e il laico, l’uomo rinato in Dio e il disinvolto uomo di spettacolo, il potente schieramento religioso che stava emergendo in America come riferimento autorevole di gran parte del protestantesimo ha immediatamente scelto Reagan e ne ha fatto il campione. Reagan, da parte sua ha accettato il poderoso sostegno e ha adattato alla sua nuova militanza la sua immagine pubblica. Lo ha fatto moltiplicando riferimenti e apparizioni pubbliche associati a Dio, ad alcuni predicatori, ad alcune Chiese, ad alcuni impegni per la sua elezione alla presidenza (per esempio la promessa di nomina per la corte suprema di giudici contrari all’aborto) e ad alcuni atti simbolici, come il dichiararsi a favore della preghiera obbligatoria nelle scuole. È dunque iniziata, con la campagna elettorale del 1979, l’ingresso tra le componenti del confronto politico americano di una vasta e bene organizzata opinione pubblica legata ad alcune Chiese e movimenti. È l’ingresso drammatico, pesante e tuttora in atto negli Stati Uniti della religione nella politica, negli equilibri o squilibri politici, in tutti gli aspetti della vita pubblica americana da quello giudiziario a quello dell’insegnamento nelle scuole. Occorre per prima cosa definire questa alleanza, definire i protagonisti e seguire le tracce di un percorso che giunge fino a noi. In questo libro, scritto e pubblicato per la prima volta nel 1980 (New York, Columbia University press, Milano, Mondadori) la serie di episodi che hanno segnato e cambiato profondamente la vita americana e la vita del mondo, è vista e descritta nel suo inizio, nella clamorosa novità che portava. I protagonisti, come si legge in queste pagine, sono due leader cristiani di notevole carisma come il reverendo Jerry Falwell e il reverendo Pat Robertson. Importa poco che, nel corso degli anni, le due vite abbiano attraversato fortune diverse e diversi gradi di successo. I due personaggi, noti al tempo del loro emergere e imporsi alla vita pubblica americana come predicatori elettronici, hanno creato la vasta base d’opinione del fondamentalismo cristiano che diventerà per decenni la forza quasi sempre imbattibile della destra. Ecco ciò che in effetti è avvenuto: una duratura e radicata alleanza fra destra politica e religione. A questa alleanza la destra americana ha offerto, in cambio di un potere prolungato e senza controlli morali, la lotta contro tutti i valori che la destra aveva, in passato, ricevuto dal liberalismo roosveltiano e kennediano: libertà civili, parità nel lavoro delle donne, diritto delle donne a scegliere sulla procreazione, separazione rigorosa, anche simbolica della Chiesa dallo Stato, separazione rigorosa della Chiesa dalla scienza. La contro-offerta dello schieramento religioso è apparsa di grande importanza per la destra economica e politica america. Pressione, predicazione, conversione, penetrazione nelle famiglie e nelle persuasioni individuali avrebbe sciolto fronti compatti come quello del lavoro e dei sindacati, riorientato i più poveri dalla protesta sociale alla fede in Dio, avrebbe screditato e reso più deboli i gruppi che traevano la loro forza non solo dal liberalismo democratico, ma dai movimenti liberatori di Martin Luther King e Robert Kennedy, e le varie forme di protagonismo e antagonismo nate negli anni Sessanta, soprattutto la parte, molto dannosa per il mondo degli affari, impegnata nelle crociate ambientaliste... In più la destra acquistava la disponibilità; anche fisica, di piazze, folle, marce, mobilitazioni, grandi eventi pubblici, cortei, che fino a un momento prima erano stati patrimonio e strumento esclusivo della sinistra sindacale o di quella politica. Un prezioso aiuto in più è stato subito visto dalla destra politica nella nuova alleanza: lo scudo religioso sarebbe stato in grado, e lo è stato, di respingere gli attacchi da parte liberale e di sinistra, basati sulla moralità, le accuse di comportamenti impropri e dannosi nell’uso privilegiato della ricchezza. Uno schieramento di predicatori, sostenuto da nuovi fondi, da nuove megachiese e da infiniti programmi televisivi, si è dimostrato in grado di deflettere o respingere gran parte degli attacchi del vecchio liberalismo e del vecchio movimentismo in nome di Dio e delle nuove priorità: lotta all’aborto, agli omosessuali, alla separazione tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e scienza. In questa alleanza politica-religione avvenuta negli anni Ottanta in America, i lettori non faranno fatica a riconoscere la ragione del trionfo della destra politica... Meno chiaro, per molti che sono lontani dalla cultura americana, è che cosa si intenda per religione e per Chiesa come partner di questa alleanza. Le Chiese protestanti americane sono una costellazione di istituzioni e di iniziative che sono, allo stesso tempo, radicate nella storia e nate, rinate, divise e riformate continuamente nel presente. Esse sono, quasi nello stesso tempo, istituzioni e movimento, sede fissa e immutabile di valori e adattamento continuo, soggetto alla doppia spinta del tempo, conservatorismo e mutazione. Tre caratteri fondamentali vanno tenuti presenti da chi si affaccia alla costellazione delle Chiese protestanti americane. La prima è che manca quasi del tutto una gerarchia se non temporanea e carismatica, che abbia responsabilità e potere di guida. La seconda è che, per quanto le predicazioni siano pressanti e potenti, non esistono invalicabili linee di ortodossia e proposizioni dogmatiche definite. La terza è che l’intero mondo protestante americano si divide in Chiese o dominazioni (denomination) dette main stream (Metodisti, Unitariani, Luterani, Mormoni, Christian Science) e nella vasta disseminazione di Chiese battiste associate in assemblee, con organi di coordinamento non totali e non perenni. Ciascuno di questi gruppi di Chiese si divide a sua volta in bianchi e neri, (lungo linee razziali fino a poco fa abbastanza marcate) e nella contrapposizione fra grandi centri urbani e America interna o Bible belt.
(...)Si direbbe che assistiamo, negli Stati Uniti degli anni Ottanta, ad una grande anticipazione di ciò che accadrà alcuni decenni più tardi, nel comportamento e nelle decisioni della Chiesa di Roma, che sotto il papato di Joseph Ratzinger, dovendo scegliere fra il sostegno a un cattolico rigoroso e praticante come Romano Prodi, leader del centrosinistra, e un personalità pronta a ogni cerimoniosità ma evidentemente estraneo ai valori religiosi, come Silvio Berlusconi, Ratzinger non ha esitato a offrire a quest’ultimo il pieno ed esplicito sostegno della Chiesa italiana. La scelta di Papa Ratzinger appare del tutto simile, nelle motivazioni e nelle conseguenze, a quella delle Chiese fondamentaliste americane: l’estraneità ai valori religiosi, unita all’ansietà di offrire sostegno a valori che sono indifferenti alla destra (ma garantiscono i voti religiosi al partito), e il sostegno politico del partito, premiato da quei voti, alla Chiesa rassicurata su ciò che desidera, cementano una alleanza perfetta. Di più: la mancanza di valori religiosi, proprio da parte dell’alleato laico prescelto, garantiscono la sua disponibilità a sostenere le richieste più rigide di una Chiesa.

Scuole pubbliche e private: Ratzinger vuole la parità

l’Unità 26.9.08
Scuole pubbliche e private: Ratzinger vuole la parità

Parità scolastica. Sia reale la possibilità di «libera scelta delle famiglie» e sia «effettiva l’uguaglianza tra scuole statali e scuole paritarie», che poi sono fondamentalmente quelle cattoliche. Lo ha chiesto ieri Benedetto XVI ricevendo in udienza a Castel Gandolfo i partecipanti al convegno promosso dal Centro studi per la scuola cattolica della Cei. Nel suo saluto il Papa, sottolineando il «significato civile» del progetto pedagogico cattolico, ha rilevato come possa e debba rispondere a «quella emergenza educativa» denunciata più volte. Lo fa rilanciando il tema della parità scolastica, non soltanto come problema di cassa per la scuola «cattolica», ma anche come «intento pedagogico» da far conoscere e da valorizzare in tutti i suoi aspetti, non solo quello dell’identità ecclesiale e del suo progetto culturale, ma anche del suo «significato civile», che «va considerato non come difesa di un interesse di parte, ma come contributo prezioso all'edificazione del bene comune dell'intera società italiana». È così che quel modello, spiega il pontefice, può essere «scelto e apprezzato». Plaude il ministro dell'istruzione del governo ombra, la democratica Mariapia Garavaglia, aggiungendo che «purtroppo il governo in carica non ha presentato nessun progetto educativo, ma tagli pesanti che coinvolgono tanto la scuola statale che paritaria». Plaude anche Luca Volontà (Udc) che sottoscrive la richiesta di «effettiva parità scolastica» e di «reale libertà di scelta per le famiglie», per chiedere al governo di centrodestra di passare ai fatti: di assicurare finanziamenti alla scuola cattolica «per riconoscere la piena attuazione del diritto-dovere di libertà educativa». Un giudizio non condiviso dalla portavoce del Cgd, Coordinamento genitori democratici, Angela Nava. «Le dichiarazioni del Papa sulla necessità di un'effettiva parità fra istituti statali e paritari può funzionare per le coscienze, ma non per la politica di uno Stato, che d'altronde è particolarmente favorevole alla scuola privata. Il governo dovrebbe investire maggiormente sulla scuola pubblica, quella di tutti». «In Italia -continua Nava- la questione fra scuola pubblica e scuola privata è ancora irrisolta. La legge Berlinguer, in base alla quale istituti statali e paritari devono garantire stessi diritti e doveri, non ha ancora avuto piena attuazione. Quando gli istituti privati si adegueranno ci sarà effettiva parità, e in questo modo potremo garantire il diritto delle famiglie alla scelta». L’Unione genitori, invece, apprezza e chiede maggiore sostegno alle famiglie.

giovedì 25 settembre 2008

Aumenti solo ai docenti di religione. Collega di diritto fa causa: risarcita

Corriere della Sera 25.9.08
Aumenti solo ai docenti di religione. Collega di diritto fa causa: risarcita
di Lorenzo Salvia

Un professore di religione in una media inferiore. Sono loro gli insegnanti più pagati. Durante il precariato lo stipendio aumenta del 2,5% ogni due anni.
Il tribunale di Roma ha sentenziato che si tratta di una differenza ingiustificata

ROMA — Un professore di religione guadagna più di un professore di italiano. E anche di uno di matematica, oppure di storia, di inglese, insomma di una delle qualsiasi materie obbligatorie nella scuola italiana. Lo dice la legge, anzi l'interpretazione della legge che per anni è arrivata dal ministero della Pubblica istruzione. Solo agli insegnanti di religione, durante il precariato, è riservato un aumento dello stipendio del 2,5 per cento ogni due anni. Non un patrimonio, certo. Ma dopo otto anni, rispetto ai loro colleghi di altre materie, guadagnano 130 euro netti al mese in più. Stesso lavoro, stipendio diverso: una differenza ingiustificata e dal «profilo di tutta evidenza discriminatorio» secondo una sentenza del tribunale di Roma che potrebbe aprire la strada ad un risarcimento danni di massa. E creare qualche problemino alle casse pubbliche che già di loro non sono messe benissimo.
A fare causa è stata Alessandra Rizzuto, insegnante di diritto con incarico annuale in una scuola superiore della Capitale. Il suo avvocato, Claudio Zaza, sosteneva il carattere discriminatorio proprio di quello scatto automatico previsto solo per i professori di religione. E il giudice del lavoro gli ha dato ragione, condannando il ministero della Pubblica istruzione a risarcire la professoressa con 2.611 euro e 36 centesimi, cifra calcolata sommando gli aumenti che avrebbe avuto insegnando religione. La condanna riguarda solo questo caso specifico ma a poter presentare un ricorso simile sono più di 200 mila: tutti i precari che hanno avuto almeno due incarichi annuali più quelli che sono passati di ruolo dal 2003 in poi, perché nelle cause di lavoro dopo cinque anni arriva la prescrizione.
La professoressa Rizzuto non è una testa calda che un bel giorno ha deciso di fare la guerra al ministero della Pubblica istruzione. La sua è una causa pilota promossa dai Radicali, e in particolare dal deputato Maurizio Turco e dal fiscalista Carlo Pontesilli, una coppia che da tempo va alla caccia dei «privilegi della Chiesa». Ed è proprio di «diritto per tutti trasformato in privilegio per pochi» che loro parlano.
L'aumento biennale del 2,5 per cento è stato introdotto con una legge del 1961 che in realtà riguardava tutti gli insegnanti precari, a prescindere dalla materia. Ma nel corso degli anni una serie di circolari ministeriali ha ristretto lo scatto automatico solo a quelli di religione. All'epoca una logica ci poteva anche essere. Fino a pochi anni fa gli insegnanti di religione erano precari a vita, non passavano mai di ruolo e ogni anno, oltre al nulla osta del vescovo, dovevano aspettare la chiamata del preside. Ma nel 2003, con legge ed apposito concorso, sono stati assunti a tempo indeterminato. E si sono portati dietro gli scatti accumulati, conservando il distacco in busta paga sugli altri colleghi.
Carlo Pontesilli, il fiscalista radicale, ha calcolato che se tutti quei 200 mila insegnanti facessero causa e vincessero, lo Stato dovrebbe tirar fuori 2 miliardi e mezzo di euro. Maurizio Turco, il deputato, se la ride: «Li invitiamo tutti a seguire questa strada. Vorrà dire che quei soldi li metteremo sul bilancio dei rapporti fra Stato e Chiesa».

mercoledì 24 settembre 2008

«I finlandesi vivono armati Imparano al catechismo»

Corriere della Sera 24.9.08
Lo scrittore Marani ha vissuto a Helsinki
«I finlandesi vivono armati Imparano al catechismo»
di Roberto Rizzo

MILANO — Perché in Finlandia ci sono 56 armi ogni 100 abitanti e il Paese è il terzo al mondo per possessori di armi da fuoco? «I finlandesi sono armati per abitudine. L'abitudine alla minaccia russa, il nemico tradizionale, il potenziale invasore. È un timore ancestrale che connota tutta la storia della Finlandia. Questo non giustifica la presenza di armi in casa, ma stiamo parlando di un popolo guerriero e abituato alla resistenza».Diego Marani, scrittore ( L'amico delle donne, il suo ultimo romanzo per Bompiani), traduttore e profondo conoscitore della realtà finlandese ( Nuova grammatica finlandese è il titolo di uno dei suoi libri più celebrati), ha vissuto per lunghi periodi a Helsinki.«Senza dimenticare che anche la natura ha un suo peso».In che senso? «Che nei boschi ci sono orsi e altri animali selvaggi pronti ad attaccare l'uomo. Ecco perché non c'è da stupirsi se un finlandese se ne va in giro armato».Un conto è la natura, un altro è entrare in una scuola e fare una strage. «Certo, ma parliamo di un popolo particolare, legato alle proprie tradizioni. La modernità ha allontanato i finnici dalla loro vera natura, più vicina a quella orientale che alla nostra. Sono persone che comunicano poco tra di loro, la socialità è difficile, Internet ha scavato solchi ancora più profondi. E poi c'è l'addestramento».Che tipo di addestramento? «Militare. Il servizio di leva e l'insegnamento religioso sono una cosa sola. Sono luterani e il luteranesimo è duro, nazionalista e anticomunista. Per noi ha dell'incredibile, ma a catechismo si impara a sparare. Nelle scuole ai ragazzi si dà una formazione militare, vigono regole da caserma. Inoltre, la maggior parte dei finlandesi fa parte di associazioni di ex militari. Quella delle ex Guardie di frontiera è una delle più numerose».Dopo la strage di un anno fa non c'è stato alcun dibattito in seno alla società finlandese sulla diffusione delle armi? «C'è stato, ma non sul problema delle armi. Ciò che ha turbato di più è stato scoprire la perdita dell'innocenza, ritrovarsi in un clima di violenza simile a quello che si respira nelle città americane. Questo è stato il vero shock in un Paese dove, ancora oggi, in pochi chiudono a chiave la porta di casa».Diego Marani Roberto Rizzo

martedì 23 settembre 2008

Porta Pia, ricordo con rissa tra laici e papalini

ROMA - Porta Pia, ricordo con rissa tra laici e papalini
RORY CAPPELLI
DOMENICA, 21 SETTEMBRE 2008 LA REPUBBLICA - Roma

Radicali contro il Comune:"Esalta i mercenari di Pio IX, non un cenno ai bersaglieri"

«Alessandro Piccadori, di Rieti, anni 23, tenente dei Dragoni. Enrico Caporilli, maresciallo d´artiglieria. Mariasco Taliani, di Cingoli, anni 29, artigliere. Giuseppe Valenti, di Fermentino, anni 22, artigliere. Emilio Duchet, francese, anni 24, sergente degli Zuavi». Iniziano così le commemorazioni del 20 settembre, la breccia di Porta Pia, con Antonino Torre - consigliere comunale nonché delegato per il sindaco alla Memoria - che legge i 16 nomi dei caduti dell´esercito pontificio in quella lontana battaglia. Il tenente dei Bersaglieri Flumeri dà l´ordine di attenti ai tanti fanti piumati presenti che scattano all´unisono. Militia Christi agita lo striscione con scritto "Onore ai caduti pontifici". I massoni sorridono. I radicali si agitano, partono fischi. Poi intervengono il vicesindaco Mauro Cutrufo, l´assessore alle Politiche Culturali della Provincia Cecilia d´Elia e altri ancora. Tutti qui per ricordare quella mattina del 20 settembre 1840, quando, intorno alle 10, i soldati del nuovo Regno d´Italia - bersaglieri del 34° battaglione e fanti del 39° - comandati dal generale Cadorna, sfondano a cannonate le mura ed entrano a Roma attraverso una breccia, la breccia di Porta Pia: nello scontro muoiono 49 soldati italiani e 16 pontifici. Una data assurta a simbolo e, almeno fino al 1930, anche a festa nazionale (fu soppressa dal fascismo, che l´anno prima aveva anche firmato i Patti Lateranensi): segna infatti la fine del potere temporale della chiesa cattolica su Roma, che diventa capitale del nuovo regno, e l´inizio della Questione Romana.
Una festa della laicità. Almeno così la intendono i radicali e l´Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, che ha tra i suoi presidenti onorari Margherita Hack e Piergiorgio Odifreddi). Che alla scelta del delegato alla memoria Torre di leggere i nomi dei soldati pontifici commentano con un secco: «È in corso un revisionismo fortissimo. Cosa c´entra leggere i nomi dei soldati pontifici nella giornata che commemora la fine dello strapotere papalino?» si domanda il segretario dell´Uaar Raffaele Carcano. «Se Alemanno è caduto sulla giornata della memoria l´8 settembre forse è perché si affida a personaggi di questo tipo».
«Io sono consigliere comunale, certo» spiega il delegato alla memoria Antonino Torre. «Ma sono anche un militare. E ho parlato da militare, da generale della riserva dell´esercito italiano. Chi muore per una bandiera, per un´ideale, ha il diritto di essere commemorato, da qualunque parte abbia combattuto. Ho voluto rendere onore a caduti mai ricordati. Il resto è una strumentalizzazione politica. E poi» continua Torre «sono riuscito a trovare nell´archivio del Vaticano i nomi di questi ragazzi, rimasti fino ad oggi sconosciuti. Ho scoperto anche dove furono sepolti, di nascosto: a Santo Spirito in Sassia».
Polemiche anche con l´assessore D´Elia, colpevole, secondo Carcano, di non aver detto niente in merito a questo intervento. «Non ho nessuna intenzione di commentare» è la replica di Cecilia D´Elia. «Credo che sia sbagliato ricordare un episodio militare senza dargli il valore che ha nella vicenda civile e politica di questo paese e non solo di questo paese. Quello che succede a Roma va sempre oltre i confini di Roma. Non a caso il Risorgimento volle che la città fosse capitale d´Italia».
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nota del blog:
sul tema di Porta Pia e per la storia e memoria del XX settembre esiste un blog specifico:
http://20settembre.blogspot.com

mercoledì 17 settembre 2008

Quell’Italia che rifiuta la libertà delle donne

l’Unità 18.9.08
Quell’Italia che rifiuta la libertà delle donne
di Chiara Valentini

SILVIA BALLESTRA Da oggi è in libreria Piove sul nostro amore (Feltrinelli), un viaggio nel mondo inospitale dell’aborto, in un paese, l’Italia, dove sta accadendo qualcosa di inquietante...

Un paese che ha una passione neanche tanto segreta per tormentare le donne. È questa alla fine dei conti l’immagine che vien fuori dal viaggio che la scrittrice Silvia Ballestra ha voluto compiere su un terreno dove ben poche della generazione under 40 si era finora avventurata, il terreno malfido e pieno di contraddizioni dell’aborto. Capisco bene che non deve essere semplice, per chi come Ballestra aveva nove anni quando la legge 194 era stata votata e 11 quando un referendum che voleva cancellarla veniva respinto massicciamente dal 68 per cento degli italiani, riprendere in mano una vecchia storia derubricata a lungo dal senso comune come fatto privato. Ma chi era cresciuta in quel «dopo» anche troppo rassicurante (quante volte, ancora fino all’altro ieri, abbiamo sentito ripetere come un mantra «l’aborto non si tocca...») ha anche un vantaggio, la capacità di indignarsi che nasce dalla scoperta di qualcosa che non si credeva possibile. E infatti è dall’inimmaginabile 8 marzo 2008 di Giuliano Ferrara, e dalla sua scelta di lanciare proprio quel giorno la sua creatura elettorale a sostegno di una moratoria dell’aborto che parte il libro di Silvia Ballestra (Piove sul nostro amore - Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni, Feltrinelli, Serie Bianca, pp. 176, 14 euro).
I segni che in Italia sta succedendo qualcosa di inquietante la Ballestra se li ritrova dove meno se l’aspetta. È in un ambulatorio dell’Aied che scopre l’esistenza di un turismo di specie nuova, tante italiane che se ne vanno in Francia, in Olanda o in Svizzera non per tentare in ambienti migliori quella pratica a rischio che è da noi la fecondazione assistita, ma per interrompere una gravidanza. In Canton Ticino ci sarebbe un calo notevole degli aborti se non ci fossimo noi, le straniere in arrivo da un paese cosiddetto evoluto, a far alzare la percentuale del 25 per cento. Perché? Le ragioni sono molte, e attengono a quella guerra neanche tanto sotterranea alla libertà riproduttiva delle donne di cui la moratoria peraltro fallita di Ferrara è stata solo un sintomo. Una trovata così apparentemente paradossale d’altra parte non sarebbe stata pensabile senza quel retroterra di movimenti per la vita e di centri di aiuto a non interrompere la gravidanza o senza le schiere di militanti pro life appostati all’ingresso degli ospedali che gridano «stai per uccidere un bambino» e sventolano cartelli del genere «Mamma rivoglio bene, non farmi del male».
Ma nel mondo pro life non tutto è così scontato. Meno prevedibile per esempio è il ricorso alla psicoanalisi usata come barriera contro il relativismo culturale che viene fatto nelle scuole di formazione per gli attivisti della vita. In parte inatteso anche lo stile di comunicazione più amichevole di una parte dei centri di aiuto, dove cartelli e volantini rinunciano al terrorismo iconografico per mostrare pance rotonde e mazzi di margherite. Più che donne assassine, sembrano suggerire queste immagini, donne da aiutare e sostenere. Ma poi, approfondendo meglio, Ballestra scopre una specie di doppia morale. «Non sei assassina, ma commetti un omicidio» è il messaggio sotterraneo. Assistendo ad una lezione del professor Mario Palmaro, docente alla Pontificia università Regina Apostolorum, l’astro nascente della bioetica più integrista, comincia a capire la ratio di questa offensiva che specie dopo il fallito referendum sulla fecondazione assistita sta avvolgendo la 194. L’obiettivo, almeno per il momento, non è tanto di mettere mano alla legge, ma di trasformare in senso sempre più negativo la percezione che la società ha dell’aborto. «Far vedere che esiste una 194 percepita e una 194 reale, che ha trasformato un delitto in un diritto», predica il professor Palmaro. Ed ecco la sua ricetta, obiezione di coscienza ad oltranza, «da parte di ciascuno di noi». Non solo insomma della moltitudine crescente dei ginecologi, che in varie regioni ha quasi paralizzato il servizio. No, qualunque strumento che in qualche modo si opponga al dispiegarsi della vita va mandato in tilt. E così i medici del pronto soccorso rifiutino di prescrivere la pillola del giorno dopo e i farmacisti di venderla, per non parlare di quella bestia nera che è la Ru486, la killer pill nel linguaggio antiaborista. Questo farmaco che consente di evitare i ferri e l’anestesia, in uso da tempo in tutto l’Occidente, ha infatti la grave colpa di «banalizzare l’aborto» cancellandone l’aspetto cruento, di renderlo più leggero e accettabile. E quindi in Italia, nonostante la sperimentazione di Silvio Viale a Torino e qualche tentativo in Emilia e Toscana, le donne devono continuare ad «abortire con dolore».
In questo territorio sempre più inospitale che è oggi l’interruzione di gravidanza si aggiranno perplesse ragazze e giovani donne. Sono in numero molto ridotto rispetto al passato, visto che la 194 ha dimezzato le cifre. E sono più isolate. Scrive Ballestra che oggi la grande maggioranza delle giovani si considera immune da qualcosa di cui si parla così poco, non crede che toccherà proprio a lei. Quando succede il problema è grande, come la vergogna che le accompagna in un percorso accidentato di visite e certificati spesso difficili da ottenere, mentre le settimane passano e la paura di non fare in tempo cresce. È forse la parte più bella del libro il racconto di questi aborti legali a cui si arriva avendo sentito parlare in modo piuttosto vago di libera scelta e di autodeterminazione femminile. Come la ragazzina appena diciottenne che piomba in ospedale senza neanche una camicia da notte visto che nessuno le ha detto di portarla, e si ritrova annichilita davanti ai medici «con certi sandaletti azzurri ai piedi e la gonna tirata su, lo slip appallottolato in una mano e gli occhi fissi al soffitto» e poi si trascina per anni un lutto difficilmente gestibile. O quell’altra che seduta in attesa su una panchetta davanti alla «stanza 194» dell’ospedale milanese di Niguarda «sente uno strano rumore, come di aspirapolvere... un rumore assordante, lancinante, che ferisce dentro e fuori».
C’è da dire che in trent’anni è cambiata la percezione stessa della gravidanza, anche per quelle ecografie che ti fanno vedere il feto, quegli esami che ti fanno sapere molto presto se sarà maschio o femmina. La rinuncia può essere più dura, più lacerante. Ma di questi mutamenti e sentimenti c’è poco spazio per parlare. In un paese come l’Italia è pericoloso farlo, puoi sempre trovare un ateo devoto o un militante per la vita che sta lì pronto a ritorcerti contro il tuo dolore, a trasformarlo in un’arma contundente. E così quel poco di riflessione che si è sviluppata negli ultimi anni è stata più uno scontro all’arma bianca che un’analisi meditata. Con qualche femminista come Eugenia Roccella che è passata dall’altra parte e poche altre che invece hanno cercato di aprire nuove porte. Con una di loro, la storica Anna Bravo, Ballestra si sente in sintonia, per quel suo coraggio a sostenere che nell’aborto ci sono due vittime, la donna e anche il feto. È una riflessione che scotta, in presenza di quei «diritti del concepito», perno della legge sulla fecondazione assistita, che ha contrapposto il nascituro alla madre, con quel che ne è conseguito. Allo stesso tempo sono evidenti i prezzi che stiamo pagando proprio per aver lasciato alla Chiesa il monopolio della riflessione etica sui temi della vita. Anche questo viaggio su territori poco frequentati ha il merito di ricordarcelo.

BLOG NEWS E M.A.V.A.F.F.A.N.C.U.L.P. CONDANNANO IL PAPA

seganalazione:
BLOG NEWS E M.A.V.A.F.F.A.N.C.U.L.P. CONDANNANO IL PAPA
questo è il link: http://newsfuturama.blogspot.com/2008/09/blog-news-e-mavaffanculp-condannano-il.html

8 per mille, allarme in Vaticano

8 per mille, allarme in Vaticano

L'Unità del 17 settembre 2008, pag. 2

di Simone Collini

35 milioni di euro in meno dall’8 per mille, e nella Chiesa cattolica scatta l’allarme. I dati sono contenuti in un documento interno della Conferenza episcopale italiana, di cui è venuta in possesso la Adista, agenzia che si occupa di «fatti e notizie del mondo cattolico» (di non molto tempo fa è l’inchiesta sui conti correnti aperti dall’Istituto per il sostentamento del clero in una dozzina di banche che «collaborano attivamente al commercio di armi italiane»). Nel testo si legge che dopo quasi dieci anni di costante incremento, la percentuale delle firme per la destinazione dell’8 per mille all’episcopato italiano è diminuita dall’89,82% (risorse da distribuire nel 2008, sulla base delle dichiarazioni dei redditi del 2005) all’86% (risorse per il 2009, in riferimento alle dichiarazioni dei redditi del 2006): «Tale dato - si precisa nel documento della Cei - non è l’effetto di una diminuzione in valore assoluto delle firme in favore della Chiesa cattolica (che, anzi, crescono ancora di 38.024 unità), ma di un significativo incremento delle scelte espresse (equivalenti a circa 800.000 firme), quasi tutte per l’opzione «Stato», che passa in percentuale dal 7,6% all’ 11% totale». Fatto sta che la Cei ha preso atto che la riduzione percentuale determinerà per il prossimo anno «un significativo calo, pari a quasi 35 milioni di euro» delle risorse che entreranno nelle casse vaticane. «Ciò evidenzia la necessità di continuare a puntare sulle campagne di promozione al sostegno economico per la Chiesa cattolica, per tenere alta la percentuale delle firme in nostro favore», si legge nel testo diffuso dalla Adista.



Ma quanto venuto alla luce in queste ore evidenzia anche un’altra cosa, per il Radicale Maurizio Turco. E cioè che «il miliardo di euro che ogni anno viene sottratto dal bilancio dello Stato in favore della Cei è frutto di un patto scellerato tra quest’ultima e i governi italiani, che da 18 anni tengono nascosto al Paese il reale funzionamento dell’8 per mille».



Il punto contestato è il meccanismo perverso che regola la ripartizione di queste risorse: la stragrande maggioranza dei contribuenti, quasi il 60%, non barra nessuna delle sette caselle presenti sul modulo per la dichiarazione dei redditi (Chiesa cattolica, Stato, Valdesi, Comunità ebraiche, Luterani, Avventisti del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia), e in base alle norme vigenti questa quota non espressa viene divisa in misura proporzionale alle preferenze dichiarate. «Solo il 37% dei contribuenti italiani sceglie volontariamente di destinare alla Chiesa l’8 per mille delle proprie tasse», si legge nel testo con cui l’agenzia Adista commenta il documento interno alla Cei di cui è venuta in possesso, ma grazie al meccanismo di ripartizione «la Chiesa cattolica incassa quasi il 90% del gettito complessivo».



La Cei non interviene su questo punto, però con una nota smentisce che ci saranno nei prossimi mesi ulteriori stanziamenti per le campagne pubblicitarie e ostenta tranquillità sulle risorse finanziarie che incasserà nel 2009. Dice Paolo Mascarino, del Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica: «Il numero di contribuenti che hanno firmato per l’8 per mille è passato da 16,8 milioni a oltre 17,5 milioni, quindi ci sono 800 mila firme in più. Lo Stato ne ha prese la gran parte e cresce in termini di quota, la Chiesa si abbassa perché è cresciuta meno, proporzionalmente, dello Stato, ma l’importante è che sono cresciute le firme per la Chiesa».

Otto per mille alla Chiesa: contributi in calo

Otto per mille alla Chiesa: contributi in calo

Il Messaggero del 17 settembre 2008, pag. 12

di Franca Giansoldati

Polemica sull’8 per mille che rientra alla svelta dopo una precisazione proveniente dal quartier generale della Cei che, per non fare montare un caso definito «non preoccupante», ha affidate al Sir un intervento, ricco di cifre e considerazioni. Le preferenze a favore della Chiesa cattolica non è vero che calano, ma anzi continuano a crescere, in termini assoluti. Ciò che diminuisce, invece, è la percentuale del totale delle firme per effetto di un consistente aumento di coloro che scelgono per l’opzione "Stato". I dati in questione, nonostante siano già stati commentati nel maggio scorso, dallo stesso cardinale Bagnasco, al termine dell’Assemblea Generale della Cei, sono stati ripescati dall’agenzia cattolica indipendente Adista per mettere in evidenza come, dopo dieci anni di costante incremento, la percentuale delle finne a favore della Chiesa cattolica fosse diminuita. Tanto che i vescovi avrebbero financo pensato di correre ai ripari e potenziare la pubblicità su tv e giornali per sensibilizzare i contribuenti a firmare per loro. Obiettivo: neutralizzare la concorrenza dello Stato che guadagna consenso (e, ovviamenle, contributi). Questa riduzione, scrive Adista, «determinerà per il prossimo anno un significativo calo, pari a quasi 35 milioni di euro».



I vescovi italiani prossimamente scriveranno agli italiani ma solo per dire «grazie» della fiducia dimostrata finora. Una lettera pastorale di gratitudine. Inoltre, aggiunge i] Sin non è mai stato lanciato nessun allarme dall’episcopato poiché le firme in termini assoluti risultano in crescita, secondo i numeri già pubblicati in maggio, e dai quali si evinceva che «un numero superiore di italiani ha scelto di firmare per la Chiesa Cattolica (+ 38mila unità)».



Secondo la Conferenza Episcopale se in percentuale qualcun altro è cresciuto di più (in questo caso a crescere è lo Stato italiano, una delle sette destinazioni possibili dell’8 per mille) dimostra solo che «il sistema e’ davvero democratico». «Accogliamo con favore questo fenomeno: in primo luogo il fatto che partecipino 17,5 milioni di persone alla farnia dell’8 per mille - hanno spiegato i vescovi - rafforza la natura democratica dello strumento; in secondo luogo siamo contenti che lo Stato torni al suo livello fisiologico dell’ 11 per cento di scelte, livello che storicamente ha avuto negli anni (11-12 per cento)».



Intanto i Radicali che stanno facendo una campagna contro 1’8 per mille alla Chiesa cattolica, ne hanno approfittato per definire il meccanismo di ripartizione un «patto scellerato» tra i governi «che da 18 anni tengono nascosto al Paese il suo reale funzionamento». Se si informassero meglio i cittadini le «ripartizioni dell’otto per mille sarebbero ben diverse, e la Cei perderebbe buona parte dei 600 milioni di extra gettito».

8 per mille: la Cei lucra sull’ignoranza imposta dai Governi. Se il Governo informasse, 600 milioni di euro in meno per la CEI

dal sito: radicali.it
8 per mille, Radicali: la Cei lucra sull’ignoranza imposta dai Governi. Se il Governo informasse, 600 milioni di euro in meno per la CEI

Roma, 16 settembre 2008

Dichiarazione di Maurizio Turco, deputato radicale eletto nel PD e Segretario di Anticlericale.net, e di Mario Staderini, della Giunta di Direzione di Radicali Italiani e autore del libro “8 per mille, come lo Stato sottrae ogni anno 1 miliardo di euro agli italiani per darli alla Chiesa cattolica”



I dati sulle scelte sull’otto per mille espresse dagli italiani con dichiarazioni dei redditi 2006 e valide per il 2009, anticipati ieri da Adista, confermano quanto sosteniamo da tempo: il miliardo di euro che ogni anno viene sottratto dal bilancio dello Stato in favore della CEI è frutto di un patto scellerato tra quest’ultima ed i Governi italiani, che da 18 anni tengono nascosto al Paese il reale funzionamento dell’otto per mille.

Nel 2004, con i pochi mezzi dell’associazione radicale Anticlericale.net, avviammo una campagna informativa per far conoscere a quel 64% di italiani che non esprimeva una scelta le conseguenze del loro gesto. Non firmando, infatti, i soldi non rimangono nelle casse dello Stato ma vengono ripartiti sulla base delle scelte degli altri.

Apprendiamo oggi con soddisfazione che in soli tre anni, il numero di chi non sceglie è sceso al 59% e quella di chi si esprime a favore dello Stato è salito dal 7,7% all’11%.

In valore assoluto significa 800 mila firme in più per lo Stato, mentre la Chiesa cattolica è cresciuta ma di sole 38 mila unità.

Siamo certi che se il Governo facesse il suo dovere, ovvero informare i cittadini, le ripartizioni dell’otto per mille sarebbero ben diverse, e la CEI perderebbe buona parte dei 600 milioni di extra gettito che annualmente lucra sull’ignoranza indotta.

Il Ministro Tremonti, che dell’8 per mille fu l’ispiratore, scriverà anche lui una lettera agli italiani, come farà la CEI?

martedì 16 settembre 2008

La buona laicità

La buona laicità
La Stampa del 16 settembre 2008, pag. 29

di Gian Enrico Rusconi
Il lungo ciclo delle prese di posizione pubbliche di Papa Ratzinger, tra il discorso di Ratisbona (settembre 2006) e il solenne ricevimento all’Eliseo a Parigi (settembre 2008), si chiude con un successo di attenzione mediatica. Il Papa ha ribadito che il contrasto principale di oggi è tra «religione e laicismo». Nel contempo ha evocato benevolmente una «laicità positiva» lasciandone tuttavia indeterminati i contorni. A scanso di equivoci, però, lontano da Nicolas e Carla, ha invitato i Vescovi a non benedire «le unioni illegittime». Tutto deve tenere.

Sembra essersi affermata nell’opinione pubblica l’idea che ci sia il pericolo di una illegittima esclusione dalla sfera pubblica della religione, della Chiesa, del cristianesimo, di Dio (con una intenzionale o preterintenzionale confusione e sovrapposizione di questi concetti).

Naturalmente questo non risponde a verità. Quanto meno occorre distinguere tra la situazione francese e quella italiana. Da noi molti cattolici coltivano la sindrome della vittima: costante presenza mediatica accompagnata dal lamento dell’esclusione; denuncia della critica e del rifiuto delle loro opinioni come prova dell’ostilità verso il cristianesimo-cattolicesimo, verso la Chiesa, anzi verso Dio. Da qui l’equivoco di scambiare il dissenso ragionato verso aspetti - naturalmente importanti - della dottrina della Chiesa e della sua strategia come inimicizia preconcetta contro la religione o come ateismo militante. Magari si prende occasione dall’atteggiamento di alcuni laici, del tutto legittimamente atei, che con le loro posizioni polarizzano su di loro l’attenzione dei media e della Chiesa.

Ma dove passa la differenza tra laicità positiva e laicismo? In concreto: nella definizione della famiglia «naturale», nei temi connessi a quella che viene genericamente chiamata eutanasia, nei problemi cruciali della bioetica? Chi non è d’accordo sul lungo elenco dei «no» degli uomini di Chiesa - dalle coppie di fatto alla sospensione dell’alimentazione forzata nel caso di Eluana - è dichiarato laicista. Chi invece è d’accordo è laico positivo. Come si possono schiacciare in queste caselle le convincenti considerazioni di Barbara Spinelli su «quando muore il cervello» (La Stampa 14 settembre)?

Ma c’è un altro malinteso. In Italia si sta estinguendo il dialogo, se con esso miriamo allo scambio di ragioni e di argomenti. Se lo intendiamo come la ricerca della verità su questioni complesse, dove ognuno degli interlocutori dovrebbe essere disposto a mettere in gioco le proprie convinzioni. No: il dialogo è diventato sinonimo di rassegna e competizione di posizioni già predisposte in funzione identitaria (cattolici contro laici). In particolare per gli interlocutori religiosi la verità c’è ed è intrattabile. Ma questo avviene sulla base di un passaggio logico non esplicitato: l’incontrovertibilità della verità passa impercettibilmente dal piano della «rivelazione religiosa» ai temi della «natura umana» che dovrebbero essere invece affrontabili con strumenti razionali e scientifici presuntivamente comuni e accessibili a tutti.

La Chiesa in questi anni di esposizione pubblica è riuscita a riaffermare la credibilità della sua dottrina naturale. Il costo (non detto e persino non percepito da molti Pastori) è che non si parla più davvero di teologia ma di antropologia, come si sente ripetere in continuazione. Il problema che sta a cuore non è la questione di Dio, ma l’idea di natura umana e di razionalità (nel senso inteso da Ratzinger) che passa surrettiziamente dietro e dentro l’idea di Dio quale è codificata nei termini tradizionali della dottrina. Il laico che solleva questa problematica è etichettato senz’altro come laicista. Con lui si polemizza, non si dialoga.

A questo punto confesso d’aver perso il senso della distinzione benevola-polemica tra laicità positiva e laicismo. Secondo lo stereotipo corrente il laico-laicista è il non-credente, il razionalista («arido», naturalmente), lo scettico cultore del dubbio metodico, relativista rispetto ai valori, l’uomo senza speranza. Inutile dire che queste sono caricature clericali. In realtà oggi il laico (senza bisogno di sentirsi definire «positivo») non condivide più la «religione della ragione» settecentesca, la «religione dell’idealismo» di stampo ottocentesco, neppure quella della scienza novecentesca, anche se tiene ben fermi come criteri di certezza quelli offerti dal metodo scientifico. Di conseguenza si pone interrogativi su Dio che appaiono incompatibili con la dottrina corrente della Chiesa.

Il laico è l’uomo/la donna delle certezze che sanno di essere radicalmente contingenti, ma non per questo meno stringenti. È l’uomo/la donna della ragionevolezza, cioè della razionalità temperata da ciò che non appare riducibile alla semplice strumentazione scientifica. Ma non per questo accetta dottrine costruite su modelli mentali e antropologici storicamente elaborati con mentalità pre-scientifica (o addirittura anti-scientifica) che pretendono accesso privilegiato alla trascendenza.

Il confine tra razionale e irrazionale è precario, ma sempre definibile con gli strumenti della ragione. L’orizzonte della ragione e delle sue espressioni semantiche è intrascendibile. La fede non vi trova posto. Questa è la lezione irrinunciabile da Kant a Wittgenstein, due studiosi che non si dichiaravano affatto atei ma ponevano la fede nella «ragione pratica» o nell’ambito delle «forme di vita». Chi ragiona così è un laicista o un laico positivo? Francamente questa distinzione, che pretende diventare una graduatoria della razionalità, è insostenibile.

sabato 13 settembre 2008

Al Papa non basta l’ateo devoto

Al Papa non basta l’ateo devoto

La Stampa del 9 settembre 2008, pag. 1

di Franco Garelli

E’molto curioso che il Papa, nella sua visita di domenica in Sardegna, abbia fortemente auspicato la nascita di «una nuova generazione di politici cattolici» proprio di fronte a un nutrito parterre di uomini politici venuti a rendergli omaggio. Chissà come avrà reagito a questo richiamo Silvio Berlusconi, che era in prima fila insieme con Gianni Letta e il governatore Soru.

Lui che oltre a qualche zia suora vanta un’educazione dai Salesiani di Milano e non perde occasione di presentarsi come il paladino della libertà di espressione della Chiesa nella nostra società; in ciò distinguendosi da una sinistra che - a suo dire - ancora vorrebbe una «chiesa del silenzio». Ma al di là della circostanza, quello dei Papa è un appello che chiama in causa molte forze politiche. Anzitutto i cattolici di tutti gli schieramenti, che possono sentirsi come una pattuglia troppo residuale o marginale per rappresentare politicamente i valori cristiani nella società pluralistica. Inoltre, tutte quelle forze politiche (tra cui anche la Lega Nord) che, pur caratterizzate da un’anima tendenzialmente laica e secolarizzata, da tempo rivalutano la fede della tradizione per rinforzare le basi della nazione e per arginare la presenza di nuove culture e fedi religiose. Infine, anche quel Partito democratico la cui costola cattolica sembra alla Chiesa troppo debole per emergere nel confronto tra ispirazioni diverse ed eterogenee.



In sintesi, nell’auspicare il rinnovamento della classe dirigente cattolica il Papa sembra guardare «altrove» rispetto alle forze politiche esistenti, «oltre» la distinzione di campo tra destra e sinistra. Preoccupata del debole apporto dei cattolici alla vita politica, la Chiesa lancia lo slogan «giovani politici cattolici cercansi». Ma l’auspicio è per una nuova generazione di laici cristiani «capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». In un altro passo del discorso di Cagliari, il Papa lamenta i troppi divorzi e lacerazioni che travagliano le famiglie, segno di una mentalità troppo compromessa col mondo che coinvolge anche i politici che pur appoggiano l’azione della Chiesa nella società.



La novità di questa posizione del Papa è evidente, dopo anni in cui la Chiesa ha apprezzato l’azione positiva nei suoi confronti da parte di forze politiche attente ai valori cristiani più per tradizione che per convinzione. Come a dire che la Chiesa non si accontenta di questi appoggi esterni da parte di forze politiche intrinsecamente laiche, ma rivendica l’importanza della presenza in politica dei credenti più impegnati. Gli atei devoti possono dare un contributo alla causa cristiana, ma non sostituiscono affatto i credenti attivi e convinti nel loro impegno nel governo delle realtà terrene. C’è una sensibilità cattolica distintiva che deve emergere anche in campo politico, capace di meglio rappresentare la visione della realtà tipica del cattolicesimo. Già Paolo VI diceva che l’impegno in politica è una delle forme più alte di carità cristiana.



Resta da chiedersi se quello del Papa sia un generico appello ai credenti a impegnarsi nuovamente nelle scelte politiche, oppure un richiamo che alimenta e fa leva su un’effettiva mobilitazione delle forze cattoliche in questo campo. In altri termini, di quante «divisioni» può contare oggi il cattolicesimo italiano per una nuova presenza in politica? La risposta non può che essere incerta e controversa. Tra i credenti più attivi il legame con la politica si è affievolito nel tempo, anche a seguito di Tangentopoli e dintorni e della crisi vissuta dalla Democrazia cristiana. Molti cattolici hanno sostituito l’impegno politico con quello nel volontariato, dedicandosi anche alle molte attività formative e organizzative degli ambienti ecclesiali. L’associazionismo cattolico manifesta ancora un’indubbia vivacità, ma - con poche eccezioni - non risulta propenso a orientare i propri membri ad assumersi delle responsabilità politiche. Oltre a ciò, la crisi degli Ordini e delle Congregazioni religiose, soprattutto dei Gesuiti, ha privato il campo cattolico di quei luoghi formativi preposti nel passato alla formazione della classe dirigente. Anche le forze e i partitini politici di ispirazione cattolica esercitano un debole appeal sulle nuove generazioni, palesando un deficit di ricambio preoccupante. L’appello di papa Ratzinger per far nascere una nuova generazione di politici cattolici può dunque creare del movimento nel cattolicesimo organizzato e contribuire a rinnovare la classe politica italiana; anche se la base cattolica non sembra ancora pronta per la sfida su un terreno così impegnativo che richiede nuove elaborazioni e un più forte coraggio.

Nostalgie vaticane

Nostalgie vaticane

Il Manifesto del 9 settembre 2008, pag. 3

di Filippo Gentiloni

Anche il papa è scontento della situazione politica italiana. Lo ha detto con chiarezza nel corso della sua visita dell’altro ieri in Sardegna. L’Italia è malata: è d’accordo anche lui. Non è facile, però, essere d’accordo con lui sulla cura. Dice che «serve una nuova generazione politica», ma la novità assomiglia molto, troppo, a un passato infelice, incerto, non ancora dimenticato. Sentiamo: «Auspico una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». E ha aggiunto: «Maria vi renda capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». In primo piano la famiglia che «ha più che mai bisogno di fiducia e di sostegno sia sul piano spirituale che su quello sociale». Soprattutto «giovani, assetati di verità e di ideali». E ha aggiunto: «Evangelizzate il mondo del lavoro, dell’economia, della politica». Ai giovani il papa ha detto anche di «non cedere allo scoraggiamento di fronte alla precarietà del lavoro e a evitare la superficialità promossa dalla cultura dominante».



Non si può non ricordare i tempi della Democrazia Cristiana: il papa ne auspica un ritorno? Non basta la presenza di cattolici che vivono, come oggi, la militanza politica nei vari schieramenti esistenti? Si vorrebbe fare ritorno a uno schieramento etichettato come cattolico? Eppure era sembrato che i vertici vaticani avessero accettato volentieri la fine di raggruppamenti politici dichiaratamente «cattolici», in Italia come nel resto del mondo.



La situazione attuale spinge, forse, verso un ritorno indietro? Alcune espressioni dei vertici vaticani e del papa stesso lo farebbero pensare.



Sempre nella domenica «sarda», ad esempio, dopo la messa, il papa ha lamentato il numero eccessivo dei divorzi che starebbero sfasciando le famiglie italiane, mentre, d’altro canto, ha confermato in un cordiale incontro con Berlusconi l’appoggio cattolico al governo di centrodestra. L’incontro dell’altroieri era il sesto fra Berlusconi e Benedetto XVI (che aveva viaggiato in aereo insieme a Gianni Letta). Ma proprio in contemporanea a Roma i ministri Rotondi e Brunetta stanno portando avanti una riforma positiva delle unioni civili.



In una intervista all’ Unione sarda Berlusconi difende l’intervento politico della Santa Sede e ringrazia per l’appoggio ricevuto in questi mesi. «Da sardo, prego la vergine di Bonaria». Dice: La libertà di pensiero è un principio che ho sempre difeso. Chi vuole la chiesa del silenzio e che ancora gradirebbe sacerdoti confinati dentro le chiese, è fra coloro che si sono sempre ispirati al comunismo». Berlusconi non si smentisce. Ciò nonostante la «cattolicità» degli italiani è sempre più in discussione e il papa è preoccupato. Non basta a tranquillizzarlo la constatazione che il «pericolo» comunista si è allontanato da tutto il panorama politico (persino dal Partito Democratico).



E’ evidente che in Vaticano non si sa bene che cosa opporre alla progressiva laicizzazione del popolo italiano. Una incertezza che è emersa in Sardegna nell’incerto richiamo ai tempi di un cattolicesimo impegnato in politica in prima persona. Tempi non lontani, li ricordiamo bene.



Ma per la chiesa sono stati tempi veramente felici? Se ne può, almeno, dubitare. Erano, fra l’altro, i tempi dei referendum popolari a favore del divorzio e dell’aborto, le più dure sconfitte recenti del cattolicesimo nostrano. E il Vaticano non può e non deve dimenticare che la Democrazia Cristiana era diventata più che il partito dei cattolici il partito di centro della vita politica italiana. Di un centro sempre più a destra.



Non sembra convincente, dunque, quel ritorno a un cattolicesimo politico auspicato in Sardegna dal papa. Come non sembra convincente quell’appoggio della chiesa ufficiale al centrodestra che l’incontro sardo del papa con Berlusconi ha confermato. Ci piaccia o no, la laicizzazione procede a grandi passi anche da noi. Nonostante i reciproci favori fra il Vaticano e Palazzo Chigi. E nonostante la crisi del comunismo.

L’occupazione vaticana del potere politico

L’occupazione vaticana del potere politico

L'Opinione del 9 settembre 2008, pag. 1

di Alessandro Litta Modignani

Alla elezioni del 2006, quando vennero annunciate le candidature di Luigi Bobba e Paola Binetti nelle liste dell’Ulivo, Daniele Capezzone disse che il Vaticano aveva lanciato un’Opa sul 100 per cento della politica italiana. Era sembrata solo una delle tante battute efficaci dell’allora segretario dei Radicali, ma oggi si comprende la portata reale dell’offensiva in corso contro lo Stato di diritto, laico e moderno. Il Vaticano non si accontenta più di avere un proprio spazio, per quanto privilegiato, come nel recente passato. Ora vuole tutto il “piatto”, e per ottenerlo punta a occupare l’intero arco dello schieramento politico, con esponenti di stretta osservanza collocati nelle posizioni-chiave. C’è bisogno di nuovi cattolici nella politica italiana, ha detto infatti Benedetto XVI durante la sua visita in Sardegna. Un modo per dire che i cattolici alla vecchia maniera non bastano più. I cattolici liberali nell’800 avevano fatto il Risorgimento, contro la Chiesa stessa; i clerico-fascisti avevano spinto alla conciliazione, attraverso il Concordato; i cattolici democratici avevano fatto la Repubblica, con la Democrazia cristiana; i catto-comunisti avevano “coperto” a sinistra durante gli anni della contestazione e del compromesso storico.

Oggi nessuno di costoro è funzionale al disegno egemonico del Vaticano. Nel terzo millennio servono cattolici di tipo nuovo, antropologicamente privi di senso dello Stato, “laici” solo in quanto non sacerdoti, ma - al pari dei sacerdoti - fedelmente allineati alle posizioni della Chiesa, vincolati all’obbedienza e pronti a corrispondere agli impulsi delle gerarchie. Militanti della Chiesa, insomma, mandati in missione non nel terzo mondo, ma su un fronte di lotta particolarmente importante e delicato: lo Stato italiano. Al momento della formazione del governo Berlusconi, avevamo previsto che la pesante penalizzazione di esponenti integralisti avrebbe contrariato la Chiesa e che il Vaticano avrebbe presentato il conto: è accaduto domenica, in Sardegna. Joseph Ratzinger non è certo tipo da farsi intortare a pacche sulle spalle. Esige da Berlusconi contropartite precise, cioè uomini di sua fiducia in posizioni di potere.

E soprattutto divieti su divieti, per rafforzare la presa di controllo su una società sempre più secolarizzata e sempre meno preda delle ataviche paure su cui si fonda il potere sacerdotale. Per questo “c’è bisogno di nuovi politici cattolici”: perchè i cattolici, in Italia, sono sempre meno, come dimostrano le statistiche. Naturalmente tutti, a destra e a sinistra, si sono precipitati a dire che il Papa ha ragione. Per primo Berlusconi, che si è detto pronto a difendere la “libertà di parola” del Papa. A dire il vero, il problema italiano è semmai l’opposto: chi è rimasto a difendere la laicità dello Stato? Gianni Letta, braccio destro di Silvio, fuga anche gli ultimi timori: “Santità, non ci è sfuggito il suo messaggio”. Ecco finalmente un esempio di “sana laicità”.

Sarah, un vicepresidente in missione per conto di Dio

Sarah, un vicepresidente in missione per conto di Dio

Il Riformista del 10 settembre 2008, pag. 5

di Anna Momigliano

Chiede ai suoi di pregare per la costruzione di un oleodotto da 30 milioni di dollari. Prende il tè insieme al leader di un gruppo che si chiama «Jews for Jesus». E, almeno a sentire il suo ex pastore, ha il dono di parlare direttamente con Dio, in lingue sconosciute agli uomini.

A metterla così Sarah Palin sembrerebbe più una santona, che a una candidata alla vicepresidenza. E probabilmente a John McCain la tentazione di vedere nella sua novella numero due un dono del Signore sarà anche venuta: la candidatura di Sarah Palin è fruttata la raccolta di dieci milioni di dollari in soli tre giorni; e secondo un sondaggio di Washington Post/ABC News reso noto ieri, il ticket repubblicano godrebbe di un vantaggio di dodici punti tra le elettrici bianche, presumibilmente grazie alla governatrice. Il sondaggio dava Obama e McCain testa a testa.



Ma sul passato di Sarah Palin vengono lanciate accuse che lasciano pensare non sia proprio una santa. Un’inchiesta del Washington Post sostiene che la governatrice dell’Alaska avrebbe incassato dei rimborsi illeciti: l’accusa è di avere ricevuto la diaria di trasferta prevista per i governatori fuori sede, anche per le 312 notti trascorse nella sua abitazione di Wasilla. Totale? Poco meno di 17 mila dollari. Non molto, ma è pur sempre un brutto colpo per una candidata che si è sempre presentata come una outsider, per giunta paladina della trasparenza.



Quanto all’immagine di santa donna, questa invece Palin non se l’è creata da sola, anzi probabilmente ne avrebbe fatto a meno. Lei ha sempre tenuto a presentarsi come una "social conservative", una puritana delle questioni etiche (aborto, educazione sessuale eccetera). Ma finora ha sempre cercato di tenere privata la sua fede - e probabilmente per una buona ragione.



Due giorni fa invece il suo ex pastore, il pentecostale Tim McGraw, ha ben pensato di gettare la religiosità della governatrice in pasto ai media. Il reverendo ha rilasciato alla Cnn un’intervista che ha messo non poco in difficoltà lo staff della campagna repubblicana.



In primis perché la governatrice ha finora fatto il possibile per sviare l’attenzione dalla sua (ex?) fede pentecostale, una denominazione evangelica "bora again" che fino a pochi decenni fa era guardata con molto sospetto anche dal resto della destra cristiana: non a caso Palin aveva deciso di abbandonare la chiesa pentecostale Assembly of God nel 2006, proprio a ridosso della sua elezione a governatore. Ha scelto una chiesa protestante senza denominazione, e meno controversa.



E poi perché le dichiarazioni del reverendo McGraw avrebbero messo in imbarazzo chiunque. Il pastore ha raccontato che la governatrice Palin ha continuato a visitare di tanto in tanto l’Assembly of God. Come quella volta che chiese a tutti di pregare per la costruzione di un oleodotto: «Il volere di Dio è unire il popolo e le compagnie nella costruzione della pipeline» ha detto. Oppure lo scorso 17 agosto, quando si è unita ai Jews for Jesus, gruppo evangelico dedito alla conversione degli ebrei e secondo cui gli attentati palestinesi contro Israele sarebbero una punizione divina. Una teoria molto amata anche dal televangelista Pat Robertson, che tentò invano di essere candidato alla vicepresidenza repubblicana nel 1988: oggi Robertson sostiene che Ariel Sharon e in coma per punizione divina (la causa sarebbe il ritiro da Gaza) e ha più volte chiesto ai suoi di pregare per la morte di Hugo Chavez.



Dulcis in fundo, il reverendo McGraw ha lasciato intendere che, come gli altri membri della sua chiesa, anche Sarah Palin avrebbe il dono di «parlare con Dio in una lingua che solo Egli comprende». La glossolalia, ovvero il parlare per fonemi che somigliano a una lingua ma privi di senso compiuto, ha un valore mistico per i pentecostali. Secondo alcuni psichiatri, è indice di schizofrenia. Secondo altri però è uno strumento per sfogare la tensione: pare che Tolkien fosse un grande estimatore di questa tecnica.

Alla ricerca della pillola del giorno dopo "Proibita nella metà degli ospedali"

Alla ricerca della pillola del giorno dopo "Proibita nella metà degli ospedali"

La Repubblica - ed. Roma del 10 settembre 2008, pag. 11

di Marino Bisso

Dal centro alla periferia della capitale, la prescrizione della pillola del giorno dopo viene negata nella metà degli ospedali. E non solo in quelli religiosi. E’ la realtà messa a fuoco da una video-indagine dell'Associazione radicali di Roma: per due mesi, giugno e luglio, una coppia con telecamera nascosta si è recata durante i weekend nei venti pronto soccorso romani e ha richiesto il farmaco. Solo in dieci ospedali ha trovato medici disponibili a prescriverlo. La pillola in questione, Norlevo, (due compresse a distanza di dodici ore una dall'altra) va assunta entro e non oltre le 72 ore successive a un rapporto non protetto, pena la sua perdita di efficacia. «Ma ottenere la prescrizione di notte e nei fine settimana è difficile se non impossibile negli ospedali romani — denuncia Massimiliano Iervolino dell'Associazione Radicali Roma — Eppure la pillola del giorno dopo è una prescrizione d'urgenza, il cui rilascio e dovuto in assenza di qualsivoglia possibilità di diagnosi e come tale i pronto soccorso sono tenuti a prescriverlo assicurando la presenza di medici».



Negli ospedali religiosi i medici sono tutti obiettori e si rifiutano di prescrivere la pillola nonostante non provochi l'aborto ma sia un farmaco per la contraccezione d'emergenza. Succede al Cristo Re, al Fatebenefratelli, alle Figlie di San Camillo, al San Carlo, al San Pietro sulla Cassia e al Santo Spirito. Al policlinico Gemelli un infermiere allarga le braccia e consiglia la coppia in cerca della pillola del giorno dopo a consultare Internet: «Lì potete trovare informazioni e anche il numero di telefono di un medico che fa la prescrizione senza alcun problema».



Ma anche in due ospedali civili, il Cto e l'Aurelia Hospital il farmaco non viene prescritto. Nel primo mancano i moduli per il consenso informato mentre nel secondo pronto soccorso, i medici sono solo obiettori.



Ecco la realtà «fotografata» dalla coppia alla ricerca della pillola del giorno dopo nella loro odissea tra i pronti soccorsi.



E’ il 13 giugno e sono le 23.51 quando la coppia varca l'ingresso del Gemelli per chiedere il farmaco. «Senta ho un problema urgente... Mi servirebbe la prescrizione della pillola del giorno dopo...». La risposta che la donna riceve al pronto soccorso è chiara: «Guardi noi siamo un ospedale cattolico. E siamo tutti obiettori di coscienza e non la prescriviamo». Alle ulteriori richieste di spiegazioni l'operatore spiega: «Francamente mi risulta che anche negli altri ospedali romani c'è questo problema... Qui da noi non la prescrive nessuno, il medico di famiglia la può prescrivere. Ma su Internet si possono trovare informazioni e anche il numero di telefono di qualcuno che te la può prescrivere d'urgenza».



Altro ospedale, questa volta civile: al Cto i medici non sono obiettori ma la pillola non può essere prescritta. E’ l'8 giugno e sono le 1.45 e la donna con la telecamera nascosta ottiene questa risposta: «Deve firmare un modulo e per questo deve andare al Nuovo Regina Margherita...». La giovane chiede spiegazioni: «Ma perché? Qui non si può?». E il medico: «Mancano i moduli per il consenso informato per via degli effetti collaterali». Anche in questo caso niente pillola del giorno dopo.


Quella secolare lotta nella Chiesa tra libertà (sconfitta) e gerarchia

Quella secolare lotta nella Chiesa tra libertà (sconfitta) e gerarchia

Corriere della Sera del 11 settembre 2008, pag. 39

di Sergio Luzzatto

Il potere dei papi, noi italiani del terzo millennio non abbiamo bisogno di cercarlo lontano. È la nostra vita di ogni giorno a farcelo incontrare, con una puntualità che taluni salutano come benvenuta, altri denunciano come insopportabile. Unica istituzione d’Europa capace di perpetuarsi dalla tarda antichità fino ad oggi, il papato risulta tanto presente (o invadente) nell’Italia di oggi da non avere bisogno che un professore universitario straniero - tedesco, al pari dell’ex professor Joseph Ratzinger - venga a dircene l’importanza: come sembrerebbe voler fare Rudolf Lill, storico emerito dell’università di Karlsruhe, con Il potere dei papi pubblicato da Laterza.



Del resto, la forza del papato nel mondo contemporaneo non si manifesta unicamente entro i piccoli confini d’Italia. Almeno dall’aprile del2oo5, quando sui teleschermi del pianeta intero gloriosamente si concluse la straordinaria parabola terrena di un Papa polacco, dovrebbe riuscire chiaro a chiunque che il potere del pontefice di Santa Romana Chiesa trascende di molto i limiti della penisola. In Italia, l’autorità papale ha la singolarità di valere ancora, in qualche modo, come un’autorità politica. Fuori d’Italia, il Papa dispiega urbi et orbi la sua autorità spirituale: un’autorità che è andata facendosi tanto più grande da quando non ha potuto più essere calcolata, con buona pace del maresciallo Stalin, sul numero di divisioni militari agli ordini del successore di Pietro.



Ma appunto, il potere dei papi ha una storia. Non è stato sempre lo stesso dagli albori del Cristianesimo al terzo millennio. E proprio in questa dimensione della storicità - meno ovvia di quanto potrebbe sembrare, nell’epoca di papa Wojtyla e di papa Ratzinger - sta il senso del lavoro di Rudolf Lill: ricordare ai chierici come ai laici che lo strapotere dei pontefici di oggi, all’interno della Chiesa prima ancora che al suo esterno, rappresenta soltanto uno degli esiti possibili di una dinamica che ha visto contrapporsi, per secoli e secoli, un «principio gerarchico» e un «principio democratico». Cioè il decisionismo del trono petrino contro l’autonomismo delle chiese locali; la centralità del Papa contro la responsabilità dei vescovi; l’abuso della nomina dall’alto contro l’uso dell’elezione dal basso; la tentazione autoritaria contro la tradizione conciliare; le prerogative dei sacerdoti contro il sacerdozio dei fedeli.



Per quasi tre secoli dopo il Concilio di Trento, dalla metà del Cinquecento fino all’inizio dell’Ottocento, i papi di Roma non trionfarono mai del tutto nel loro sforzo di fare della Chiesa cattolica qualcosa come un esercito della fede. Fu a partire dalla Restaurazione che i pontefici riuscirono nell’intento, agitando contro il nuovo, onnipresente nemico - la «modernità» - il fantasma ormai uno e bino della Riforma protestante e della Rivoluzione francese. Nacque allora, in Francia, ,una corrente di pensiero cattolico che prese il nome di «ultramontanismo»: per la buona ragione che «di là dai monti», a Roma, si trovava il papa, riconosciuto come fonte suprema di autorità spirituale e temporale.



Vecchia di duecento anni o quasi, l’ideologia oltramontana meriterebbe di andare più nota nel mondo attuale, perché spiega parecchio della Chiesa e del Cattolicesimo di oggi. Oltre all’affermazione del principio di un potere assoluto del papa, il successo ottocentesco dell’ultramontanismo contribuisce a illuminare fenomeni storici altrettanto vari e rilevanti come il boom dei pellegrinaggi di massa verso Roma, la fortuna sempre maggiore delle devozioni mariane, la rinnovata passione per le reliquie di Cristo e dei santi, l’interpretazione via via più ossessiva dell’esperienza cristiana quale militanza antimoderna. Così pure, meriterebbe oggi un’ampia circolazione (l’ultima edizione Bur risale al 1995) il testo più parlante dell’ideologia ultramontana: Il Papa di Joseph de Maistre. Formidabile libro del 1819 dove il conte savoiardo teorizzava con mezzo secolo d’anticipo quanto la Chiesa di Roma avrebbe fissato come dogma sotto Pio IX, e avrebbe mantenuto fermo sino a oggi: il principio dell’infallibilità papale nei pronunciamenti ex cathedra.



Settant’anni fa un grande storico italiano, Adolfo Omodeo, rilesse Il Papa con uno scrupolo di serietà che non escludeva l’esercizio dell’ironia. Secondo Omodeo, il conte de Maistre «imprigionava tutta la vita religiosa in un organo sostanzialmente politico-amministrativo come il papa, alla stessa maniera che Cartesio aveva fantasticato l’anima rinchiusa nella ghiandola pineale». Nell’anno di grazia 1939, Omodeo non riuscì dunque a prevedere quanto un pontefice fresco di elezione, Pio XII, si apprestava a realizzare, sulla scorta dell’accentramento di poteri compiuto dai suoi predecessori: tutt’altro che l’astrusa fantasia cartesiana di una ghiandola pineale, ma l’abile trasformazione di un «organo politico-amministrativo com’era il papa» nella suprema istanza magisteriale di una Chiesa intesa quale «corpo mistico di Cristo».



Il pontefice successivo, Giovanni XXIII, volle temperare gli effetti del centralismo vaticano restituendo ai vescovi, alle chiese locali, alla comunità dei credenti, i mezzi di una pratica della fede che fosse meno gerarchica e più plurale. Non per caso, papa Roncalli si affidò per questo a uno strumento pluralista com’era quello conciliare: indisse il Concilio Vaticano II, che sarebbe toccato a Paolo VI di guidare a compimento. Nell’interpretazione di Rudolf Lill, la scelta di Giovanni XXIII muoveva da una constatazione inquietante:’ quanto più era aumentato nei secoli il potere del papa, tanto più si era ridotta la libertà dentro la Chiesa. I riformisti del Concilio provarono a invertire la tendenza, salvo doversi infine misurare con la «restaurazione» (come Lill la chiama, e non è l’unico) perseguita e realizzata da Giovanni Paolo II.



A riprova delle intenzioni restauratrici di papa Wojtyla, sì può evocare il carattere fortemente curiale e centralistico del Codice di diritto canonico promulgato nel 1983, come pure-la volontà di disciplinamento riconoscibile sia nel testo del giuramento di fedeltà alla Chiesa approvato nell’89, sia nel nuovo Catechismo divulgato nel ‘92. Fu una restaurazione che Giovanni Paolo Il realizzò a quattro mani con il presule da lui elevato ai vertici della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. E fu una restaurazione che il papa polacco tenne a suggellare nell’anno del Giubileo - con un gesto altamente simbolico: la beatificazione di Pio IX, il papa che più di ogni altro aveva sognato di trasformare la Chiesa cattolica in un disciplinatissimo, coeso, gigantesco Esercito della Salvezza.

La Guzzanti sotto inchiesta per la satira su Ratzinger

La Guzzanti sotto inchiesta per la satira su Ratzinger

La Repubblica del 11 settembre 2008, pag. 1

di Curzio Maltese

Per quanto volgare, la satira riesce a esserlo sempre meno del suo bersaglio, il potere. Arriva la notizia che Sabina Guzzanti è indagata dalla Procura di Roma perle frasi sul Papa alla manifestazione di piazza Navona. Non staremo a ripetere quanto poco ci siano piaciute le allusioni di Sabina alla presunta vita sessuale di Joseph Ratzinger.

U n’offesa all’intelligenza dei manifestanti e al talento della Guzzanti. Ma, con tutto questo, che senso ha processare la satira, in democrazia? La satira, diceva il caro Sergio Saviane, è figlia di primo letto della critica. Processare il diritto di satira è sempre stato il primo passo per abolire di fatto il diritto di critica.



La notizia della possibile incriminazione dell’attrice pone anche una questione paradossale. Più o meno questa: per la giustizia italiana l’Italia è meno importante del Vaticano? La procura di Roma ha infatti giustamente archiviato gli insulti rivolti nella stessa occasione da Beppe Grillo al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Non li ha trovati abbastanza volgari. Per di più erano indirizzati «soltanto» alla prima carica istituzionale della repubblica. Altro peso, altra misura, per le parole della Guzzanti sul papa, volgarissime e criminali. Perché? E’ davvero curioso il modo di ragionare di certi magistrati. Diciamo la gran parte dei magistrati, quelli di cui si discute poco o nulla. Quelli che non si mettono in testa l’insana idea di applicare la legge uguale per tutti, ma si limitano ad applicare la costituzione materiale che protegge i potenti e umilia i poveri cristi. Poiché il papa non è per l’appunto un «povero cristo», per luivale una legge speciale. Si può offendere perfino il presi- dente, come ha fatto Grillo, dipingendolo come un don Abbondio pronto ad approvare per pavidità qualsiasi porcheria incostituzionale proposta da don Rodrigo Berlusconi. Questa è satira. Ma se si insinua che il papa possa essere omosessuale, peraltro non (ancora) un reato, allora si finisce sotto processo. In virtù del Concordato, questo catafalco fascista riverniciato da Craxi venticinque anni fa, che garantisce al Papa più rispetto del presidente della repubblica, allo Ior più segretezza delle banche svizzere e alla Chiesa più soldi della «casta».



All’autorizzazione a procedere contro Sabina Guzzanti manca soltanto il benestare del ministro della Giustizia, Alfano. A occhio e croce, la concederà. Il Paese è ormai pronto per i processi alle streghe. Dopo gli avvincenti dibattiti di questi anni sull’unità d’Italia (un errore?), sul fascismo (era male o no?), sulla morte cerebrale (è vera morte?), il ritorno alla Santa Inquisizione era prevedibile. Per il prossimo futuro aspettiamo tutti con ansia che si riapra la questione di Galileo (siamo sicuri che la terra gira intorno al sole?) e sull’anima delle donne, che fu concessa soltanto dal concilio di Magonza e con appena due voti di maggioranza. Nel frattempo possiamo contentarci dell’abolizione di fatto del diritto di satira sulla Chiesa. Non sarà un problema, all’inizio dell’anno scolastico, cancellare dai programmi la Divina Commedia e l’intera opera di Dante, grondante disistima nei confronti delle autorità cattoliche.

"La pillola è un diritto no all'oscurantismo"

"La pillola è un diritto no all'oscurantismo"

La Repubblica - ed. Roma del 11 settembre 2008, pag. 9

di Valentina Monarco

«E’ importante che Alemanno e Aiuti facciano sentire la propria voce sulla questione pil­lola del giorno dopo».


A seguito della video-inchiesta che rivela la difficoltà di ottenere la prescrizione della pillola negli ospedali romani, realizzata e filmata dai Radicali, è Gianluca Quadra­na, capogruppo della lista civica di Roma, ad invocare l'intervento del sindaco e del commissario consiliare ad hoc. «La pillola del giorno dopo — spiega Quadrana — non è abortiva, eppure negli ospe­dali della nostra città viene negata, perché i medici invocano l'obiezione di coscienza». Quadrana riconosce al sinda­co una "certa attenzione al tema", avendo istituito la commissione poi affidata ad Aiuti, ma sottolinea anche che l'inchiesta dei Radicali "richiede un intervento urgente da parte delle autorità politiche e amministrative cittadine per­ché, nel rispetto dell'obiezione di coscienza, non vinca una cultura oscurantista".



Oggi, conferenza stampa dell'associazione Radicali Roma. Il segretario Massimiliano lervolino annuncia: «Mostreremo per intero il video dell'inchiesta».

Caso pillola giorno dopo dvd dei radicali in procura

Caso pillola giorno dopo dvd dei radicali in procura

La Repubblica - ed. Roma del 12 settembre 2008, pag. 9

di Carlo Picozza

Prima il video che documenta il rifiuto di prescrivere la pillola del giorno dopo nella metà degli ospedali romani (anticipato su queste pagine e da Repubblica.it). Ora i radicali consegneranno il dvd alla magistratura «per denunciare i comportamenti illegali di tanti medici che», per Marco Pannella al telefono da Londra, «obiettori di coscienza nel pubblico, si trasformano in non obiettori nei loro studi privati». «Passeremo il filmato anche al presidente della Regione, Piero Marrazzo», annuncia il segretario dell’associazione Radicali Roma, Massimiliano lervolino. «E ogni sei mesi torneremo negli ospedali con la telecamera». Forte dell’indagine-video, un’interrogazione parlamentare è stata presentata da Rita Bernardini.



«L’illegalità» per il tesoriere del partito, Michele De Lucia, «la fa da padrona nel rifiuto di prescrivere la pillola del giorno dopo che è un contraccettivo di emergenza non un farmaco abortivo». Per l’avvocato Alessandro Gerardi, «la magistratura dovrà pronunciarsi sui comportamenti illegittimi dei cosiddetti obiettori». «L’apertura all’Udc per le prossime elezioni regionali ci interessa poco», ancora Iervolino, «a noi preme far finire il calvario delle donne negli ospedali romani durante i weekend». Quindi, «Marrazzo ci inviti o saremo noi ad andare da lui».

Vergassola: Sabina, io ti salverò...

l’Unità 12.9.08
Vergassola: Sabina, io ti salverò...
di Toni Jop

SATIRA Non abbiamo badato a spese e abbiamo assunto per Sabina Guzzanti un principe del foro: il professor Dario Vergassola. Egli ci ha esposto la sua linea difensiva da opporre all’ipotesi di reato: ha offeso il Papa oppure no? Leggete...

L’è un lovo, l’è un fogo, l’è un zogo? (Lupo, fuoco, gioco). Scegliere bene, perché dipende tutto dalla risposta. Quando, rilasciando il diaframma ipercompresso come la libertà da questi tempi grigetti, disse al microfono in piazza Navona che il Papa, una volta defunto, sarebbe stato tormentato da «diavoloni frocioni e attivissimi», Sabina Guzzanti commise un reato oppure no? La notizia, secondo noi che non siamo tecnici del diritto, sta nel fatto che il paese sia messo nelle condizioni di affrontare un interrogativo posto esattamente in questi termini. Ovvio che che un magistrato la sa più lunga di noi, ma certo sarebbe strano che Sabina finisse condannata per questioni e proiezioni satiriche che comunque hanno a che fare con una eventuale aldilà. In Italia accade di tutto, specie adesso. Preoccupati, abbiamo chiesto a persona seria e posata, esperta e mentalmente affidabile di rappresentare e difendere gli interessi di Sabina Guzzanti, un avvocato d’ufficio per lei, forte e fragile insieme, furente e insieme gentile. Voi a chi vi sareste rivolti? Noi al professor dottor Dario Vergassola, impagabile, in tutti i sensi.
Allora, dottor Vergassola, lei crede che ci sia spazio per uscirne con la fedina penale pulita, oppure questa volta ci sporcano Sabina?
«Una cosa per volta, prego. Intanto prendiamo in esame la frase incriminata; dunque, ecco: lei parla di “frocioni attivissimi”...Boh! Espressione senza senso, al fondo, poi vediamo. Ma intanto, occorre qui definire la proiezione spazio-temporale cui la nostra assistita ha fatto ricorso. Dice: dopo la morte. Non voglio giocare d’astuzia, né dribblare la giurisprudenza in materia, tuttavia...».
Tuttavia che?
«Ecco non mi risulta, non ci risulta che qualcuno sia tornato indietro da laggiù per dirci come va o in compagnia di chi se la sta passando, se sia finito all’inferno piuttosto che altrove. Mancando una consuetudine concreta, manca un riferimento almeno plausibile di dove possa finire un Papa, una volta che ci ha dolorosamente lasciati su questa terra...».
La seguo. Ma dove porta il suo ragionamento?
«Vede, se non esiste un campo accertato governato da regole particolari di decoro e decenza unanimemente riconosciuti, così come accade dopo la morte, visto che non ne abbiamo testimonianza, non si può nemmeno sostenere che si commetta un reato attribuendo a un Papa, dopo il decesso, una sorte, una compagnia, piuttosto che un’altra».
Quindi, il reato non sussiste, giusto?
«In linea di principio mi pare evidente. Se avesse detto, Sabina, che dopo morto Papa Ratzinger sarebbe finito in una discoteca, una discoteca infernale. Chi avrebbe potuto smentirlo? Chi avrebbe potuto prendere in esame quella discoteca come motore ipotetico di un reato? Chiediamoci anche perché qualcuno avrebbe potuto intraprendere questa strada sotto il profilo giuridico...».
Lei è un genio, dottore. Ma c’è questa questione legata alla parola “frocioni”. Che ne dice? Qualcuno può non gradire...
«Certamente: la definizione non è solo desueta, ma anche talmente nulla-dicente da risultare un banale relitto di archeologia verbale. Nel caso, tuttavia, la si voglia intendere a ogni costo come “contundente”, è del tutto chiaro che ogni ipotesi di risentimento vada comunque attribuito e riconosciuto a chi, infelicemente ed erroneamente si senta male rappresentato da questa definizione. Quindi non certamente il papa da vivo, men che meno una volta defunto. Quel che accadrà in seguito, come abbiamo visto, non è dato di sapere. L’aldilà non è comunque un salotto e non è regolato dalle norme della buona creanza, neanche dalla moglie di Rutelli, chi ha notizie diverse è pregato di farsi avanti...».
Speriamo bene. Poi, forse, benché la giurisdizione non sia mediamente incline ad attribuirgli un ruolo decisivo nelle ipotesi di reato, esiste un contesto...
«Certo: da una parte e dall’altra. Cioè: sia dalla parte dell’ipotetico atto criminoso, sia dalla parte dello sguardo che sintetizza una ipotesi di reato inclinando la legge in direzione di quella che si definisce la “sensibilità dei tempi correnti”...».
Madonna, che difficile...
«Meno di quel che si pensi. Infatti, si può facilmente osservare come l’attenzione e la credibilità siano tributate oggi maggiormente a ciò che sostengono gli autori satirici piuttosto che a ciò che dicono i rappresentanti della politica. È un fatto oppure no, in questo paese?».
Eccellenza, lei è un vero principe del foro...
«Prenda appunti, invece. È vero o no che si tende oggi in Italia a prendere sul serio ciò che dicono i satirici e per niente quel che dicono i politici?».
Sarà vero, anche. Ma questo cosa comporta?
«Comporta che viene chiesto ai satirici di rispondere seriamente dei loro giochi, mentre non si chiede per nulla ai politici di rispondere delle loro affermazioni, promesse etc. etc...Permetta, devo andare, la salveremo».

martedì 9 settembre 2008

Spagna, cambia la legge sull'aborto. Protesta la Chiesa: «Scelta triste»

Corriere della Sera 6.9.08
Il governo vuol rendere l'interruzione di gravidanza libera fino al 4˚ mese
Spagna, cambia la legge sull'aborto. Protesta la Chiesa: «Scelta triste»
di Mario Porqueddu

Il prefetto per la Dottrina della Fede, cardinal Levada: «L'aborto non è solo una questione politica: tocca le radici dell'uomo»

MADRID — Nel 2006, centomila donne spagnole hanno abortito. I dati del ministero della Salute dicono che nel 96% dei casi l'interruzione di gravidanza è stata motivata da un medico con il «rischio per la salute psichica della madre». In Spagna non è previsto che una donna interrompa la gravidanza perché ha deciso di non mettere al mondo un figlio. Giovedì il governo di Madrid ha annunciato che alla fine del 2009, o al più tardi all'inizio del 2010, entrerà in vigore una nuova legge sull'aborto. Ieri la vicepremier Maria Teresa Fernandez de la Vega ha spiegato che «l'attuale normativa è superata dagli eventi e in parte può risultare ambigua ».
L'aborto in Spagna è entrato nel dibattito pubblico nel 1979, quando undici donne finirono davanti a un giudice a Bilbao per aver interrotto la gravidanza. Furono assolte, il tribunale decise che avevano agito in base a «una necessità sociale». Sei anni più tardi, nel 1985, fu approvata la legge che regola tuttora la materia e depenalizza l'aborto in tre casi: se la gravidanza è frutto di violenza sessuale (con un limite fissato entro 12 settimane), se si individuano «gravi tare fisiche o psichiche» nel nascituro (entro 22 settimane, previo parere di uno specialista) o se c'è un «grave pericolo per la vita o la salute psichica della madre » (senza limiti di tempo, ma dietro parere medico vincolante). Nei fatti, però, capita che il trattamento per chi affronta l'aborto cambi da regione a regione — con casi come quello della Navarra, dove non c'è neanche un medico disposto a praticarlo —, e che si possano giustificare con «rischi psichici» anche interruzioni di gravidanza tardive, fino al sesto o al settimo mese. Cosa che per qualcuno equivale a negare i diritti dei prematuri. La maggioranza degli interventi, infine, avviene in cliniche private.
Il governo socialista di Zapatero vuole cambiare. Il ministro dell'Uguaglianza Bibiana Aìdo ha detto che la nuova legge dovrà incorporare «il meglio del panorama internazionale in materia», e tutelare «diritti fondamentali e sicurezza delle donne e dei medici». L'idea, secondo le indiscrezioni riportate dai principali quotidiani, è di consentire alle donne di abortire senza bisogno di giustificazioni entro le prime 14 o 16 settimane. Mentre interrompere la gravidanza dopo la ventiduesima o ventiquattresima settimana diventerebbe più difficile, a meno di gravi evidenze mediche. È stato formato un comitato di esperti che affiancherà i membri del Parlamento chiamati a elaborare le norme. Ne fanno parte giuristi, ginecologi e tecnici di vari ministeri. «È una squadra di abortisti, vicina ai socialisti» scriveva ieri El Mundo, che ha dato voce alle perplessità del Partito Popolare, pronto a opporsi, e a quelle dei collettivi femministi, rimasti fuori dall'organismo tecnico. Protesta anche la Chiesa. «Sono intristito — ha detto il prefetto della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, cardinale William Levada —. L'aborto non è questione meramente politica, ma anche religiosa, culturale, sociale, tocca le radici dell'essere umano». Il governo ha assicurato che la futura legge «sarà frutto del maggior consenso possibile e di un dibattito completo, ragionevole, senza dogmi o posizioni preconcette. Nel solco della Costituzione ».

Donne e Sharia. La notte dei diritti negati

l’Unità 7.9.08
Donne e Sharia. La notte dei diritti negati
Matrimoni forzati e lapidazioni. Aumentano i delitti d’onore
In Arabia Saudita un milione e mezzo di schiave
di Umberto De Giovannageli

Le drammatiche cifre della condizione femminile nei rapporti di Amnesty e Human Right Watch
Almeno dodicimila i casi di bambine date in spose a uomini dell’età dei loro padri o nonni

LE CIFRE DELL’INFERNO:
1.500.000 sono le donne, in maggioranza asiatiche, ridotte a una condizione di schiavitù in Arabia Saudita. Costrette a orari di lavoro massacranti, sottopagate, spesso violentate, quando «osano» ribellarsi vengono incarcerate e condannate alla fustigazione.
8 sono i paesi islamici in cui l'adulterio da parte della donna è punibile con la pena di morte mediante lapidazione.
12.000 è un calcolo per difetto del numero delle spose bambine costrette a unirsi a uomini che possono essere loro padri o nonni.
12.500 nel solo kurdistan iracheno, è il numero di donne vittime di «delitti d'onore» tra il 1991 e il 2007. Un fenomeno che investe la maggior parte dei Paesi arabi.
In nome della Sharia sono esposte a matrimoni forzati, carcere o pena di morte in caso di stupro. In nome dell'Islam che si fa Legge negano alla donna il diritto di scegliersi il marito e di divorziare; ribadiscono il diritto maschile alla poligamia e al ripudio; sanciscono la disparità in tema di eredità; rifiutano alle donne il diritto alla custodia dei figli in caso di divorzio. In nome di una visione sessuofobia e asfissiante dell'Islam, spesso subordinano la libertà di movimento della donna e il suo accesso al lavoro salariato all'autorizzazione del marito o del padre. Infine si occupano, invadendola, della vita sessuale delle donne, e in alcuni Stati (8) dove vige la «dittatura della Sharia», i rapporti fuori dal matrimonio sono puniti con la pena di morte mediante lapidazione. È la condizione della donna nel mondo islamico. Disperante. Disperata. Una realtà contro la quale donne coraggiose, in Iraq, Egitto, Giordania, Iran, si sono ribellate rivendicando una via di uscita nel principio della separazione tra religione e diritti civili. Un esercito di schiave - oltre 1 milione e mezzo - in Arabia Saudita. I delitti «d'onore» aumentati del 27% rispetto al 2007; la crescita considerevole, calcolabile in decine di migliaia di casi, dell'utilizzo della Sharia (la legge islamica) per legittimare che una ragazza possa essere chiesta in sposa dal momento della prima mestruazione. Sono dati che l'Unità ha estrapolato da recenti, e dettagliati rapporti delle più importanti organizzazioni umanitarie, da Human Right Watch (HRW) ad Amnesty International.
Nei Paesi in cui vige la legge islamica, le spose bambine sono una realtà diffusa. Una realtà che si vorrebbe oscurare da parte dei regimi teocratici ma che, nonostante la censura imposta agli organi di informazione, prende corpo attraverso coraggiosi e coraggiose blogger. Ebbene, in un conto in difetto, sono almeno dodicimila i casi di donne bambine date in spose a uomini che potevano essere i loro padri o i loro nonni. Violentate e sfruttate. Emblematico, e agghiacciante, è il racconto che Khadija al Salami, una giovane yemenita data in sposa a undici anni, fa nel suo libro «The Tears of Sheba». Khadija narra la «prova» che dovette subire, a 11 anni, per dimostrare la sua verginità: «Ahmed (il marito imposto, di quarant'anni più vecchio, ndr.) mi balzò addosso come un gatto. Facendo scivolare la mano tra le mie gambe, si spinse nella mia vagina con le dita, poi si ritrasse. Il sangue che aveva sulla punta della dita sembrò soddisfarlo, lo strofinò su un fazzoletto bianco che aveva in tasca. Se ne andò lasciandomi urlante sul letto». Spesso costrette a lavorare per quattordici ore di fila, sette giorni su sette, per poi vedersi rifiutato il salario e, se protestano, incarcerate e condannate a sessanta-settanta frustrate prima di essere rispedite nei Paesi di origine: è ciò che avviene in Arabia Saudita: nel suo ultimo rapporto, HRW ha documentato venticinque casi di donne, in maggior parte filippine, chiamate in Arabia Saudita per svolgere lavori domestici, e dentro le mura domestiche vessate, picchiate, in dodici dei venticinque casi documentati, violentate. Dove la Sharia è Legge di Stato, la donna è, sul piano dei diritti, una paria. Se vuole divorziare, la donna deve recarsi in tribunale e dimostrare che il marito non provvede alle sue esigenze materiali, che non è fertile e che è impotente. Una volta sancito il divorzio, la custodia dei bambini viene assegnata automaticamente al padre (per i figli maschi di almeno 7 anni e per le figlie femmine già nel periodo mestruale). Per quanto riguarda le eredità, la Sharia prevede che la moglie riceva solo una piccola parte della proprietà del marito e che le figlie femmine ricevano la metà di quanto spetta ai fratelli maschi. Il ripudio continua ad essere un diritto esclusivo del marito e rappresenta anche la causa principale di divorzio in Marocco, Algeria, Iran, Yemen, Arabia Saudita. Un'altra piaga diffusa e scioccante è quella dei «delitti d'onore». Per dar conto della dimensione di questo fenomeno, basta un dato che riguarda il solo Kurdistan iracheno: dal 1991 al 2007, 12.500 donne sono state assassinate per motivi di «onore» o si sono suicidate nelle tre province curde, 435 nei primi sei mesi del 2008. La maggior parte di quei delitti è rimasta impunita. Storie di «ordinaria criminalità» nei confronti di donne nelle società islamiche: storie di atrocità rimaste impunite. Come quello, riportato dal sito on-line della tv saudita al Arabiya, consumato nei giorni scorsi in Pakistan: «Cinque donne sono state sepolte vive dagli abitanti di un villaggio sperduto nella frazione di Jaafarabad nella provincia di Belugistan» a sud ovest del Paese asiatico. Secondo quanto scrive il sito web dell'emittente araba, che riporta la denuncia del deputato pachistano Sardar Asrarallah «le donne accusate di avere leso all'onorabilità della tribù erano: tre adolescenti tra le 16 e 18 anni che sfidando le tradizioni vigenti avevano espresso il desiderio di scegliere liberamente il compagno della loro vita». Due «signore che avevano osato di difendere le tre ragazze - scrive al Arabiya - sono state sepolte assieme alle altre, mentre erano ancora in vita». Il deputato, portando all'attenzione del Parlamento di Islamabad, ha denunciato che «nessun arresto è stato effettuato dalla polizia locale».

Eutanasia e aborto: Zapatero accelera, la Chiesa attacca

l’Unità 8.9.08
Eutanasia e aborto: Zapatero accelera, la Chiesa attacca
Sui due spinosi dossier istituiti comitati di saggi per mettere a punto le riforme. Il premier aumenta del 6% le pensioni minime
di Toni Fontana

A due mesi esatti dal 37° congresso del Psoe e due giorni da un importante appuntamento in Parlamento, Zapatero rilancia sui temi della laicità e apre un nuovo terreno di confronto con le gerarchie ecclesiastiche, sempre più allarmate. Nei giorni scorsi la più giovane delle ministre del governo di Madrid, l’andalusa Bibiana Aìdo, responsabile per l’Uguaglianza, aveva annunciato la costituzione di un comitato di saggi incaricato di individuare i criteri ai quali si ispirerà la nuova legge sull’aborto che l’esecutivo intende approvare e fare entrare in vigore «entro la fine del 2009». Ieri è sceso un campo il titolare del dicastero della Sanità, Bernat Soria che, in un’intervista a El Paìs, ha fatto sapere che la riflessione sull’eutanasia «è già aperta, ma ci vorrà tempo».
Anche in questo caso, come per l’aborto, i ministri di Zapatero non sembrano pressati dalla fretta e anche i dicasteri della Sanità e della Giustizia hanno riunito «un’équipe di esperti» incaricati di lavorare senza clamori e di riferire «in modo confidenziale». L’introduzione dell’eutanasia non è questione di settimane; il ministro ha spiegato che potrebbe avvenire «entro il 2012». Le due iniziative era attese. Il congresso del Psoe, che si è tenuto ai primi di luglio, aveva sancito una nuova svolta «izquierdista» di Zapatero e del gruppo dirigente. Aborto, eutanasia, rimozione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici erano stati i tempi maggiormente trattati nell’assise e quelli che avevano attirato l’attenzione dei delegati. La svolta non aveva tuttavia convinto tutti anche tra coloro che sostengono il nuovo corso di Zapatero. La destra ha accusato il leader di puntare sulla laicità per far dimenticare le crescenti difficoltà economiche ed anche un quotidiano attento alle ragioni dei socialisti come El Paìs non ha lesinato le critiche al premier, incerto nella risposta alla crisi economica e contraddittorio sui temi della laicità (il programma del Psoe alle recenti elezioni non menzionava la questione dell’aborto). Tutti comunque, anche gli irritatissimi vescovi, concordano sul fatto che - come ha detto la vice di Zapatero, Maria Teresa Fernandez de la Vega - «l’attuale normativa è superata dagli eventi e in parte può risultare ambigua». Le ricette per superarla ovviamente divergono, ma anche i vescovi che si schierano, manco a dirlo, per una legislazione più restrittiva, pur attaccando Zapatero chiedono «il dialogo». L’attuale legislazione restringe l’interruzione della gravidanza a tre casi: stupro (12 settimane), «gravi tare psichiche o fisiche del nascituro» (22 settimane con parere del medico) e «grave pericolo per la vita e la salute psichica della madre» (senza limiti, ma con parere vincolante del medico). La maggior parte (oltre il 90%) degli aborti che avvengono in Spagna viene giustificato con la terza possibilità offerta dalla legge. Ciò ha scatenato le ire dei conservatori e ispirato alcune inchieste della magistratura che hanno visto molte donne sul banco degli accusati. Anche la legislazione sull’eutanasia è restrittiva. Attualmente le leggi spagnole riconoscono ai malati il diritto di rifiutare le cure, ma puniscono chi aiuta qualcuno a porre fine ai suoi giorni.
In un caso e nell’altro, cioè su aborto ed eutanasia, la Spagna di Zapatero avvia il dibattito, ma prevede tempi lunghi o comunque non brevi per individuare una soluzione. La stampa, con toni diversi a seconda degli orientamenti, rilancia il sospetto che il leader stia cercando di «depistare» il dibattito politico. Il leader però non si scompone. Mercoledì Zapatero parlerà dei temi economici al Congresso dove gli avversari lo stanno aspettando per attaccarlo. Ieri Zapatero ha rivendicato con orgoglio il lavoro fatto dal suo governo «di fronte alle difficoltà economiche» ed ha annunciato che entro il 2009 le pensioni minime saranno aumentate del 6% (del 25% entro il 2012). Zapatero ha soprattutto ribadito che, anche in presenza di una situazione economica sempre più preoccupante, il suo governo «continuerà a portare avanti politiche progressiste». In tal modo ha anche rimproverato il suo ministro del Lavoro Celestino Corbacho che aveva adombrato uno stop alla contrattazione con i paesi di origine degli immigrati per definire le quote. Corbacho, esponente dell’ala moderata del Psoe e membro della delegazione catalana nel governo, era già stato smentito dalla de la Vega e ieri, indirettamente, da Zapatero.