sabato 13 settembre 2008

Quella secolare lotta nella Chiesa tra libertà (sconfitta) e gerarchia

Quella secolare lotta nella Chiesa tra libertà (sconfitta) e gerarchia

Corriere della Sera del 11 settembre 2008, pag. 39

di Sergio Luzzatto

Il potere dei papi, noi italiani del terzo millennio non abbiamo bisogno di cercarlo lontano. È la nostra vita di ogni giorno a farcelo incontrare, con una puntualità che taluni salutano come benvenuta, altri denunciano come insopportabile. Unica istituzione d’Europa capace di perpetuarsi dalla tarda antichità fino ad oggi, il papato risulta tanto presente (o invadente) nell’Italia di oggi da non avere bisogno che un professore universitario straniero - tedesco, al pari dell’ex professor Joseph Ratzinger - venga a dircene l’importanza: come sembrerebbe voler fare Rudolf Lill, storico emerito dell’università di Karlsruhe, con Il potere dei papi pubblicato da Laterza.



Del resto, la forza del papato nel mondo contemporaneo non si manifesta unicamente entro i piccoli confini d’Italia. Almeno dall’aprile del2oo5, quando sui teleschermi del pianeta intero gloriosamente si concluse la straordinaria parabola terrena di un Papa polacco, dovrebbe riuscire chiaro a chiunque che il potere del pontefice di Santa Romana Chiesa trascende di molto i limiti della penisola. In Italia, l’autorità papale ha la singolarità di valere ancora, in qualche modo, come un’autorità politica. Fuori d’Italia, il Papa dispiega urbi et orbi la sua autorità spirituale: un’autorità che è andata facendosi tanto più grande da quando non ha potuto più essere calcolata, con buona pace del maresciallo Stalin, sul numero di divisioni militari agli ordini del successore di Pietro.



Ma appunto, il potere dei papi ha una storia. Non è stato sempre lo stesso dagli albori del Cristianesimo al terzo millennio. E proprio in questa dimensione della storicità - meno ovvia di quanto potrebbe sembrare, nell’epoca di papa Wojtyla e di papa Ratzinger - sta il senso del lavoro di Rudolf Lill: ricordare ai chierici come ai laici che lo strapotere dei pontefici di oggi, all’interno della Chiesa prima ancora che al suo esterno, rappresenta soltanto uno degli esiti possibili di una dinamica che ha visto contrapporsi, per secoli e secoli, un «principio gerarchico» e un «principio democratico». Cioè il decisionismo del trono petrino contro l’autonomismo delle chiese locali; la centralità del Papa contro la responsabilità dei vescovi; l’abuso della nomina dall’alto contro l’uso dell’elezione dal basso; la tentazione autoritaria contro la tradizione conciliare; le prerogative dei sacerdoti contro il sacerdozio dei fedeli.



Per quasi tre secoli dopo il Concilio di Trento, dalla metà del Cinquecento fino all’inizio dell’Ottocento, i papi di Roma non trionfarono mai del tutto nel loro sforzo di fare della Chiesa cattolica qualcosa come un esercito della fede. Fu a partire dalla Restaurazione che i pontefici riuscirono nell’intento, agitando contro il nuovo, onnipresente nemico - la «modernità» - il fantasma ormai uno e bino della Riforma protestante e della Rivoluzione francese. Nacque allora, in Francia, ,una corrente di pensiero cattolico che prese il nome di «ultramontanismo»: per la buona ragione che «di là dai monti», a Roma, si trovava il papa, riconosciuto come fonte suprema di autorità spirituale e temporale.



Vecchia di duecento anni o quasi, l’ideologia oltramontana meriterebbe di andare più nota nel mondo attuale, perché spiega parecchio della Chiesa e del Cattolicesimo di oggi. Oltre all’affermazione del principio di un potere assoluto del papa, il successo ottocentesco dell’ultramontanismo contribuisce a illuminare fenomeni storici altrettanto vari e rilevanti come il boom dei pellegrinaggi di massa verso Roma, la fortuna sempre maggiore delle devozioni mariane, la rinnovata passione per le reliquie di Cristo e dei santi, l’interpretazione via via più ossessiva dell’esperienza cristiana quale militanza antimoderna. Così pure, meriterebbe oggi un’ampia circolazione (l’ultima edizione Bur risale al 1995) il testo più parlante dell’ideologia ultramontana: Il Papa di Joseph de Maistre. Formidabile libro del 1819 dove il conte savoiardo teorizzava con mezzo secolo d’anticipo quanto la Chiesa di Roma avrebbe fissato come dogma sotto Pio IX, e avrebbe mantenuto fermo sino a oggi: il principio dell’infallibilità papale nei pronunciamenti ex cathedra.



Settant’anni fa un grande storico italiano, Adolfo Omodeo, rilesse Il Papa con uno scrupolo di serietà che non escludeva l’esercizio dell’ironia. Secondo Omodeo, il conte de Maistre «imprigionava tutta la vita religiosa in un organo sostanzialmente politico-amministrativo come il papa, alla stessa maniera che Cartesio aveva fantasticato l’anima rinchiusa nella ghiandola pineale». Nell’anno di grazia 1939, Omodeo non riuscì dunque a prevedere quanto un pontefice fresco di elezione, Pio XII, si apprestava a realizzare, sulla scorta dell’accentramento di poteri compiuto dai suoi predecessori: tutt’altro che l’astrusa fantasia cartesiana di una ghiandola pineale, ma l’abile trasformazione di un «organo politico-amministrativo com’era il papa» nella suprema istanza magisteriale di una Chiesa intesa quale «corpo mistico di Cristo».



Il pontefice successivo, Giovanni XXIII, volle temperare gli effetti del centralismo vaticano restituendo ai vescovi, alle chiese locali, alla comunità dei credenti, i mezzi di una pratica della fede che fosse meno gerarchica e più plurale. Non per caso, papa Roncalli si affidò per questo a uno strumento pluralista com’era quello conciliare: indisse il Concilio Vaticano II, che sarebbe toccato a Paolo VI di guidare a compimento. Nell’interpretazione di Rudolf Lill, la scelta di Giovanni XXIII muoveva da una constatazione inquietante:’ quanto più era aumentato nei secoli il potere del papa, tanto più si era ridotta la libertà dentro la Chiesa. I riformisti del Concilio provarono a invertire la tendenza, salvo doversi infine misurare con la «restaurazione» (come Lill la chiama, e non è l’unico) perseguita e realizzata da Giovanni Paolo II.



A riprova delle intenzioni restauratrici di papa Wojtyla, sì può evocare il carattere fortemente curiale e centralistico del Codice di diritto canonico promulgato nel 1983, come pure-la volontà di disciplinamento riconoscibile sia nel testo del giuramento di fedeltà alla Chiesa approvato nell’89, sia nel nuovo Catechismo divulgato nel ‘92. Fu una restaurazione che Giovanni Paolo Il realizzò a quattro mani con il presule da lui elevato ai vertici della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. E fu una restaurazione che il papa polacco tenne a suggellare nell’anno del Giubileo - con un gesto altamente simbolico: la beatificazione di Pio IX, il papa che più di ogni altro aveva sognato di trasformare la Chiesa cattolica in un disciplinatissimo, coeso, gigantesco Esercito della Salvezza.