La vertigine narcisistica della Binetti e la sua presunta superiorità morale
Il Riformista del 27 febbraio 2008, pag. 2
di Luigi Manconi
Dico sul serio. La senatrice Paola Binetti mi è assai simpatica: nonostante i suoi molti tratti spigolosi e irritanti (o forse, proprio in ragione di essi). In una epoca di "passioni tristi", la determinazione ardente con cui afferma le proprie idee appare - almeno a me - come il segno di una personalità apprezzabile. Quando, poi, quella determinazione si traduce in azione pubblica, il giudizio fatalmente deve cambiare. Tanto per il gusto di rubarle il mestiere, devo dire che le ultime affermazioni della senatrice, risultano espressione di una sorta di vertigine narcisistica: il suo trascorrere spericolatamente dall'Io dell'assunzione di responsabilità al plurale majestatis di una complessiva rappresentanza teologico-dottrinaria dell'identità cattolica sembra segnalare il punto estremo di un processo di enfatizzazione della propria autostima. Un processo che la induce ad atteggiamenti autoritativi, tutti giocati sulla declamazione di obblighi e veti («il Pd deve...», «Veltroni dica...», «Vogliamo risposte chiare...», «Non possiamo consentire...», «Vigileremo...», «Non permetterò...»).
Quanto più questo atteggiamento diventa stile di identità pubblica tanto più perde proprio in stile: è di appena alcuni giorni fa l'accostamento dei radicali a una "metastasi". Sì, proprio così: metastasi. Il giudizio lascia perlomeno perplessi. Un membro dell'Opus Dei che parla come nemmeno Maurizio Gasparri segnala, inequivocabilmente, i guasti che l'esposizione eccessiva al sistema dei media può determinare. Ma in quella valutazione di Paola Binetti c'è dell'altro; e questo spiega perché è giusto partire da lì per considerare, tra l'altro, il senso dell'iniziativa pubblica tenutasi a Roma, sabato scorso, sul tema del rapporto tra laicità e politica, promossa da Barbara Pollastrini, Gianni Cuperlo e Albertina Soliani. Per afferrarlo quel senso, la metterei così: io voglio che Binetti stia nel Partito democratico (magari con qualche moderazione nei toni), ma a partire da una accertata e regolata parità di ruolo e di possibilità di espressione con chi non è Paola Binetti. Perché ciò sia possibile non Binetti (l'errante), ma la sua presunzione di superiorità morale (l'errore) va criticata radicalmente. Perché qui sta il nodo, che quel termine "metastasi" impietosamente rivela: Paola Binetti e, insieme a lei, una parte significativa del cattolicesimo italiano e, con essa, la maggioranza delle gerar-chie e delle istituzioni ecclesiastiche ritengono di avere la titolarità, piena e incondizionata - e ascritta - della questione morale. In altri termini, nel corso dell'ultimo mezzo secolo mentre la chiesa cattolica perdeva egemonia sul piano degli indirizzi in materia di stili di vita e forme di relazione, acquisiva una sorta di complessiva "riserva morale". Meno contava nel determinare i comportamenti individuali e collettivi e più rivendicava la titolarità esclusiva del giudizio etico, a prescindere dall'influenza diretta e concreta che quel giudizio esercitava nella vita sociale. Ciò risultava agevolato dal fatto che la cultura di ispirazione non religiosa rinunciava completamente - e rovinosamente - non solo a competere con "" quella titolarità esclusiva, ma anche solo al tentativo di elaborare un£ propria e distinta capacità di orientamento etico. Si è realizzata così una sorta di divisione dei compiti: da una parte, la cultura non religiosa tutta concentrata sull'intervento sociale, e ridotta a una sorta di patronato sindacale e di associazione dei consumatori di diritti; dall'altra la cultura religiosa come fonte di ispirazione morale e principio ordinatore delle grandi questioni esistenziali (dette "di vita e di morte"). È accaduto così che la cultura non religiosa si riducesse, e venisse ridotta, a economicismo e contrattualismo, mentre quella religiosa veniva assunta come unica "anima" del legame sociale. Ciò finiva con l'assegnare a quest'ultima, inevitabilmente, uno statuto di superiorità. Si considerino alcuni esempi significativi di questa iniqua divisione dei compiti. La grande questione delle famiglie diverse da quella eterosessuale monogamica diventa - nella caricatura che si fa dell'impostazione laica - o semplice questione di pertinenza dell'Inps o macchietta del "matrimonio gay" (come in un remake dell'indimenticabile "culo e camicia" di Pasquale Festa Campanile, con Renato Pozzetto ed Enrico Montesano, 1981). E, invece, la stessa questione, se trattata dalla cultura cattolica, diventa come per miracolo (è il caso di dire), ragionamento alto e nobile sulla coniugalità, il suo fondamento naturale, le sue radici e le sue mete. In altri termini: da una parte l'opzione laica col suo corredo di diritti e doveri, di garanzie da dare e di previdenze da assicurare, di bisogni sociali da soddisfare e di tutele da salvaguardare. Dall'altra parte, l'opzione cattolica tutta concentrata sul tema dell'amore coniugale e della genitorialità, della procreazione, della famiglia quale cellula essenziale della organizzazione sociale. Analogamente, a proposito di interruzione volontaria della gravidanza: per un verso, la cultura laica che si propone in un ruolo di assistente volontario, personale sanitario e operatore di consultorio familiare; per altro verso, il "discorso cattolico" sul concepimento, sull'embrione e sulla sacralità della vita. Messa in questi termini, va da sé, non c'è partita. Insomma, nella sfera pubblica, ma anche nella vita quotidiana è come se emergesse una, e una sola, morale: quella di ispirazione religiosa e di impianto confessionale; quasi che non vi fosse - o comunque non fosse cercato, tentato, sperimentato - un altro sistema di valori, basato su una concezione morale, di derivazione non religiosa; quasi che sull'aborto o sulle unioni civili, sulle questioni "di vita e di morte" non possa esservi una opzione etica altrettanto robusta, non intollerante e non integralista, riferita a una idea del mondo e delle relazioni tra i viventi, eticamente fondata. Quasi che, infine, nel caso delle unioni civili - ed è solo un esempio - l'intenzionalità di un progetto di vita, la reciprocità e la mutualità, i valori condivisi non potessero costituire un fondamento morale altrettanto solido quanto quello che motiva il matrimonio. E, invece, è del tutto evidente che, se quelle stesse unioni civili venissero argomentate solo ed esclusivamente in base a motivazioni (sacrosante, sia chiaro) di natura previdenziale o economica, il confronto pubblico sul tema risulterebbe palesemente diseguale. E l'esito di quel confronto sarebbe scontato.
Il Riformista del 27 febbraio 2008, pag. 2
di Luigi Manconi
Dico sul serio. La senatrice Paola Binetti mi è assai simpatica: nonostante i suoi molti tratti spigolosi e irritanti (o forse, proprio in ragione di essi). In una epoca di "passioni tristi", la determinazione ardente con cui afferma le proprie idee appare - almeno a me - come il segno di una personalità apprezzabile. Quando, poi, quella determinazione si traduce in azione pubblica, il giudizio fatalmente deve cambiare. Tanto per il gusto di rubarle il mestiere, devo dire che le ultime affermazioni della senatrice, risultano espressione di una sorta di vertigine narcisistica: il suo trascorrere spericolatamente dall'Io dell'assunzione di responsabilità al plurale majestatis di una complessiva rappresentanza teologico-dottrinaria dell'identità cattolica sembra segnalare il punto estremo di un processo di enfatizzazione della propria autostima. Un processo che la induce ad atteggiamenti autoritativi, tutti giocati sulla declamazione di obblighi e veti («il Pd deve...», «Veltroni dica...», «Vogliamo risposte chiare...», «Non possiamo consentire...», «Vigileremo...», «Non permetterò...»).
Quanto più questo atteggiamento diventa stile di identità pubblica tanto più perde proprio in stile: è di appena alcuni giorni fa l'accostamento dei radicali a una "metastasi". Sì, proprio così: metastasi. Il giudizio lascia perlomeno perplessi. Un membro dell'Opus Dei che parla come nemmeno Maurizio Gasparri segnala, inequivocabilmente, i guasti che l'esposizione eccessiva al sistema dei media può determinare. Ma in quella valutazione di Paola Binetti c'è dell'altro; e questo spiega perché è giusto partire da lì per considerare, tra l'altro, il senso dell'iniziativa pubblica tenutasi a Roma, sabato scorso, sul tema del rapporto tra laicità e politica, promossa da Barbara Pollastrini, Gianni Cuperlo e Albertina Soliani. Per afferrarlo quel senso, la metterei così: io voglio che Binetti stia nel Partito democratico (magari con qualche moderazione nei toni), ma a partire da una accertata e regolata parità di ruolo e di possibilità di espressione con chi non è Paola Binetti. Perché ciò sia possibile non Binetti (l'errante), ma la sua presunzione di superiorità morale (l'errore) va criticata radicalmente. Perché qui sta il nodo, che quel termine "metastasi" impietosamente rivela: Paola Binetti e, insieme a lei, una parte significativa del cattolicesimo italiano e, con essa, la maggioranza delle gerar-chie e delle istituzioni ecclesiastiche ritengono di avere la titolarità, piena e incondizionata - e ascritta - della questione morale. In altri termini, nel corso dell'ultimo mezzo secolo mentre la chiesa cattolica perdeva egemonia sul piano degli indirizzi in materia di stili di vita e forme di relazione, acquisiva una sorta di complessiva "riserva morale". Meno contava nel determinare i comportamenti individuali e collettivi e più rivendicava la titolarità esclusiva del giudizio etico, a prescindere dall'influenza diretta e concreta che quel giudizio esercitava nella vita sociale. Ciò risultava agevolato dal fatto che la cultura di ispirazione non religiosa rinunciava completamente - e rovinosamente - non solo a competere con "" quella titolarità esclusiva, ma anche solo al tentativo di elaborare un£ propria e distinta capacità di orientamento etico. Si è realizzata così una sorta di divisione dei compiti: da una parte, la cultura non religiosa tutta concentrata sull'intervento sociale, e ridotta a una sorta di patronato sindacale e di associazione dei consumatori di diritti; dall'altra la cultura religiosa come fonte di ispirazione morale e principio ordinatore delle grandi questioni esistenziali (dette "di vita e di morte"). È accaduto così che la cultura non religiosa si riducesse, e venisse ridotta, a economicismo e contrattualismo, mentre quella religiosa veniva assunta come unica "anima" del legame sociale. Ciò finiva con l'assegnare a quest'ultima, inevitabilmente, uno statuto di superiorità. Si considerino alcuni esempi significativi di questa iniqua divisione dei compiti. La grande questione delle famiglie diverse da quella eterosessuale monogamica diventa - nella caricatura che si fa dell'impostazione laica - o semplice questione di pertinenza dell'Inps o macchietta del "matrimonio gay" (come in un remake dell'indimenticabile "culo e camicia" di Pasquale Festa Campanile, con Renato Pozzetto ed Enrico Montesano, 1981). E, invece, la stessa questione, se trattata dalla cultura cattolica, diventa come per miracolo (è il caso di dire), ragionamento alto e nobile sulla coniugalità, il suo fondamento naturale, le sue radici e le sue mete. In altri termini: da una parte l'opzione laica col suo corredo di diritti e doveri, di garanzie da dare e di previdenze da assicurare, di bisogni sociali da soddisfare e di tutele da salvaguardare. Dall'altra parte, l'opzione cattolica tutta concentrata sul tema dell'amore coniugale e della genitorialità, della procreazione, della famiglia quale cellula essenziale della organizzazione sociale. Analogamente, a proposito di interruzione volontaria della gravidanza: per un verso, la cultura laica che si propone in un ruolo di assistente volontario, personale sanitario e operatore di consultorio familiare; per altro verso, il "discorso cattolico" sul concepimento, sull'embrione e sulla sacralità della vita. Messa in questi termini, va da sé, non c'è partita. Insomma, nella sfera pubblica, ma anche nella vita quotidiana è come se emergesse una, e una sola, morale: quella di ispirazione religiosa e di impianto confessionale; quasi che non vi fosse - o comunque non fosse cercato, tentato, sperimentato - un altro sistema di valori, basato su una concezione morale, di derivazione non religiosa; quasi che sull'aborto o sulle unioni civili, sulle questioni "di vita e di morte" non possa esservi una opzione etica altrettanto robusta, non intollerante e non integralista, riferita a una idea del mondo e delle relazioni tra i viventi, eticamente fondata. Quasi che, infine, nel caso delle unioni civili - ed è solo un esempio - l'intenzionalità di un progetto di vita, la reciprocità e la mutualità, i valori condivisi non potessero costituire un fondamento morale altrettanto solido quanto quello che motiva il matrimonio. E, invece, è del tutto evidente che, se quelle stesse unioni civili venissero argomentate solo ed esclusivamente in base a motivazioni (sacrosante, sia chiaro) di natura previdenziale o economica, il confronto pubblico sul tema risulterebbe palesemente diseguale. E l'esito di quel confronto sarebbe scontato.