giovedì 7 febbraio 2008

Gli smemorati dell’embrione: La favola dei tre genitori

l’Unità 7.2.08
Gli smemorati dell’embrione: La favola dei tre genitori
di Luca Landò

L’embrione fa male alla memoria. Solo così, forse, si può spiegare lo sdegno che ieri è stato generosamente versato intorno all’annuncio che in Inghilterra sarebbero stati creati «embrioni con tre genitori». Notizia nuova solo a metà, ma che ieri è stata accolta con titoli e commenti come «choc» (l’Avvenire), «un altro passo verso Frankenstein» (il Giornale), la «costruzione dell’uomo artificiale» (Luca Volontè), una «ammucchiata in provetta» (Bruno Dallapiccola) e una «aberrazione mentale» (Paola Binetti). Per concludere che «La scienza fa a pezzi l’uomo» (Libero).
Curiosamente nessuno (tranne questo giornale) si è curato di premettere, nel dare la notizia,che la novità riguarda la tecnica impiegata, non il risultato. E che oggi nel mondo vi sono già persone che, secondo le parole usate ieri, vivono con il «Dna di tre genitori». Alcuni giornali lo hanno ricordato, è vero, ma hanno relegato questo aspetto tutt’altro che secondario nelle ultime righe. Mentre la maggior parte dei media, a cominciare dai telegiornali della sera prima, lo hanno bellamente trascurato: una dimenticanza grave, che ha permesso di trasformare una notizia scientifica in un mostro da prima pagina.
Si è così ripetuto quello che avvenne oltre sette anni fa, quando si parlò per la prima volta di bambini (non embrioni!) con tre Dna. E che l’Unità raccontò il 7 maggio 2001 con un articolo dal titolo: «Il mitocondrio della discordia».
Di cosa si trattava? Di una scoperta casuale, come capita spesso nella scienza, raccontata allora dal professor Jacques Cohen dell’Istituto di medicina riproduttiva di Saint Barnabas nel New Jersey. Obiettivo del professore non era stupire i giornali e sconvolgere la bioetica, ma aiutare le coppie che non riuscivano ad avere figli. Nelle quali, a volte, la ragione del mancato successo è una specie di «stanchezza» della cellula uovo, un fattore probabilmente legato all’età della donna. Il professore scoprì che era possibile «rivitalizzare» la cellula uovo e consentire una normale maternità. L’idea era semplice: per rinforzare la cellula debole si prende il citoplasma di una cellula normale donato da una terza persona e lo si inietta nella prima. Questa «trasfusione rivitalizzante», stando al professore, avrebbe portato alla luce una trentina di bambini nel mondo, tra cui anche il giovane Alessandro, nato a Torino nel marzo 1999.
Fin qui nulla di strano, verrebbe da dire. Il fatto è che oltre al citoplasma, nella cellula da rivitalizzare possono finire anche i mitocondri della donatrice, minuscole strutture che si trovano proprio in quella sostanza, il citoplasma appunto, che circonda il nucleo e che forma la maggior parte della massa cellulare. Secondo quanto disse Cohen nel 2001, dei trenta bambini nati con la tecnica «rivitalizzante», almeno due avrebbero ricevuto mitocondri non dalla madre (i mitocondri si ricevono solo per via materna) ma da un’altra donna. E non è da escludere che la lista delle persone con «tre Dna» si sia nel frattempo allungata, dato che la stessa tecnica viene tuttora usata in diversi altri Paesi.
Il punto è che i mitocondri (microscopiche centraline elettriche della cellula) hanno una particolarità: sono le uniche strutture, oltre al nucleo, a contenere quella preziosa molecola chiamata Dna. In minima parte, certo, ma sufficiente per consentire ai più maliziosi di affermare che nelle cellule di questi bambini - che i media, sette anni fa, definirono gentilmente «bambini ogm» - ci sono geni diversi da quelli di mamma e papà.
Questo, sette anni fa. La novità annunciata l’altro giorno riguarda invece la tecnica utilizzata. Che nasce da un’esigenza diversa: non tanto permettere a una famiglia di avere dei bambini, quanto evitare la comparsa nel figlio di alcune gravi malattie ereditarie. Anche se i geni dei mitocondri sono pochi (16.000 unità genetiche rispetto ai tre miliardi dell’intero genoma umano) vi sono una cinquantina di patologie dovute proprio a difetti presenti nei geni mitocondriali: alcune forme di epilessia, di distrofia, patologie del fegato, ma anche cecità, diabete e sordità. Alcune sono disabilitanti, altre possono essere mortali.
Per tale motivo i ricercatori dell’Università del Newcastle hanno provato a fare volutamente quello che il professor Cohen aveva fatto casualmente: consentire che accanto al nucleo con il Dna ereditato da madre e padre, ci fossero mitocondri sani ottenuti da una donatrice. Per farlo hanno utilizzato una tecnica totalmente diversa: hanno prelevato il nucleo (ma non i mitocondri «malati») dalla cellula derivata dal padre e dalla madre e lo hanno inserito nell’ovulo di una donatrice privato a sua volta del nucleo (ma non dei mitocondri «sani»). Il risultato sono stati dieci embrioni sopravvissuti per sei giorni.
L’annuncio, è bene dirlo, non è arrivato da una pubblicazione scientifica (che dovrebbe giungere a breve, promettono i ricercatori) ma da una indiscrezione della stampa inglese, secondo un’abitudine che sarebbe meglio abbandonare.
In attesa di conoscere i dettagli, la scoperta, interessante anche se ancora in fase iniziale, è stata accolta come l’annuncio del professor Cohen nel 2001. Oggi, come allora, si torna a parlare di manipolazione genetica, di uomini-ogm, di bambini Frankenstein.
Dimenticando due fatti: il primo, che tra mitocondri e nucleo non è possibile alcuno scambio di materiale genetico. Secondo: che lo sviluppo biologico dell’organismo obbedisce solo alle istruzioni contenute nel Dna del nucleo (ereditate da mamma e papà) e non a quelle del Dna mitocondriale, utili solo al funzionamento del mitocondrio stesso.
Quanto fatto a Newcastle, dunque, è una sorta di microscopico «trapianto», per sostituire i mitocondri malati con mitocondri sani. E affermare che gli embrioni ottenuti in questo modo hanno il Dna di tre genitori è un’autentica forzatura. La stessa che ci porterebbe a sostenere che una persona sottoposta a trapianto di cuore (o di rene o di cornea o di fegato) o persino a una normale trasfusione di sangue, ha il Dna di quattro persone: quello di mamma e papà e quello dei genitori del proprio donatore.
Un ultimo punto. Nell’ormai famosa legge 40 sulla fecondazione assistita, vi è un articolo, il 13, dedicato alla «sperimentazione sugli embrioni umani». E nel quale, al comma due, si legge testualmente: «La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentito a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela e allo sviluppo dell’embrione stesso». Proprio quello che i ricercatori di Newcastle hanno tentato e stanno tentando di fare. Strano che Paola Binetti e Luca Volontè, fieri difensori di quella legge, abbiano dimenticato questo passaggio. Una distrazione, probabilmente. O forse la sindrome da embrione: ne pronunci il nome e ti appare Frankenstein.
llando@unita.it