Nessuna legge lo prevede
La stampa del 4 novembre 2009
Michele Ainis
Doveva arrivare un giudice d’Oltralpe per liberarci da un equivoco che ci portiamo addosso da settant’anni e passa. In una decisione che s’articola lungo 70 punti (non proprio uno scarabocchio scritto in fretta e furia) ieri la Corte di Strasburgo ha messo nero su bianco un elenco di ovvietà.
Primo: il crocifisso è un simbolo religioso, non politico o sportivo. Secondo: questo simbolo identifica una precisa religione, una soltanto. Terzo: dunque la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede, o altrimenti a chi non ne ha nessuna. Quarto: la supremazia di una confessione religiosa sulle altre offende a propria volta la libertà di religione, nonché il principio di laicità delle istituzioni pubbliche che ne rappresenta il più immediato corollario.
Significa che fin qui ci siamo messi sotto i tacchi una libertà fondamentale, quella conservata per l’appunto nell’art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo? Non sarebbe, purtroppo, il primo caso. Ma si può subito osservare che nessuna legge della Repubblica italiana impone il crocifisso nelle scuole.
Né, d’altronde, nei tribunali, negli ospedali, nei seggi elettorali, nei vari uffici pubblici. Quest’obbligo si conserva viceversa in regolamenti e circolari risalenti agli Anni Venti, quando l’Italia vestiva la camicia nera. Fu introdotto insomma dal Regime, ed è sopravvissuto al crollo del Regime. Non è, neppure questo, un caso solitario: basta pensare ai reati di vilipendio, agli ordini professionali, alle molte scorie normative del fascismo che impreziosiscono tutt’oggi il nostro ordinamento. Ma quantomeno in relazione al crocifisso, la scelta normativa del Regime deve considerarsi in sintonia con la Costituzione all’epoca vigente. E infatti lo Statuto albertino, fin dal suo primo articolo, dichiarava che «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Da qui figli e figliastri, come sempre succede quando lo Stato indossa una tonaca in luogo degli abiti civili.
Ma adesso no, non è più questa la nostra divisa collettiva. L’art. 8 della Carta stabilisce l’eguale libertà delle confessioni religiose, e stabilisce dunque la laicità del nostro Stato. Curioso che debba ricordarcelo un giudice straniero. Domanda: ma l’art. 7 non cita a sua volta il Concordato? Certo, e infatti la Chiesa ha diritto a un’intesa normativa con lo Stato italiano, a differenza di altre religioni (come quella musulmana) che ancora ne risultano sprovviste. Però senza privilegi, neanche in nome del seguito maggioritario del cattolicesimo. D’altronde il principio di maggioranza vale in politica, non negli affari religiosi. E d’altronde la stessa Chiesa venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli. Se una religione è forte, se ha fede nella sua capacità di suscitare fede, non ha bisogno di speciali protezioni.
La stampa del 4 novembre 2009
Michele Ainis
Doveva arrivare un giudice d’Oltralpe per liberarci da un equivoco che ci portiamo addosso da settant’anni e passa. In una decisione che s’articola lungo 70 punti (non proprio uno scarabocchio scritto in fretta e furia) ieri la Corte di Strasburgo ha messo nero su bianco un elenco di ovvietà.
Primo: il crocifisso è un simbolo religioso, non politico o sportivo. Secondo: questo simbolo identifica una precisa religione, una soltanto. Terzo: dunque la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede, o altrimenti a chi non ne ha nessuna. Quarto: la supremazia di una confessione religiosa sulle altre offende a propria volta la libertà di religione, nonché il principio di laicità delle istituzioni pubbliche che ne rappresenta il più immediato corollario.
Significa che fin qui ci siamo messi sotto i tacchi una libertà fondamentale, quella conservata per l’appunto nell’art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo? Non sarebbe, purtroppo, il primo caso. Ma si può subito osservare che nessuna legge della Repubblica italiana impone il crocifisso nelle scuole.
Né, d’altronde, nei tribunali, negli ospedali, nei seggi elettorali, nei vari uffici pubblici. Quest’obbligo si conserva viceversa in regolamenti e circolari risalenti agli Anni Venti, quando l’Italia vestiva la camicia nera. Fu introdotto insomma dal Regime, ed è sopravvissuto al crollo del Regime. Non è, neppure questo, un caso solitario: basta pensare ai reati di vilipendio, agli ordini professionali, alle molte scorie normative del fascismo che impreziosiscono tutt’oggi il nostro ordinamento. Ma quantomeno in relazione al crocifisso, la scelta normativa del Regime deve considerarsi in sintonia con la Costituzione all’epoca vigente. E infatti lo Statuto albertino, fin dal suo primo articolo, dichiarava che «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Da qui figli e figliastri, come sempre succede quando lo Stato indossa una tonaca in luogo degli abiti civili.
Ma adesso no, non è più questa la nostra divisa collettiva. L’art. 8 della Carta stabilisce l’eguale libertà delle confessioni religiose, e stabilisce dunque la laicità del nostro Stato. Curioso che debba ricordarcelo un giudice straniero. Domanda: ma l’art. 7 non cita a sua volta il Concordato? Certo, e infatti la Chiesa ha diritto a un’intesa normativa con lo Stato italiano, a differenza di altre religioni (come quella musulmana) che ancora ne risultano sprovviste. Però senza privilegi, neanche in nome del seguito maggioritario del cattolicesimo. D’altronde il principio di maggioranza vale in politica, non negli affari religiosi. E d’altronde la stessa Chiesa venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli. Se una religione è forte, se ha fede nella sua capacità di suscitare fede, non ha bisogno di speciali protezioni.