Santi contro diavoli l'altra guerra in Tibet
La Stampa del 26 novembre 2008, pag. 17
di Claudio Gallo
Una sera a Dharamsala, a pochi passi dalla casa dove il Dalai Lama trascorre il suo esilio indiano, Lobsang Gyatso sta discutendo di filosofia buddhista con due allievi davanti a una frugale cena. A sessantanove anni è il direttore della scuola di dialettica, uno studioso molto ascoltato nella comunità della diaspora tibetana. Non sa, Lobsang, che in quel 4 febbraio 1997 gli ultimi granelli di sabbia stanno rotolando giù dalla clessidra della sua vita: tre ombre imponenti e muscolose entrano come invasate nella stanza e cominciano ad accoltellare i monaci con una furia da Charles Manson. Pochi minuti e torna la quiete: Lobsang è morto, abbracciato al suo zainetto. I due studenti respirano ancora, per poco. Il monaco Tenzin che arriva con il tè trova il rubino scuro del sangue che si mescola all'amaranto e all'ocra delle tuniche sfatte. Una voce corre per le strade della città: «Sono stati i partigiani di Dorje Shugden».
Il misterioso agguato porta alla ribalta, in un mondo che ancora si fa spaventare dalla favola del Baco del Duemila, un'intricata diatriba religiosa e politica cominciata quattrocento anni fa. Un'aspra disputa che invelenisce la comunità buddhista tibetana fino al punto di portare la scomunica reciproca sul filo dei pugnali, come molti sostengono sia accaduto in India undici anni fa. A mettere insieme i pezzi di questa storia ancora aperta, in realtà un groviglio di storie, è Raimondo Bultrini, giornalista esperto di Asia, nel suo «Il Demone e il Dalai Lama», pubblicato da Baldini Castoldi Dalai. Il massacro del '97 è la porta d'ingresso nel labirinto della vicenda di Dorje Shugden, il demone protettore che il Dalai Lama ha scacciato dal pantheon buddhista provocando la rabbiosa reazione dei suoi sostenitori. Dentro si dipartono molte strade: quella del giallo esotico, con il commissario Rajeev Singh a caccia dei sicari; quella dell'intrigo politico, con i cinesi che cercano di approfittare delle divisioni interne dei tibetani; quella della controversia religiosa, con il groviglio di storie e leggende su cui si accapigliano le autorità tibetane in esilio e alcune influenti scuole di irriducibili che hanno sede soprattutto in Inghilterra e in Italia.
A cercare di dire chi sia questo (non troppo) benedetto Shugden ci s'imbatte nella solita moltiplicazione delle prospettive: per gli adoratori è uno, per i detrattori un altro e per gli storici del buddhismo un altro ancora. Bultrini non nasconde di essere devoto al Dalai Lama e ci presenta lo Shugden maledetto, senza trascurare però di citare i suoi sostenitori e attingere alle loro fonti. Diciamo che la storia di base è questa: nel XVII secolo un celebre lama reincarnato, Dragpa Gyaltsen, faceva in qualche modo ombra al quinto Dalai Lama con la sua popolarità tra i principi mongoli, grandi protettori dell'ordine Ghelugpa, lo stesso al quale appartiene il Dalai Lama. Il governo tibetano lo prese di mira. Nel 1654 Dragpa morì in circostanze sospette, probabilmente avvelenato. Si racconta che dalla sua pira funeraria si levò un fumo nero a forma di mano aperta che rimase sospesa in aria a lungo prima di svanire. Poco tempo dopo il Tibet centrale e il suo governo cominciarono a essere colpiti da strane calamità; perfino i piatti del Dalai Lama si rovesciavano durante i pasti. Neppure i più celebri esorcisti riuscirono a cacciare la presenza dispettosa che fu identificata con Dragpa Gyaltsen. Lo spirito finì con l'accettare di trasformarsi in una divinità protettrice del buddhismo. Divenne uno dei guardiani più potenti dell'ordine Ghelugpa, ricevendo più tardi il nome di Dorje Shugden. Il suo culto è da allora controverso e l'attuale Dalai Lama, che pure da giovane ne fu episodicamente un adepto, lo ha duramente vietato.
Il professor George Dreyfus, autore di uno degli studi più approfonditi su Shugden (vedi Google: «The Shuk-den Affair: Origins and Controversy») smentisce la vulgata. A raccontare il ritorno dello spirito collerico di Dragpa non furono i suoi discepoli ma lo stesso quinto Dalai Lama, che cercò di dare conto così di un evento che traumatizzò il Tibet di allora come l'assassinio di un maestro spirituale. Shugden sarebbe uno spirito locale, legato a una certa zona del Tibet, e la sua identificazione con lo spettro di Dragpa risulterebbe posteriore. Infatti il vero creatore dell'attuale spiritaccio potrebbe essere un monaco vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, Pabonka. Per difendere l'ortodossia dei Ghelugpa, minacciata secondo lui dall'apertura dell'allora Dalai Lama (il XIII) ad altre sette, introdusse alcune varianti rituali ed elesse il terribile Shugden a protettore del suo ordine. Per Dreyfus è uno di quei tradizionalisti che altera la tradizione in nome della tradizione.
Oggi la disputa spirituale si complica di risvolti politici: i partigiani di Shugden sono in genere molto più aperti ai cinesi rispetto al governo di Dharamsala. Inoltre l'esilio ha accresciuto la centralità del Dalai Lama, che è diventato in qualche modo capo di tutte le sette tibetane e non più solo dei Ghelugpa, con grande dispetto dei tradizionalisti seguaci di Pabonka. Qualcuno vede dietro le beghe teologiche la regia di Pechino, che col grimaldello della religione starebbe mandando in frantumi l'unità dei tibetani. Non ne è convinto Erberto Lo Bue, professore di tibetologia all'Università di Bologna: «Non credo sia necessario guardare verso Pechino per spiegare l'assassinio dei monaci di Dharamsala: non si tratta della prima morte causata da faide politiche e religiose all'interno della diaspora tibetana; e non è necessario cercare all'esterno per ricordare che le lotte fra maestri buddhisti in India e Tibet sono state talora cruente. Non c'è bisogno di guardare troppo lontano per rinvenire nel clero tibetano comportamenti che, se pur rari, andarono dall'eliminazione fisica di maestri rivali alla distruzione di monasteri considerati nemici».
La storia di Shugden squarcia il velo di santimonia hollywoodiana che ricopre il buddhismo tibetano, almeno nella versione generalista colata dai media nella testa stipata di cliché del pubblico occidentale. Invece di una Shangri-La affollata di monaci estatici che sembrano storditi dal valium (a dire il vero Hilton nel suo romanzo del 1933 sul tetto del mondo ci metteva un'improbabile accolita di cristiani nestoriani) scopriamo un Tibet arcaico, che pratica un culto barocco e superstizioso, popolato di ogni sorta di demoni impegnati a influenzare la vita fin nelle minuzie. Certo, man mano che si salgono i gradini della dottrina buddhista verso la consapevolezza del vuoto originale, demoni e dei vengono riassorbiti nell'impalpabile nirvana, ma questa alla gente comune suona come un'astrazione e persino ai lama, a giudicare dai loro sforzi per ingraziarsi ogni spiritello collerico. Da qualche parte esisterà pure un Sant'Agostino tibetano a ricordarci che qualsiasi Chiesa è «mysterium lunae»: c'è una faccia luminosa rivolta verso la luce del sole e dietro un'altra oscura, il fardello dell'imperfezione umana.
La Stampa del 26 novembre 2008, pag. 17
di Claudio Gallo
Una sera a Dharamsala, a pochi passi dalla casa dove il Dalai Lama trascorre il suo esilio indiano, Lobsang Gyatso sta discutendo di filosofia buddhista con due allievi davanti a una frugale cena. A sessantanove anni è il direttore della scuola di dialettica, uno studioso molto ascoltato nella comunità della diaspora tibetana. Non sa, Lobsang, che in quel 4 febbraio 1997 gli ultimi granelli di sabbia stanno rotolando giù dalla clessidra della sua vita: tre ombre imponenti e muscolose entrano come invasate nella stanza e cominciano ad accoltellare i monaci con una furia da Charles Manson. Pochi minuti e torna la quiete: Lobsang è morto, abbracciato al suo zainetto. I due studenti respirano ancora, per poco. Il monaco Tenzin che arriva con il tè trova il rubino scuro del sangue che si mescola all'amaranto e all'ocra delle tuniche sfatte. Una voce corre per le strade della città: «Sono stati i partigiani di Dorje Shugden».
Il misterioso agguato porta alla ribalta, in un mondo che ancora si fa spaventare dalla favola del Baco del Duemila, un'intricata diatriba religiosa e politica cominciata quattrocento anni fa. Un'aspra disputa che invelenisce la comunità buddhista tibetana fino al punto di portare la scomunica reciproca sul filo dei pugnali, come molti sostengono sia accaduto in India undici anni fa. A mettere insieme i pezzi di questa storia ancora aperta, in realtà un groviglio di storie, è Raimondo Bultrini, giornalista esperto di Asia, nel suo «Il Demone e il Dalai Lama», pubblicato da Baldini Castoldi Dalai. Il massacro del '97 è la porta d'ingresso nel labirinto della vicenda di Dorje Shugden, il demone protettore che il Dalai Lama ha scacciato dal pantheon buddhista provocando la rabbiosa reazione dei suoi sostenitori. Dentro si dipartono molte strade: quella del giallo esotico, con il commissario Rajeev Singh a caccia dei sicari; quella dell'intrigo politico, con i cinesi che cercano di approfittare delle divisioni interne dei tibetani; quella della controversia religiosa, con il groviglio di storie e leggende su cui si accapigliano le autorità tibetane in esilio e alcune influenti scuole di irriducibili che hanno sede soprattutto in Inghilterra e in Italia.
A cercare di dire chi sia questo (non troppo) benedetto Shugden ci s'imbatte nella solita moltiplicazione delle prospettive: per gli adoratori è uno, per i detrattori un altro e per gli storici del buddhismo un altro ancora. Bultrini non nasconde di essere devoto al Dalai Lama e ci presenta lo Shugden maledetto, senza trascurare però di citare i suoi sostenitori e attingere alle loro fonti. Diciamo che la storia di base è questa: nel XVII secolo un celebre lama reincarnato, Dragpa Gyaltsen, faceva in qualche modo ombra al quinto Dalai Lama con la sua popolarità tra i principi mongoli, grandi protettori dell'ordine Ghelugpa, lo stesso al quale appartiene il Dalai Lama. Il governo tibetano lo prese di mira. Nel 1654 Dragpa morì in circostanze sospette, probabilmente avvelenato. Si racconta che dalla sua pira funeraria si levò un fumo nero a forma di mano aperta che rimase sospesa in aria a lungo prima di svanire. Poco tempo dopo il Tibet centrale e il suo governo cominciarono a essere colpiti da strane calamità; perfino i piatti del Dalai Lama si rovesciavano durante i pasti. Neppure i più celebri esorcisti riuscirono a cacciare la presenza dispettosa che fu identificata con Dragpa Gyaltsen. Lo spirito finì con l'accettare di trasformarsi in una divinità protettrice del buddhismo. Divenne uno dei guardiani più potenti dell'ordine Ghelugpa, ricevendo più tardi il nome di Dorje Shugden. Il suo culto è da allora controverso e l'attuale Dalai Lama, che pure da giovane ne fu episodicamente un adepto, lo ha duramente vietato.
Il professor George Dreyfus, autore di uno degli studi più approfonditi su Shugden (vedi Google: «The Shuk-den Affair: Origins and Controversy») smentisce la vulgata. A raccontare il ritorno dello spirito collerico di Dragpa non furono i suoi discepoli ma lo stesso quinto Dalai Lama, che cercò di dare conto così di un evento che traumatizzò il Tibet di allora come l'assassinio di un maestro spirituale. Shugden sarebbe uno spirito locale, legato a una certa zona del Tibet, e la sua identificazione con lo spettro di Dragpa risulterebbe posteriore. Infatti il vero creatore dell'attuale spiritaccio potrebbe essere un monaco vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, Pabonka. Per difendere l'ortodossia dei Ghelugpa, minacciata secondo lui dall'apertura dell'allora Dalai Lama (il XIII) ad altre sette, introdusse alcune varianti rituali ed elesse il terribile Shugden a protettore del suo ordine. Per Dreyfus è uno di quei tradizionalisti che altera la tradizione in nome della tradizione.
Oggi la disputa spirituale si complica di risvolti politici: i partigiani di Shugden sono in genere molto più aperti ai cinesi rispetto al governo di Dharamsala. Inoltre l'esilio ha accresciuto la centralità del Dalai Lama, che è diventato in qualche modo capo di tutte le sette tibetane e non più solo dei Ghelugpa, con grande dispetto dei tradizionalisti seguaci di Pabonka. Qualcuno vede dietro le beghe teologiche la regia di Pechino, che col grimaldello della religione starebbe mandando in frantumi l'unità dei tibetani. Non ne è convinto Erberto Lo Bue, professore di tibetologia all'Università di Bologna: «Non credo sia necessario guardare verso Pechino per spiegare l'assassinio dei monaci di Dharamsala: non si tratta della prima morte causata da faide politiche e religiose all'interno della diaspora tibetana; e non è necessario cercare all'esterno per ricordare che le lotte fra maestri buddhisti in India e Tibet sono state talora cruente. Non c'è bisogno di guardare troppo lontano per rinvenire nel clero tibetano comportamenti che, se pur rari, andarono dall'eliminazione fisica di maestri rivali alla distruzione di monasteri considerati nemici».
La storia di Shugden squarcia il velo di santimonia hollywoodiana che ricopre il buddhismo tibetano, almeno nella versione generalista colata dai media nella testa stipata di cliché del pubblico occidentale. Invece di una Shangri-La affollata di monaci estatici che sembrano storditi dal valium (a dire il vero Hilton nel suo romanzo del 1933 sul tetto del mondo ci metteva un'improbabile accolita di cristiani nestoriani) scopriamo un Tibet arcaico, che pratica un culto barocco e superstizioso, popolato di ogni sorta di demoni impegnati a influenzare la vita fin nelle minuzie. Certo, man mano che si salgono i gradini della dottrina buddhista verso la consapevolezza del vuoto originale, demoni e dei vengono riassorbiti nell'impalpabile nirvana, ma questa alla gente comune suona come un'astrazione e persino ai lama, a giudicare dai loro sforzi per ingraziarsi ogni spiritello collerico. Da qualche parte esisterà pure un Sant'Agostino tibetano a ricordarci che qualsiasi Chiesa è «mysterium lunae»: c'è una faccia luminosa rivolta verso la luce del sole e dietro un'altra oscura, il fardello dell'imperfezione umana.