La Repubblica 8.10.08
Discriminante far scegliere i professori dalla Chiesa
La Commissione di Bruxelles accoglie un esposto che ritiene violato il principio di uguaglianza
I dubbi della Ue sui docenti di religione "Assunti in base alla fede, l´Italia spieghi"
di Alberto D’Argenio
BRUXELLES - In Italia per diventare insegnante di religione, anche in una scuola pubblica, bisogna ottenere il via libera del vescovo. Una prassi in vigore dai Patti lateranensi del 1929 ma entrata in collisione con le regole europee che vietano qualsiasi forma di discriminazione in ragione del credo religioso di un lavoratore. E per vederci chiaro Bruxelles ha aperto un dossier e inviato una richiesta di informazioni al governo Berlusconi. Il caso nasce da una denuncia alla Commissione europea promossa dal deputato radicale Maurizio Turco, dall´avvocato Alessandro Nucara e dal fiscalista Carlo Pontesilli. Le accuse del pool radicale sono molto precise e si fondano sulle regole cardine dell´Unione europea. Afferma infatti la direttiva comunitaria del 2000 contro la discriminazione che un lavoratore non può essere discriminato per ragioni «fondate sulla religione". Ma c´è di più, visto che la parità di trattamento a prescindere dalla confessione è garantita anche dalla Dichiarazione universale dell´Onu, richiamata dal Trattato di Maastricht, e dalla Convenzione europea sui diritti dell´uomo. E, a quanto sembra, la regola in vigore da ottant´anni e confermata nel 1985 in seguito al rinnovo dei Patti firmato da Bettino Craxi va in un´altra direzione.
L´avallo vescovile, è la tesi radicale, rappresenta infatti una violazione delle regole comunitarie. A non andare è soprattutto la diversità di trattamento tra i professori di religione e quelli delle altre materie: chi vuole insegnare, infatti, deve svolgere un corso di abilitazione di un anno e poi sperare di diventare precario, prima tappa della sua incerta carriera. Chi insegna religione, sottolinea la denuncia recapitata a Bruxelles, invece deve solo ottenere la nomina vescovile (fatti salvi alcuni requisiti professionali) godendo dunque di un trattamento privilegiato vietato dalla Ue. E ovviamente va da sé che un ateo o un non cattolico non può diventare docente di religione, con palese discriminazione rispetto a chi è credente. Ma non finisce qui, visto che c´è anche una disparità di trattamento retributivo tra i circa 23 mila insegnanti di religione e gli altri, con i primi che prendono più soldi dei secondi. Prassi bocciata a luglio dalla giustizia italiana, che ha condannato il ministero dell´istruzione a parificare lo stipendio di un professore che ha fatto ricorso aprendo la strada a nuove singole denunce (in Italia non esiste il ricorso collettivo). Argomentazioni che hanno fatto breccia a Bruxelles, con la direzione generale Affari sociali e pari opportunità della Commissione europea che a cavallo dell´estate ha chiesto una serie di informazioni al governo riservandosi di decidere sul caso solo quando avrà letto la risposta, attesa a breve. Insomma, non si tratta ancora di una procedura formale contro l´Italia, ma l´invio di un questionario significa che la Ue nutre seri dubbi sulla legalità della nostra legge. Esattamente come avvenuto nel 2007, quando Bruxelles ha chiesto una serie di informazioni sui colossali sgravi fiscali accordati alla Chiesa. Un dossier, questo, ancora al vaglio della Commissione che, secondo diversi interlocutori, prende tempo viste le ingombranti pressioni politiche che spingono per un´archiviazione.
Discriminante far scegliere i professori dalla Chiesa
La Commissione di Bruxelles accoglie un esposto che ritiene violato il principio di uguaglianza
I dubbi della Ue sui docenti di religione "Assunti in base alla fede, l´Italia spieghi"
di Alberto D’Argenio
BRUXELLES - In Italia per diventare insegnante di religione, anche in una scuola pubblica, bisogna ottenere il via libera del vescovo. Una prassi in vigore dai Patti lateranensi del 1929 ma entrata in collisione con le regole europee che vietano qualsiasi forma di discriminazione in ragione del credo religioso di un lavoratore. E per vederci chiaro Bruxelles ha aperto un dossier e inviato una richiesta di informazioni al governo Berlusconi. Il caso nasce da una denuncia alla Commissione europea promossa dal deputato radicale Maurizio Turco, dall´avvocato Alessandro Nucara e dal fiscalista Carlo Pontesilli. Le accuse del pool radicale sono molto precise e si fondano sulle regole cardine dell´Unione europea. Afferma infatti la direttiva comunitaria del 2000 contro la discriminazione che un lavoratore non può essere discriminato per ragioni «fondate sulla religione". Ma c´è di più, visto che la parità di trattamento a prescindere dalla confessione è garantita anche dalla Dichiarazione universale dell´Onu, richiamata dal Trattato di Maastricht, e dalla Convenzione europea sui diritti dell´uomo. E, a quanto sembra, la regola in vigore da ottant´anni e confermata nel 1985 in seguito al rinnovo dei Patti firmato da Bettino Craxi va in un´altra direzione.
L´avallo vescovile, è la tesi radicale, rappresenta infatti una violazione delle regole comunitarie. A non andare è soprattutto la diversità di trattamento tra i professori di religione e quelli delle altre materie: chi vuole insegnare, infatti, deve svolgere un corso di abilitazione di un anno e poi sperare di diventare precario, prima tappa della sua incerta carriera. Chi insegna religione, sottolinea la denuncia recapitata a Bruxelles, invece deve solo ottenere la nomina vescovile (fatti salvi alcuni requisiti professionali) godendo dunque di un trattamento privilegiato vietato dalla Ue. E ovviamente va da sé che un ateo o un non cattolico non può diventare docente di religione, con palese discriminazione rispetto a chi è credente. Ma non finisce qui, visto che c´è anche una disparità di trattamento retributivo tra i circa 23 mila insegnanti di religione e gli altri, con i primi che prendono più soldi dei secondi. Prassi bocciata a luglio dalla giustizia italiana, che ha condannato il ministero dell´istruzione a parificare lo stipendio di un professore che ha fatto ricorso aprendo la strada a nuove singole denunce (in Italia non esiste il ricorso collettivo). Argomentazioni che hanno fatto breccia a Bruxelles, con la direzione generale Affari sociali e pari opportunità della Commissione europea che a cavallo dell´estate ha chiesto una serie di informazioni al governo riservandosi di decidere sul caso solo quando avrà letto la risposta, attesa a breve. Insomma, non si tratta ancora di una procedura formale contro l´Italia, ma l´invio di un questionario significa che la Ue nutre seri dubbi sulla legalità della nostra legge. Esattamente come avvenuto nel 2007, quando Bruxelles ha chiesto una serie di informazioni sui colossali sgravi fiscali accordati alla Chiesa. Un dossier, questo, ancora al vaglio della Commissione che, secondo diversi interlocutori, prende tempo viste le ingombranti pressioni politiche che spingono per un´archiviazione.