Gerusalemme, i monaci litigano e il Santo Sepolcro rischia il crollo
Il Giornale del 8 ottobre 2008, pag. 16
di Gian Micalessin
«Salvate la basilica del Santo Sepolcro». Il grido d'allarme per uno dei simboli della morte e della resurrezione di Gesù Cristo arriva da Israele. E suona a dir poco devastante. Lo storico monastero di Deir Al Sultan, costruito sopra la tomba più sacra della Cristianità, è ormai pericolante e rischia di travolgere una parte della basilica mettendo a repentaglio le vite dei visitatori. La secolare contesa tra i monaci della chiesa egiziano-copta, che rivendica la proprietà del monastero, e la chiesa ortodossa etiope, che ne occupa da oltre un secolo le due cappelle e le 36 celle, rende impossibile qualsiasi opera di restauro. Dopo anni di stallo e degrado la situazione è così precaria da far temere il peggio.
«Quella costruzione è ormai un pericolo per la vita umana» sancisce il rapporto di un ingegnere mandato a valutare la situazione del complesso religioso. Il resoconto consegnato dalla Milav, la ditta di costruzioni israeliana a cui la Chiesa Etiope s'è rivolta per una consulenza, non è molto diverso. «Il complesso versa in uno stato di evidente rischio - scrivono i tecnici della Milav –, le strutture evidenziano una serie di danni perimetrali e determinano un serio azzardo per la vita dei monaci che ci vivono e per quella dei visitatori. Ci troviamo di fronte ad un'emergenza, soprattutto per il pericolo di un improvviso cedimento in grado di ripercuotersi sulle chiese vicine».
Il vecchio monastero rischia insomma di crollare da un momento all'altro seppellendo monaci e turisti sotto le proprie rovine e quelle del sottostante Santo Sepolcro. Neppure gli appelli e gli interventi del governo israeliano, che sin dal 2004 si offre di pagare i costi del restauro, sono sufficienti a sbloccare una situazione ormai sul punto di precipitare. Nel senso più letterale del termine.
Il nodo della contesa, come tutte quelle legate all'utilizzo del Santo Sepolcro da parte dei diversi ordini religiosi che l'occupano, ha origini antiche. A dar retta ai monaci etiopi tutto inizia nel 1838 quando gli egiziani copti li buttano fuori dalla basilica a colpi di bastone e li costringono a rifugiarsi su una delle terrazze sovrastanti il tetto. Relegati lì sopra, ma decisi a non mollare, gli etiopi iniziano a far la spola tra il nuovo rifugio e la valle di Kidron per far scorta di acqua e argilla e costruirsi quel rifugio di terracotta che prenderà il nome di monastero di Deir Al Sultan.
I monaci copti, non paghi di essersi levati di torno i concorrenti, rivendicano la proprietà di quel fungo di fango costruito sull'ala della basilica sotto il proprio controllo. A complicare ulteriormente la disputa contribuisce il decreto del 1863 con cui il governo ottomano vieta qualsiasi restauro che alteri forma o struttura dei luoghi santi, pena la perdita di ogni diritto di proprietà o controllo per chi ordina o esegue gli ammodernamenti. L'editto, accettato da tutte le Chiese, è ancor oggi fonte d'angoscia. I monaci etiopi, pur riconoscendo e lamentando lo stato di totale degrado del loro monastero, rifiutano di ordinarne il restauro per timore di fornire ai rivali copti la scusa per sloggiarli definitivamente e chiedono al governo di Gerusalemme di assumersi ogni responsabilità.
Esasperato da tante infinite bizantinerie il ministero degli Interni israeliano ha già chiarito la sua posizione, finanzierà tutti restauri necessari, ma non muoverà un dito fino a quando gli antichi rivali non raggiungeranno un accordo e la smetteranno di ballare sull'orlo precipizio.
Il Giornale del 8 ottobre 2008, pag. 16
di Gian Micalessin
«Salvate la basilica del Santo Sepolcro». Il grido d'allarme per uno dei simboli della morte e della resurrezione di Gesù Cristo arriva da Israele. E suona a dir poco devastante. Lo storico monastero di Deir Al Sultan, costruito sopra la tomba più sacra della Cristianità, è ormai pericolante e rischia di travolgere una parte della basilica mettendo a repentaglio le vite dei visitatori. La secolare contesa tra i monaci della chiesa egiziano-copta, che rivendica la proprietà del monastero, e la chiesa ortodossa etiope, che ne occupa da oltre un secolo le due cappelle e le 36 celle, rende impossibile qualsiasi opera di restauro. Dopo anni di stallo e degrado la situazione è così precaria da far temere il peggio.
«Quella costruzione è ormai un pericolo per la vita umana» sancisce il rapporto di un ingegnere mandato a valutare la situazione del complesso religioso. Il resoconto consegnato dalla Milav, la ditta di costruzioni israeliana a cui la Chiesa Etiope s'è rivolta per una consulenza, non è molto diverso. «Il complesso versa in uno stato di evidente rischio - scrivono i tecnici della Milav –, le strutture evidenziano una serie di danni perimetrali e determinano un serio azzardo per la vita dei monaci che ci vivono e per quella dei visitatori. Ci troviamo di fronte ad un'emergenza, soprattutto per il pericolo di un improvviso cedimento in grado di ripercuotersi sulle chiese vicine».
Il vecchio monastero rischia insomma di crollare da un momento all'altro seppellendo monaci e turisti sotto le proprie rovine e quelle del sottostante Santo Sepolcro. Neppure gli appelli e gli interventi del governo israeliano, che sin dal 2004 si offre di pagare i costi del restauro, sono sufficienti a sbloccare una situazione ormai sul punto di precipitare. Nel senso più letterale del termine.
Il nodo della contesa, come tutte quelle legate all'utilizzo del Santo Sepolcro da parte dei diversi ordini religiosi che l'occupano, ha origini antiche. A dar retta ai monaci etiopi tutto inizia nel 1838 quando gli egiziani copti li buttano fuori dalla basilica a colpi di bastone e li costringono a rifugiarsi su una delle terrazze sovrastanti il tetto. Relegati lì sopra, ma decisi a non mollare, gli etiopi iniziano a far la spola tra il nuovo rifugio e la valle di Kidron per far scorta di acqua e argilla e costruirsi quel rifugio di terracotta che prenderà il nome di monastero di Deir Al Sultan.
I monaci copti, non paghi di essersi levati di torno i concorrenti, rivendicano la proprietà di quel fungo di fango costruito sull'ala della basilica sotto il proprio controllo. A complicare ulteriormente la disputa contribuisce il decreto del 1863 con cui il governo ottomano vieta qualsiasi restauro che alteri forma o struttura dei luoghi santi, pena la perdita di ogni diritto di proprietà o controllo per chi ordina o esegue gli ammodernamenti. L'editto, accettato da tutte le Chiese, è ancor oggi fonte d'angoscia. I monaci etiopi, pur riconoscendo e lamentando lo stato di totale degrado del loro monastero, rifiutano di ordinarne il restauro per timore di fornire ai rivali copti la scusa per sloggiarli definitivamente e chiedono al governo di Gerusalemme di assumersi ogni responsabilità.
Esasperato da tante infinite bizantinerie il ministero degli Interni israeliano ha già chiarito la sua posizione, finanzierà tutti restauri necessari, ma non muoverà un dito fino a quando gli antichi rivali non raggiungeranno un accordo e la smetteranno di ballare sull'orlo precipizio.