E' vero, non tolleriamo l'intolleranza
di Carlo Flamigni, Armando Massarenti, Maurizio Mori, Angelo Petroni
"Il Sole-24 Ore" domenica 21 luglio 1996
«All'aggettivo laico», in tema di bioetica, «bisognerebbe proprio rinunciare». Così, scrive il presidente del Comitato nazionale per la bioetica, Francesco D'Agostino, reagendo al nostro Manifesto. E tra tutte le reazioni possibili, poiché il nostro titolo era Manifesto di bioetíca laica questa è da ritenersi la più radicale, perché mette in dubbio la sensatezza stessa della nostra iniziativa. Conviene dunque partire da qui, e spiegare perché - anche se non ne faremmo una malattia - all'aggettivo laico, nonostante le critiche che abbiamo ricevuto, non vorremmo rinunciare.
Potremmo in realtà anche mantenerlo così, per capriccio, semplicemente perché ci piace e questa, a dire il vero, ci parrebbe già una scelta difficile da contestare. 0 non è vero che ognuno ha il diritto di attribuire a se stesso gli aggettivi che preferisce?
Ma non è con tale frivolezza che ci siamo imbarcati in questa avventura. Avremmo scelto cose ben più divertenti per occupare il nostro tempo. In gioco qui, invece, ci sono questioni assai serie, che riguardano non i gusti personali, nostri o di D'Agostino, ma la sfera pubblica tutta intera, e una serie di decisioni che coinvolgono tutti i cittadini.
E' facendoci carico della drammaticità che comportano le scelte legate alla bioetica che il 9 giugno proponevamo all'attenzione dei lettori alcuni principi assai generali, sui quali anche posizioni assai diverse e lontane potessero convergere. Principi di ispirazione laica, innegabilmente, ma che si porgevamo a un dialogo rivolto anche a coloro che - del tutto legittimamente - nella nostra laicità potevano non riconoscersi.
Eppure, proprio alla luce del dibattito che in effetti siamo riusciti a suscitare, non possiamo fare a meno di chiederci: va bene per il termine laico - del quale in fondo neppure noi faremmo molta fatica a sbarazzarci - ma sarebbe davvero così facile, per coloro che ci invitano a eliminarlo, fare a meno anche dei principi che sotto quell'etichetta avevamo proposto?
In realtà, se a noi l'aggettivo laico tutto sommato continua a piacere è perché racchiude in sé una tale ricchezza semantica da essere perfettamente in grado di riassumere, in maniera assai chiara ed efficace, quale deve essere l'insieme dei prerequisiti e dei valori per la conduzione di qualunque discussione che voglia dirsi «pubblica e democratica».
La laicità in questo senso dotto - come ci suggerisce il cattolico Evandro Agazzi - è «sinonimo di atteggiamento razionale, critico, scevro da pregiudizi dogmatici, aperto al pluralismo, ivi compreso il rispetto per le credenze religiose».
C'è qualcuno, oggi, in Italia, che di fronte a questa definizione può osare non dirsi laico? Può darsi di sì. In ogni caso è proprio questo il senso che noi intendevamo. E infatti scrivevamo, introducendo il Manifesto, che la bioetica è laica nel senso di «antidogmatica, e non necessariamente antireligiosa». E aggiungevamo che, se si guarda alla sua storia, laica e pluralistica la bioetica lo è nei fatti, e quasi per definizione: «per la natura stessa dei problemi, spinosissimi , di cui si occupa».
Facciamo un esempio. Quello, davvero esplosivo, che ci è capitato tra le mani in queste settimane: il problema cosiddetto della «identità e dello statuto dell'embrione umano» sul quale il Comitato nazionale è intervenuto con un documento che dovrebbe servire da base per la futura legislazione in materia di fecondazione assistita e di sperimentazione, e che è stato subito utilizzato - al di là dei compiti e delle intenzioni esplicite del Comitato - per riproporre il problema della liceità giuridica dell'aborto.
La domanda fondamentale è: l'embrione è o non è una persona? Basta guardare alla letteratura internazionale sull'argomento (normalmente meno inquinata da pregiudizi rispetto a quella italiana), per vedere che di fronte a tale domanda si presentano sistematicamente almeno due soluzioni. Quella di chi argomenta che l'embrione non è e non può essere considerato una persona; e quella di chi, con una argomentazione che ritiene altrettanto conclusiva, sostiene che invece lo sia. Le argomentazioni degli uni si contrappongono alle argomentazioni degli altri, senza possibilità di conciliazione; esse sono conclusive solo nella mente di chi le propone, dal momento che gli altri non ne vengono affatto convinti (naturalmente il ragionamento vale a maggior ragione per le argomentazioni che non pretendono di essere conclusive, ma ragionevoli o persuasive, come piace ad esempio a D'Agostino). E allora, come comportarsi?
Qualcuno potrà sostenere che non possiamo escludere di poter trovare, un giorno, una teoria generale in grado dì conciliarle, o un'argomentazione che costringa l'avversario ad ammettere di avere torto. Così ragionano coloro che credono in una «morale a vocazione universale», come l'abbiamo chiamata nel Manifesto (Mario Cattaneo, nel suo intervento dice di credere proprio in questo); e coloro che hanno una grandissima fiducia nella ragione (come numerosi tomisti, tra cui Vittorio Possenti, e non pochi laici). Di fatto, però, una tale argomentazione conclusivaper ora non esiste e c'è anche chi è convinto che nessuno riuscirà mai a produrla.
Restano due soluzioni: o si costringe l'avversario ad accettare la propria posizione (ma qui la forza cui affidarsi non è più quella delle argomentazioni, bensì quella fisica o quella coercitiva di una legge autoritaria); oppure si accetta l'idea che le due posizioni siano entrambe legittime.
Si riconosce, in altri termini, che esse sono fondate su valori inconciliabili, ma che nessuno di tali valori, solo per il fatto di essere in conflitto con l'altro, debba essere estromesso dalla sfera della moralità.
Ebbene, dovrebbe essere chiaro che i principi del nostro Manifesto- almeno quelli centrali, dell'autonomia della persona e del pluralismo, attorno a cui ruota tutto il resto - fanno da sfondo a questa seconda soluzione. Tradotti in soldoni essi implicano l'idea che la legislazione non dovrebbe mai dare l'ultima parola a uno dei contendenti in lizza, ma dovrebbe cercare di contemperare le diverse esigenze e valori, evitando il più possibile i danni materiali e sociali. Il riferimento alla legislazione, e alla necessità di orientarla in senso pluralistico e non autoritario, aggiunge un'ulteriore sfumatura semantica alla nostra laicità e al senso che vogliamo darle. Una laicità che è storicamente incorporata nelle giurisdizioni moderne, fondate sulla separazione tra la religione e lo Stato. Uno Stato che, come ci suggerisce Guido Alpa, non deve essere né «etico» né «totalitario» né «confessionale». Il che non impedisce affatto, anzi dovrebbe incoraggiare - come suggeriva Tocqueville - il diffondersi di un autentico sentimento religioso.
E con questo speriamo di aver spiegato anche ai sordi e ai ciechi che cosa intendevamo per laico. Che non si contrappone a religioso, ma a dogmatico. Né il nostro ragionamento etsi deus non daretur è volto a impedire che ognuno persegua liberamente le proprie convinzioni religiose. Che vanno fatte valere durante la discussione pubblica, a patto soltanto che riescano a tener conto anche di quelle degli altri.
Laddove, nel Manifesto, si può percepire una contrapposizione tra la nostra visione laica e le visioni religiose, ci si riferisce in realtà solo alle componenti dogmatiche del pensiero religioso. Un dogmatismo da cui non sono aliene neppure certe forme di laicismo estremo, dominate da un culto religioso per la scienza, che siamo pronti a condannare con la stessa convinzione.
Siamo ben consapevoli che la dimensione religiosa non può essere eliminata a piacere dalla vita dell'uomo e «la apprezziamo - come scriviamo nel Manifesto - per quanto può contribuire alla formazione di una coscienza etica diffusa». Cerchiamo però anche di prendere sul serio la «varietà dell'esperienza religiosa», per dirla con Wiliam James, e il fatto che dall'inevitabile ammissione della varietà delle visioni del mondo - laiche o religiose che siano - deriva la necessità di richiamarsi ai principi laici e pluralisti. Per questo ci riferiamo esplicitamente alla pluralità delle etiche laiche e alla pluralità delle etiche religiose. Chi ci fa osservare che non esiste un'etica laica opposta a un'etica religiosa , dunque, sfonda una porta aperta.
Tuttavia una ragione seria per sconsigliare l'uso del termine laico c'è, ed è quella suggerita da Agazzi. «Nel contesto della cultura italiana - scrive - esso ha un significato corrente di sapore polemico: laico è il contrario di cattolico, e serve a indicare una parte, un campo, un'area, che si definisce per contrapposizione, appunto, alla parte, al campo, all'area cattolica». Questo significato contrappositivo, polemico, è un'estensione tutta italiana del senso dotto del termine laico, ed è dovuto essenzialmente al monopolio culturale in campo - morale esercitato a lungo dalla Chiesa in questo Paese.
Di questo significato polemico bisognava dunque tener conto. Ed è quello che abbiamo fatto. Ma per evitare la solita, futile, anacronistica, contrapposizione abbiamo dichiarato fin dall'inizio il nostro intento di «avvicinare due mondi - quello laico e quello cattolico che, in Italia, rischiano continuamente di fraintendersi». E' vero che qui il termine è usato nel senso contrappositivo: ma lo scopo è quello di indicare una contrapposizione che noi vorremmo fosse superata, non certo di fomentarla!
Il fatto che il termine laico significhi anche, in negativo, «anti-cattolico» non ci pare un buon motivo per sbarazzarsi completamente del termine e della ricchezza di significati, del tutto positivi, che per altro verso esso esprime. E sono appunto i principi e valori espressi in positivo, i quali non hanno alcun bisogno di contrapporsi ad altri, quelli su cui chiedevamo di confrontarci. Non è colpa nostra se ci è stato risposto, in non pochi casi, con la più trita delle contrapposizioni. Segno che, ancora oggi, il semplice uso della parola laico, fa scattare la paura della perdita del monopolio. Vi è dunque una tendenza, da parte dei nostri critici, e non certo nostra, a mettere l'accento sul significato negativo polemico del termine e a trascurare quelli positivi.
Manifesto di bioetica pluralista, o liberale, o civile: queste sono le alternative che ci sono state suggerite dai nostri critici e simpatizzanti come più adatte a evitare inutili scontri. E sono suggerimenti ottimi, che non modificherebbero di una virgola i nostri contenuti. Tuttavia, temiamo che qualunque aggettivazione avrebbe finito con l'assumere, per certe persone un senso contrappositivo suscitando una reazione del tipo: volete forse insinuare che noi non siamo pluralisti, liberali, o civili?
Insomma non se ne esce. O meglio, se ne esce, semplicemente evitando di prendere troppo sul serio il problema della contrapposizione e assumendo che inevitabilmente qualcuno si sarebbe, appunto, e del tutto legittimamente, contrapposto. Il che non è affatto un male, perché sono proprio le ragioni di chi si pone in aperto contrasto quelle che meritano la maggiore attenzione. Anche quando tali ragioni sono mescolate inestricabìlmente a una serie di colpi bassi volti a screditare moralmente l'avversario. Particolarmente scorrette abbiamo trovato certe armi usate dal Centro di bioetica dell'Università Cattolica, che, per esempio, in un documento pubblicato su Internet afferma che chi ammette la liceità della sperimentazione sull'embrione supera «un limite etico che per chiunque abbia onestà intellettuale è invalicabile».
Ancor più gravi sono le affermazioni di Angelo Fiori, che in un'editoriale della rivista «Medicina e morale» accusa i laici, genericamente, di pretendere autonomia dalle gerarchie religiose ma non certo da «altre potenti forze». «E' infatti sempre più evidente - scrive Fiori - lo stato di asservimento di certe posizioni, definite laiche, a ben precise ideologie filosofiche e politiche», oltre che «da lobbies che comprendono industrie».
Tutto ciò viola palesemente le basi minime dell'«etica del discorso» e della discussione pubblica. Ma che si vuole? Si tratta solo di fragili basi laiche, dunque possono essere impunemente violate! L'attacco più deciso ai contenuti del Manifesto è venuto proprio dal Centro della Cattolica, con un articolo firmato dal direttore Monsignor Elio Sgreccia e da Angelo Fiori, Adriano Pessina e Antonio G. Spagnolo. L'accusa nei nostri confronti è di vetero-positivismo-comtiano: «l'immagine ottimistica del sapere scientifico e dei suoi inarrestabili progressi, che trasuda da ogni riga di quello scritto, poteva formularla soltanto chi era nato prima di Hiroshima e Auschwitz, non aveva letto niente di Popper e Feyerabend e non era venuto a conoscenza degli esperimenti sugli esseri umani che hanno dato inizio alla complessa vicenda della riflessione bioetica».
Non è facile scomporre una per una tutte le imprecisioni e gli errori, storici e concettuali, che «trasudano» da questa piccola frase (o in realtà da tutto l'articolo). Proviamo almeno a indicarne alcuni.
Quanto al progresso, nel Manifesto è ben vero che esso è considerato «un valore etico fondamentale», perché è «soprattutto dal progresso della conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana». Questo significa, per inciso, che noi non attribuiamo alla sofferenza un particolare valore morale. Ma poco più avanti precisiamo anche che «non pensiamo, naturalmente, che il progresso in quanto tale sia automatico, né che sia garantito o inarrestabile. Ma proprio per questa ragione insistiamo sulla capacità degli uomini di giudicare, volta per volta, in che senso certi cambiamenti possano essere interpretati come effettivi miglioramenti e altri invece no, in un processo in cui l'analisi concettuale e la ragion critica svolgono un ruolo determinante».
E' questo un ragionamento da positivisti? I positivisti ottocenteschi, peraltro, come ci ricorda Carlo Augusto Viano, erano «ottime persone, magari un pò ingenue, ma molto meno bieche della media degli idealisti».
Speriamo che questo passo, che forse era loro sfuggito, tranquillizzi anche il «teologo dogmatico» Bruno Forte e l'epistemologo libertario Giulio Giorello che, nel loro scritto a quattro mani, ci dipingono come ingannati dagli «idoli della certezza» e pervasi da un'«ideologia scientista». E' davvero impressionante vedere come certi studiosi diventino maestri del dubbio quando devono replicare agli altri, mentre in proprio sostengono tesi monolitiche e incontrovertibili. Questo non vale per Giorello, il quale però mettendo giustamente in rilievo il carattere non definitivo delle conoscenze scientifiche rischia di gettarsi tra le braccia dell'autorità religiosa. Vista la sete di verità definitive ancora presente nell'opinione pubblica, se non può darcele la scienza, perché non potrebbe ritornare a fornircele il dogmatismo religioso?
Il passo sopra ricordato dovrebbe servire a spazzare via anche il poco pertinente riferimento a Hiroshima e ad Auschwitz. Non è certo a causa delle conoscenze scientifiche che gli uomini si ammazzano tra loro. Lo fanno anche a colpi di macete. Le affermazioni di Forte-Giorello assomigliano a quelle di D'Agostino sul dominio della tecnica e sulla necessità di una sua «risemantizzazione». Tutti sembrano condividere un'idea della scienza assai generale e astratta, che non discende da quello che la scienza è, ma da come heideggerianamente la «metafisica occidentale» la definisce. In realtà sono invece proprio gli scienziati, o almeno i migliori tra loro, ad essere coscienti dei limiti delle proprie conoscenze. Infine, se è vero che non solo la conoscenza, ma anche l'«amore» e la «compassione», possono lenire alcune sofferenze, è anche vero che anche queste producono i loro effetti perversi. Senza contare che c'è molta gente che non sopporta di essere compatita, o che non vuole suo malgrado essere amata da persone di cui non ha particolare stima.
Quanto a Popper e Feyerabend, nessuno dei due grandi epistemologi ha mai negato che, nell'impresa scientifica si abbia «crescita della conoscenza» - e dunque progresso. Semmai negavano che il progresso fosse banalmente cumulativo. La visione della scienza e della morale da noi sostenuta, del resto, si ispira proprio al loro fallibilismo, anche se nello spazio breve di un Manifesto, questo elemento forse non traspare a sufficienza: noi comunque sosteniamo apertamente che le società non sono immobili, che i valori e le conoscenze mutano continuamente, e che tali mutamenti non sono necessariamente dei progressi.
Inoltre sosteniamo che, proprio in forza del nostro fallibilismo, nessuno può avere il monopolio della verità. «L'amore della verità non tollera che esistano autorità superiori che fissino dall'esterno quel che è lecito e quel che non è lecito conoscere». Quel non tollera non è un lapsus freudiano, come dicono bonariamente Sgreccia e gli altri. Noi riteniamo davvero aberrante, e non tolleriamo l'idea, con cui ci rispondono, secondo cui: «L'autorità superiore che può autolimitare la nostra attività di ricerca è proprio quella verità, che non è certo esteriore, che dice chi è l'uomo e quale posto occupa nell'universo».
Ammettere l'esistenza di una tale verità astratta, di contro alle singole verità concrete cui invece noi facciamo riferimento, e collegarla a un'«autorità superiore» che ci «autolimita»... Un'autorità superiore, e dunque esterna, che ci autolimita? Questo sì che è un lapsus. E come la dice lunga su quanto siamo distanti sulla questione dell'autonomia delle persone!
Quanto agli «esperimenti sugli esseri umani», salvo alcuni casi eclatanti e sicuramente condannabili, non costituiscono affatto uno scandalo. Avvengono e sono regolamentati da molto tempo prima della nascita della bioetica.
«La sperimentazione su esseri umani - scrive per esempio Evandro Agazzi, nell'articolo che ha scritto per «Il Sole-24 Ore» come relatore dello statuto sull'embrione del Comitato nazionale per la bioetica - è da oltre un secolo un mezzo per far progredire la medicina e la biologia, ma essa é notoriamente regolata e limitata da una serie di norme comunemente accettate, e queste, se l'embrione deve essere trattato come una persona, non possono essere violate neppure nel suo caso». Il che significa, per inciso, che la sperimentazione sugli embrioni non è vietata, ma deve essere sottoposta a regole e limiti adeguati.
Ma è proprio sulla questione dell'embrione umano che Sgreccia (che insieme ad altri 15 componenti del Comitato nazionale ha firmato una dichiarazione in cui, di fatto, si dissocia dal documento generale scritto da Agazzi e prima votato all'unanimità) prende posizioni che a partire dai nostri principi sono inaccettabili. Egli infatti pretende di trarre la conclusione filosofica che l'embrione è una persona, con tutte le conseguenze morali che questo comporta, a partire da conoscenze biologiche che ritiene incontrovertibili. Bella coerenza, da parte di chi, pochi giorni prima, ci accusava dì positivismo!
Sgreccia si affida interamente all'autorità della scienza (laddove noi invece propugnamo apertamente il controllo democratico della medesima), commettendo un errore che neppure il più estremista dei laicisti, commetterebbe: pretendere di ricavare conclusioni di carattere etico immediatamente da conoscenze scientifiche, e di fondare così una morale assoluta che si pone al di là di ogni discussione e di ogni dialogo democratico.
Di fronte a posizioni di tale dogmatismo e intolleranza - che ci auguriamo minoritarie nel nostro Paese - noi laici, pluralisti, liberali, ma anche solo persone civili, tra le quali annoveriamo la maggior parte dei credenti, riteniamo che contrapporci, non solo non sia un problema, ma sia, anzi un dovere.
di Carlo Flamigni, Armando Massarenti, Maurizio Mori, Angelo Petroni
"Il Sole-24 Ore" domenica 21 luglio 1996
«All'aggettivo laico», in tema di bioetica, «bisognerebbe proprio rinunciare». Così, scrive il presidente del Comitato nazionale per la bioetica, Francesco D'Agostino, reagendo al nostro Manifesto. E tra tutte le reazioni possibili, poiché il nostro titolo era Manifesto di bioetíca laica questa è da ritenersi la più radicale, perché mette in dubbio la sensatezza stessa della nostra iniziativa. Conviene dunque partire da qui, e spiegare perché - anche se non ne faremmo una malattia - all'aggettivo laico, nonostante le critiche che abbiamo ricevuto, non vorremmo rinunciare.
Potremmo in realtà anche mantenerlo così, per capriccio, semplicemente perché ci piace e questa, a dire il vero, ci parrebbe già una scelta difficile da contestare. 0 non è vero che ognuno ha il diritto di attribuire a se stesso gli aggettivi che preferisce?
Ma non è con tale frivolezza che ci siamo imbarcati in questa avventura. Avremmo scelto cose ben più divertenti per occupare il nostro tempo. In gioco qui, invece, ci sono questioni assai serie, che riguardano non i gusti personali, nostri o di D'Agostino, ma la sfera pubblica tutta intera, e una serie di decisioni che coinvolgono tutti i cittadini.
E' facendoci carico della drammaticità che comportano le scelte legate alla bioetica che il 9 giugno proponevamo all'attenzione dei lettori alcuni principi assai generali, sui quali anche posizioni assai diverse e lontane potessero convergere. Principi di ispirazione laica, innegabilmente, ma che si porgevamo a un dialogo rivolto anche a coloro che - del tutto legittimamente - nella nostra laicità potevano non riconoscersi.
Eppure, proprio alla luce del dibattito che in effetti siamo riusciti a suscitare, non possiamo fare a meno di chiederci: va bene per il termine laico - del quale in fondo neppure noi faremmo molta fatica a sbarazzarci - ma sarebbe davvero così facile, per coloro che ci invitano a eliminarlo, fare a meno anche dei principi che sotto quell'etichetta avevamo proposto?
In realtà, se a noi l'aggettivo laico tutto sommato continua a piacere è perché racchiude in sé una tale ricchezza semantica da essere perfettamente in grado di riassumere, in maniera assai chiara ed efficace, quale deve essere l'insieme dei prerequisiti e dei valori per la conduzione di qualunque discussione che voglia dirsi «pubblica e democratica».
La laicità in questo senso dotto - come ci suggerisce il cattolico Evandro Agazzi - è «sinonimo di atteggiamento razionale, critico, scevro da pregiudizi dogmatici, aperto al pluralismo, ivi compreso il rispetto per le credenze religiose».
C'è qualcuno, oggi, in Italia, che di fronte a questa definizione può osare non dirsi laico? Può darsi di sì. In ogni caso è proprio questo il senso che noi intendevamo. E infatti scrivevamo, introducendo il Manifesto, che la bioetica è laica nel senso di «antidogmatica, e non necessariamente antireligiosa». E aggiungevamo che, se si guarda alla sua storia, laica e pluralistica la bioetica lo è nei fatti, e quasi per definizione: «per la natura stessa dei problemi, spinosissimi , di cui si occupa».
Facciamo un esempio. Quello, davvero esplosivo, che ci è capitato tra le mani in queste settimane: il problema cosiddetto della «identità e dello statuto dell'embrione umano» sul quale il Comitato nazionale è intervenuto con un documento che dovrebbe servire da base per la futura legislazione in materia di fecondazione assistita e di sperimentazione, e che è stato subito utilizzato - al di là dei compiti e delle intenzioni esplicite del Comitato - per riproporre il problema della liceità giuridica dell'aborto.
La domanda fondamentale è: l'embrione è o non è una persona? Basta guardare alla letteratura internazionale sull'argomento (normalmente meno inquinata da pregiudizi rispetto a quella italiana), per vedere che di fronte a tale domanda si presentano sistematicamente almeno due soluzioni. Quella di chi argomenta che l'embrione non è e non può essere considerato una persona; e quella di chi, con una argomentazione che ritiene altrettanto conclusiva, sostiene che invece lo sia. Le argomentazioni degli uni si contrappongono alle argomentazioni degli altri, senza possibilità di conciliazione; esse sono conclusive solo nella mente di chi le propone, dal momento che gli altri non ne vengono affatto convinti (naturalmente il ragionamento vale a maggior ragione per le argomentazioni che non pretendono di essere conclusive, ma ragionevoli o persuasive, come piace ad esempio a D'Agostino). E allora, come comportarsi?
Qualcuno potrà sostenere che non possiamo escludere di poter trovare, un giorno, una teoria generale in grado dì conciliarle, o un'argomentazione che costringa l'avversario ad ammettere di avere torto. Così ragionano coloro che credono in una «morale a vocazione universale», come l'abbiamo chiamata nel Manifesto (Mario Cattaneo, nel suo intervento dice di credere proprio in questo); e coloro che hanno una grandissima fiducia nella ragione (come numerosi tomisti, tra cui Vittorio Possenti, e non pochi laici). Di fatto, però, una tale argomentazione conclusivaper ora non esiste e c'è anche chi è convinto che nessuno riuscirà mai a produrla.
Restano due soluzioni: o si costringe l'avversario ad accettare la propria posizione (ma qui la forza cui affidarsi non è più quella delle argomentazioni, bensì quella fisica o quella coercitiva di una legge autoritaria); oppure si accetta l'idea che le due posizioni siano entrambe legittime.
Si riconosce, in altri termini, che esse sono fondate su valori inconciliabili, ma che nessuno di tali valori, solo per il fatto di essere in conflitto con l'altro, debba essere estromesso dalla sfera della moralità.
Ebbene, dovrebbe essere chiaro che i principi del nostro Manifesto- almeno quelli centrali, dell'autonomia della persona e del pluralismo, attorno a cui ruota tutto il resto - fanno da sfondo a questa seconda soluzione. Tradotti in soldoni essi implicano l'idea che la legislazione non dovrebbe mai dare l'ultima parola a uno dei contendenti in lizza, ma dovrebbe cercare di contemperare le diverse esigenze e valori, evitando il più possibile i danni materiali e sociali. Il riferimento alla legislazione, e alla necessità di orientarla in senso pluralistico e non autoritario, aggiunge un'ulteriore sfumatura semantica alla nostra laicità e al senso che vogliamo darle. Una laicità che è storicamente incorporata nelle giurisdizioni moderne, fondate sulla separazione tra la religione e lo Stato. Uno Stato che, come ci suggerisce Guido Alpa, non deve essere né «etico» né «totalitario» né «confessionale». Il che non impedisce affatto, anzi dovrebbe incoraggiare - come suggeriva Tocqueville - il diffondersi di un autentico sentimento religioso.
E con questo speriamo di aver spiegato anche ai sordi e ai ciechi che cosa intendevamo per laico. Che non si contrappone a religioso, ma a dogmatico. Né il nostro ragionamento etsi deus non daretur è volto a impedire che ognuno persegua liberamente le proprie convinzioni religiose. Che vanno fatte valere durante la discussione pubblica, a patto soltanto che riescano a tener conto anche di quelle degli altri.
Laddove, nel Manifesto, si può percepire una contrapposizione tra la nostra visione laica e le visioni religiose, ci si riferisce in realtà solo alle componenti dogmatiche del pensiero religioso. Un dogmatismo da cui non sono aliene neppure certe forme di laicismo estremo, dominate da un culto religioso per la scienza, che siamo pronti a condannare con la stessa convinzione.
Siamo ben consapevoli che la dimensione religiosa non può essere eliminata a piacere dalla vita dell'uomo e «la apprezziamo - come scriviamo nel Manifesto - per quanto può contribuire alla formazione di una coscienza etica diffusa». Cerchiamo però anche di prendere sul serio la «varietà dell'esperienza religiosa», per dirla con Wiliam James, e il fatto che dall'inevitabile ammissione della varietà delle visioni del mondo - laiche o religiose che siano - deriva la necessità di richiamarsi ai principi laici e pluralisti. Per questo ci riferiamo esplicitamente alla pluralità delle etiche laiche e alla pluralità delle etiche religiose. Chi ci fa osservare che non esiste un'etica laica opposta a un'etica religiosa , dunque, sfonda una porta aperta.
Tuttavia una ragione seria per sconsigliare l'uso del termine laico c'è, ed è quella suggerita da Agazzi. «Nel contesto della cultura italiana - scrive - esso ha un significato corrente di sapore polemico: laico è il contrario di cattolico, e serve a indicare una parte, un campo, un'area, che si definisce per contrapposizione, appunto, alla parte, al campo, all'area cattolica». Questo significato contrappositivo, polemico, è un'estensione tutta italiana del senso dotto del termine laico, ed è dovuto essenzialmente al monopolio culturale in campo - morale esercitato a lungo dalla Chiesa in questo Paese.
Di questo significato polemico bisognava dunque tener conto. Ed è quello che abbiamo fatto. Ma per evitare la solita, futile, anacronistica, contrapposizione abbiamo dichiarato fin dall'inizio il nostro intento di «avvicinare due mondi - quello laico e quello cattolico che, in Italia, rischiano continuamente di fraintendersi». E' vero che qui il termine è usato nel senso contrappositivo: ma lo scopo è quello di indicare una contrapposizione che noi vorremmo fosse superata, non certo di fomentarla!
Il fatto che il termine laico significhi anche, in negativo, «anti-cattolico» non ci pare un buon motivo per sbarazzarsi completamente del termine e della ricchezza di significati, del tutto positivi, che per altro verso esso esprime. E sono appunto i principi e valori espressi in positivo, i quali non hanno alcun bisogno di contrapporsi ad altri, quelli su cui chiedevamo di confrontarci. Non è colpa nostra se ci è stato risposto, in non pochi casi, con la più trita delle contrapposizioni. Segno che, ancora oggi, il semplice uso della parola laico, fa scattare la paura della perdita del monopolio. Vi è dunque una tendenza, da parte dei nostri critici, e non certo nostra, a mettere l'accento sul significato negativo polemico del termine e a trascurare quelli positivi.
Manifesto di bioetica pluralista, o liberale, o civile: queste sono le alternative che ci sono state suggerite dai nostri critici e simpatizzanti come più adatte a evitare inutili scontri. E sono suggerimenti ottimi, che non modificherebbero di una virgola i nostri contenuti. Tuttavia, temiamo che qualunque aggettivazione avrebbe finito con l'assumere, per certe persone un senso contrappositivo suscitando una reazione del tipo: volete forse insinuare che noi non siamo pluralisti, liberali, o civili?
Insomma non se ne esce. O meglio, se ne esce, semplicemente evitando di prendere troppo sul serio il problema della contrapposizione e assumendo che inevitabilmente qualcuno si sarebbe, appunto, e del tutto legittimamente, contrapposto. Il che non è affatto un male, perché sono proprio le ragioni di chi si pone in aperto contrasto quelle che meritano la maggiore attenzione. Anche quando tali ragioni sono mescolate inestricabìlmente a una serie di colpi bassi volti a screditare moralmente l'avversario. Particolarmente scorrette abbiamo trovato certe armi usate dal Centro di bioetica dell'Università Cattolica, che, per esempio, in un documento pubblicato su Internet afferma che chi ammette la liceità della sperimentazione sull'embrione supera «un limite etico che per chiunque abbia onestà intellettuale è invalicabile».
Ancor più gravi sono le affermazioni di Angelo Fiori, che in un'editoriale della rivista «Medicina e morale» accusa i laici, genericamente, di pretendere autonomia dalle gerarchie religiose ma non certo da «altre potenti forze». «E' infatti sempre più evidente - scrive Fiori - lo stato di asservimento di certe posizioni, definite laiche, a ben precise ideologie filosofiche e politiche», oltre che «da lobbies che comprendono industrie».
Tutto ciò viola palesemente le basi minime dell'«etica del discorso» e della discussione pubblica. Ma che si vuole? Si tratta solo di fragili basi laiche, dunque possono essere impunemente violate! L'attacco più deciso ai contenuti del Manifesto è venuto proprio dal Centro della Cattolica, con un articolo firmato dal direttore Monsignor Elio Sgreccia e da Angelo Fiori, Adriano Pessina e Antonio G. Spagnolo. L'accusa nei nostri confronti è di vetero-positivismo-comtiano: «l'immagine ottimistica del sapere scientifico e dei suoi inarrestabili progressi, che trasuda da ogni riga di quello scritto, poteva formularla soltanto chi era nato prima di Hiroshima e Auschwitz, non aveva letto niente di Popper e Feyerabend e non era venuto a conoscenza degli esperimenti sugli esseri umani che hanno dato inizio alla complessa vicenda della riflessione bioetica».
Non è facile scomporre una per una tutte le imprecisioni e gli errori, storici e concettuali, che «trasudano» da questa piccola frase (o in realtà da tutto l'articolo). Proviamo almeno a indicarne alcuni.
Quanto al progresso, nel Manifesto è ben vero che esso è considerato «un valore etico fondamentale», perché è «soprattutto dal progresso della conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana». Questo significa, per inciso, che noi non attribuiamo alla sofferenza un particolare valore morale. Ma poco più avanti precisiamo anche che «non pensiamo, naturalmente, che il progresso in quanto tale sia automatico, né che sia garantito o inarrestabile. Ma proprio per questa ragione insistiamo sulla capacità degli uomini di giudicare, volta per volta, in che senso certi cambiamenti possano essere interpretati come effettivi miglioramenti e altri invece no, in un processo in cui l'analisi concettuale e la ragion critica svolgono un ruolo determinante».
E' questo un ragionamento da positivisti? I positivisti ottocenteschi, peraltro, come ci ricorda Carlo Augusto Viano, erano «ottime persone, magari un pò ingenue, ma molto meno bieche della media degli idealisti».
Speriamo che questo passo, che forse era loro sfuggito, tranquillizzi anche il «teologo dogmatico» Bruno Forte e l'epistemologo libertario Giulio Giorello che, nel loro scritto a quattro mani, ci dipingono come ingannati dagli «idoli della certezza» e pervasi da un'«ideologia scientista». E' davvero impressionante vedere come certi studiosi diventino maestri del dubbio quando devono replicare agli altri, mentre in proprio sostengono tesi monolitiche e incontrovertibili. Questo non vale per Giorello, il quale però mettendo giustamente in rilievo il carattere non definitivo delle conoscenze scientifiche rischia di gettarsi tra le braccia dell'autorità religiosa. Vista la sete di verità definitive ancora presente nell'opinione pubblica, se non può darcele la scienza, perché non potrebbe ritornare a fornircele il dogmatismo religioso?
Il passo sopra ricordato dovrebbe servire a spazzare via anche il poco pertinente riferimento a Hiroshima e ad Auschwitz. Non è certo a causa delle conoscenze scientifiche che gli uomini si ammazzano tra loro. Lo fanno anche a colpi di macete. Le affermazioni di Forte-Giorello assomigliano a quelle di D'Agostino sul dominio della tecnica e sulla necessità di una sua «risemantizzazione». Tutti sembrano condividere un'idea della scienza assai generale e astratta, che non discende da quello che la scienza è, ma da come heideggerianamente la «metafisica occidentale» la definisce. In realtà sono invece proprio gli scienziati, o almeno i migliori tra loro, ad essere coscienti dei limiti delle proprie conoscenze. Infine, se è vero che non solo la conoscenza, ma anche l'«amore» e la «compassione», possono lenire alcune sofferenze, è anche vero che anche queste producono i loro effetti perversi. Senza contare che c'è molta gente che non sopporta di essere compatita, o che non vuole suo malgrado essere amata da persone di cui non ha particolare stima.
Quanto a Popper e Feyerabend, nessuno dei due grandi epistemologi ha mai negato che, nell'impresa scientifica si abbia «crescita della conoscenza» - e dunque progresso. Semmai negavano che il progresso fosse banalmente cumulativo. La visione della scienza e della morale da noi sostenuta, del resto, si ispira proprio al loro fallibilismo, anche se nello spazio breve di un Manifesto, questo elemento forse non traspare a sufficienza: noi comunque sosteniamo apertamente che le società non sono immobili, che i valori e le conoscenze mutano continuamente, e che tali mutamenti non sono necessariamente dei progressi.
Inoltre sosteniamo che, proprio in forza del nostro fallibilismo, nessuno può avere il monopolio della verità. «L'amore della verità non tollera che esistano autorità superiori che fissino dall'esterno quel che è lecito e quel che non è lecito conoscere». Quel non tollera non è un lapsus freudiano, come dicono bonariamente Sgreccia e gli altri. Noi riteniamo davvero aberrante, e non tolleriamo l'idea, con cui ci rispondono, secondo cui: «L'autorità superiore che può autolimitare la nostra attività di ricerca è proprio quella verità, che non è certo esteriore, che dice chi è l'uomo e quale posto occupa nell'universo».
Ammettere l'esistenza di una tale verità astratta, di contro alle singole verità concrete cui invece noi facciamo riferimento, e collegarla a un'«autorità superiore» che ci «autolimita»... Un'autorità superiore, e dunque esterna, che ci autolimita? Questo sì che è un lapsus. E come la dice lunga su quanto siamo distanti sulla questione dell'autonomia delle persone!
Quanto agli «esperimenti sugli esseri umani», salvo alcuni casi eclatanti e sicuramente condannabili, non costituiscono affatto uno scandalo. Avvengono e sono regolamentati da molto tempo prima della nascita della bioetica.
«La sperimentazione su esseri umani - scrive per esempio Evandro Agazzi, nell'articolo che ha scritto per «Il Sole-24 Ore» come relatore dello statuto sull'embrione del Comitato nazionale per la bioetica - è da oltre un secolo un mezzo per far progredire la medicina e la biologia, ma essa é notoriamente regolata e limitata da una serie di norme comunemente accettate, e queste, se l'embrione deve essere trattato come una persona, non possono essere violate neppure nel suo caso». Il che significa, per inciso, che la sperimentazione sugli embrioni non è vietata, ma deve essere sottoposta a regole e limiti adeguati.
Ma è proprio sulla questione dell'embrione umano che Sgreccia (che insieme ad altri 15 componenti del Comitato nazionale ha firmato una dichiarazione in cui, di fatto, si dissocia dal documento generale scritto da Agazzi e prima votato all'unanimità) prende posizioni che a partire dai nostri principi sono inaccettabili. Egli infatti pretende di trarre la conclusione filosofica che l'embrione è una persona, con tutte le conseguenze morali che questo comporta, a partire da conoscenze biologiche che ritiene incontrovertibili. Bella coerenza, da parte di chi, pochi giorni prima, ci accusava dì positivismo!
Sgreccia si affida interamente all'autorità della scienza (laddove noi invece propugnamo apertamente il controllo democratico della medesima), commettendo un errore che neppure il più estremista dei laicisti, commetterebbe: pretendere di ricavare conclusioni di carattere etico immediatamente da conoscenze scientifiche, e di fondare così una morale assoluta che si pone al di là di ogni discussione e di ogni dialogo democratico.
Di fronte a posizioni di tale dogmatismo e intolleranza - che ci auguriamo minoritarie nel nostro Paese - noi laici, pluralisti, liberali, ma anche solo persone civili, tra le quali annoveriamo la maggior parte dei credenti, riteniamo che contrapporci, non solo non sia un problema, ma sia, anzi un dovere.