Corriere della Sera, 15/07/2005
Mazzini: la libertà non si può importare
Maestro esigente e misconosciuto, capì che gli italiani potevano contare solo su loro stessi
Mazzini non gode di grandi simpatie in Italia, se non in cerchie relativamente ristrette. Non è un eroe popolare, forse non lo è mai stato. Ci sono varie spiegazioni di ciò, né l’occasione del bicentenario della nascita può invertire la tendenza. Si potrebbero tentare varie spiegazioni. Ad esempio: quale forza politica italiana ne è stata davvero erede? Forse nessuna; nemmeno il Partito repubblicano, che pure a lui si è sempre esplicitamente richiamato. Il fatto è tanto più sorprendente, se si considera che il nome e l’esempio della sua azione ebbero invece risonanza anche molto lontano dall’Europa: ad esempio nella lotta dell’India per l’indipendenza. Nell’Italia cavouriana e poi postunitaria Mazzini era, per i pubblici poteri, un pericoloso sovversivo. È nota del resto l’ultima sua vicenda: il rientro clandestino in Italia, il tentativo di far sprigionare la rivoluzione a partire dalla Sicilia per liberare Roma dal governo papale (progetto non inverosimile dopo il crollo della Francia), l’arresto, la morte. Nei decenni seguenti, mentre si formava e si consolidava la vulgata sul nostro «risorgimento nazionale», lo schieramento democratico cercò di far entrare Mazzini nel «pantheon» ufficiale dell’Italia riunificata; e ottenne il successo, macchiato da qualche autocensura, di far decollare un’edizione nazionale delle sue opere. Ma nel frattempo il panorama politico italiano a cavallo tra Otto e Novecento si era talmente modificato che Mazzini restò piuttosto in un «limbo». Non assunse il ruolo di bandiera o di simbolo: non lo era per il nascente movimento socialista, e lo era solo a parole per le forze democratiche non socialiste. Il fatto è che Mazzini era - e resta - un maestro difficile, un maestro esigente. E la stessa «canonizzazione» e il connesso, parziale, svigorimento della sua autentica immagine gli hanno alla fine nociuto. Siamo ancora alla ricerca e al chiarimento del suo «vero» pensiero: un campo nel quale gli studi di Salvo Mastellone, riscopritore del «Mazzini inglese», hanno conseguito ottimi risultati e guadagnato grandi meriti. Ci sono molti aspetti che a questo punto sarebbe opportuno evocare. Per esempio quelli che ha messo in luce Maurizio Viroli nella stringata ed efficace prefazione alla rinnovata edizione Utet degli Scritti politici (pp. 1152, 29): la estrema attualità, nonostante le apparenze, della mazziniana priorità dei doveri; il richiamo alla forza della religiosità come veicolo di redenzione politica di massa; la nozione per nulla nazionalistica di «patria», etc. Ma ce n’è uno, oggi attualissimo, che fu messo con grande efficacia in luce da Benedetto Croce nel quinto capitolo della Storia d’Europa nel secolo decimonono uscita da Laterza nel 1932 (ora edita da Adelphi, pp. 474, 10,33), cui vorrei qui dare rilievo. Scrive Croce, in quel capitolo, che la vera grandezza di Mazzini consistette nell’aver compreso molto presto, già all’indomani della rivoluzione parigina del luglio 1830 (quando lui aveva appena 25 anni) che la libertà non si deve attendere che ce la portino gli altri, da fuori. I popoli si liberano da soli o non si liberano: questo, al di là delle alterne vicende che gli toccarono in vita, il senso durevole del suo insegnamento. Ed è alla luce di questo che l’esportazione, armi in pugno, oggi in voga, della «democrazia», praticata da chi pensa che il mondo vada «presidiato», non ha né senso né futuro.
Mazzini: la libertà non si può importare
Maestro esigente e misconosciuto, capì che gli italiani potevano contare solo su loro stessi
Mazzini non gode di grandi simpatie in Italia, se non in cerchie relativamente ristrette. Non è un eroe popolare, forse non lo è mai stato. Ci sono varie spiegazioni di ciò, né l’occasione del bicentenario della nascita può invertire la tendenza. Si potrebbero tentare varie spiegazioni. Ad esempio: quale forza politica italiana ne è stata davvero erede? Forse nessuna; nemmeno il Partito repubblicano, che pure a lui si è sempre esplicitamente richiamato. Il fatto è tanto più sorprendente, se si considera che il nome e l’esempio della sua azione ebbero invece risonanza anche molto lontano dall’Europa: ad esempio nella lotta dell’India per l’indipendenza. Nell’Italia cavouriana e poi postunitaria Mazzini era, per i pubblici poteri, un pericoloso sovversivo. È nota del resto l’ultima sua vicenda: il rientro clandestino in Italia, il tentativo di far sprigionare la rivoluzione a partire dalla Sicilia per liberare Roma dal governo papale (progetto non inverosimile dopo il crollo della Francia), l’arresto, la morte. Nei decenni seguenti, mentre si formava e si consolidava la vulgata sul nostro «risorgimento nazionale», lo schieramento democratico cercò di far entrare Mazzini nel «pantheon» ufficiale dell’Italia riunificata; e ottenne il successo, macchiato da qualche autocensura, di far decollare un’edizione nazionale delle sue opere. Ma nel frattempo il panorama politico italiano a cavallo tra Otto e Novecento si era talmente modificato che Mazzini restò piuttosto in un «limbo». Non assunse il ruolo di bandiera o di simbolo: non lo era per il nascente movimento socialista, e lo era solo a parole per le forze democratiche non socialiste. Il fatto è che Mazzini era - e resta - un maestro difficile, un maestro esigente. E la stessa «canonizzazione» e il connesso, parziale, svigorimento della sua autentica immagine gli hanno alla fine nociuto. Siamo ancora alla ricerca e al chiarimento del suo «vero» pensiero: un campo nel quale gli studi di Salvo Mastellone, riscopritore del «Mazzini inglese», hanno conseguito ottimi risultati e guadagnato grandi meriti. Ci sono molti aspetti che a questo punto sarebbe opportuno evocare. Per esempio quelli che ha messo in luce Maurizio Viroli nella stringata ed efficace prefazione alla rinnovata edizione Utet degli Scritti politici (pp. 1152, 29): la estrema attualità, nonostante le apparenze, della mazziniana priorità dei doveri; il richiamo alla forza della religiosità come veicolo di redenzione politica di massa; la nozione per nulla nazionalistica di «patria», etc. Ma ce n’è uno, oggi attualissimo, che fu messo con grande efficacia in luce da Benedetto Croce nel quinto capitolo della Storia d’Europa nel secolo decimonono uscita da Laterza nel 1932 (ora edita da Adelphi, pp. 474, 10,33), cui vorrei qui dare rilievo. Scrive Croce, in quel capitolo, che la vera grandezza di Mazzini consistette nell’aver compreso molto presto, già all’indomani della rivoluzione parigina del luglio 1830 (quando lui aveva appena 25 anni) che la libertà non si deve attendere che ce la portino gli altri, da fuori. I popoli si liberano da soli o non si liberano: questo, al di là delle alterne vicende che gli toccarono in vita, il senso durevole del suo insegnamento. Ed è alla luce di questo che l’esportazione, armi in pugno, oggi in voga, della «democrazia», praticata da chi pensa che il mondo vada «presidiato», non ha né senso né futuro.