l’Unità 3.6.10
La storia di un gruppo di tredicenni violati da un prete a Pomezia
L’allora vescovo di Albano «impedì» ai Pm di fare luce
Gli abusi di Don Marco negati dalla Curia anche ai magistrati
di Andrea Palladino
«Dopo la nostra seconda denuncia raccontano le vittime il sacerdote fu spostato in un ostello per giovani ad Assisi». Gli investigatori si trovarono davanti a un muro di omertà. E così Don Marco venne sempre «coperto».
Hanno nomi che non puoi dimenticare, che rimangono impressi appena ti stringono la mano, con vigore, guardandoti negli occhi. Sono ragazzi normali, di una normale periferia romana, qualcuno sposato, qualcuno con figli piccoli. Hanno alle spalle anni di paure, di vergogna e di abusi, venuti da un prete che avevano cercato di fermare. Prima rivolgendosi al loro vescovo, nel 1998. Poi al suo successore, nel 2002, che promise l’avvio di un processo ecclesiastico, chiedendo, però, di non denunciare nulla alla giustizia civile. E, dopo altri due anni di silenzio imposto, alla Polizia, perché a quella giustizia ecclesiastica ormai non credevano più.
Oggi ascoltano con rabbia le parole venute dalla massima autorità dei vescovi italiani: «Se vi sono state coperture di abusi sessuali anche in Italia ha spiegato il presidente della Cei Bagnasco qualche giorno fa il giudizio della Chiesa è quello noto: si tratta di una cosa sbagliata». La storia di questo gruppo di ragazzi di Pomezia, alle porte di Roma, mostra, se non bastassero le parole di Bagnasco, come la Chiesa abbia chiuse le porte alla giustizia nei casi di pedofilia. Prima chiedendo il silenzio, poi rifiutando ogni collaborazione con i magistrati che cercavano di ricostruire le responsabilità e le coperture. «Padre Marco raccontano a distanza di anni i ragazzi di Pomezia l’hanno semplicemente spostato dopo la nostra seconda denuncia, mandandolo in un ostello per giovani ad Assisi, lasciando che molti ragazzi continuassero a frequentarlo». Mostrano una foto, che ritrae un prete barbuto, forte padre Marco Agostini mentre concelebra la messa solo un paio di mesi prima degli arresti e quattro anni dopo la loro denuncia fatta davanti all’allora vescovo di Albano laziale Agostino Vallini, oggi cardinale vicario di Roma. Nessuna sospensione a divinis, nessuna condanna.
E’ dal fascicolo del processo, però, che esce il documento che racconta meglio di qualsiasi inchiesta come la chiesa ha evitato, almeno in questo caso, di collaborare con i magistrati. E’ una lettera con la firma autorevole del vescovo di Albano Laziale Marcello Semeraro, succeduto a Vallini nel 2004. La data è del 30 maggio 2006, quando Ratzinger già aveva assunto il nome di Benedetto XVI. Rispondeva alla richiesta arrivata dalla Procura di Velletri che aveva appena ottenuto dal Gip la misura cautelare per padre Marco Agostini di poter avere le informazioni raccolte dalla Curia. Gli investigatori, durante due anni di indagini delicatissime, si erano trovati davanti a un muro di omertà impenetrabile, tanto che altri due sacerdoti, della stessa congregazione del prete accusato di pedofilia, gli Oblati di San Francesco di Sales, erano finiti sotto processo per favoreggiamento.
«Sono spiacente di non poter esaudire la richiesta» è la frase lapidaria di risposta del vescovo di Albano. Motivo? La “disposizione dell’articolo 4, n. 4 dell’accordo che apporta modificazioni al Concordato Lateranense”, ovvero l’accordo stato-chiesa firmato da Bettino Craxi il 18 febbraio 1984. Un accordo che ha fornito il supporto legale per negare ai magistrati le informazioni sui preti pedofili: «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero», recita la norma firmata nel 1984.
La Procura della Repubblica di Velletri, non si arrese, risposte che se è vero che non c’è l’obbligo, è anche vero che non c’è il divieto, rimettendo tutto nella discrezionalità dei vescovi. Ma nulla è accaduto, gli atti del processo ecclesiastico non sono mai stati forniti.
Oggi paradossalmente il processo rischia di non arrivare nemmeno a conclusione. Padre Marco è morto tragicamente, uccidendosi nella casa della sorella dove stava scontando gli arresti domiciliari. L’unica imputazione rimasta in piedi riguarda un’accusa di favoreggiamento per un sacerdote della sua stessa congregazione, con una prescrizione ormai vicinissima. In questo processo per la prima volta il giudice aveva ammesso la possibilità di agire anche contro la Curia, per una omessa vigilanza. Tutto inutile, probabilmente. Ai ragazzi di Pomezia non resta che dimenticare, senza giustizia.
La storia di un gruppo di tredicenni violati da un prete a Pomezia
L’allora vescovo di Albano «impedì» ai Pm di fare luce
Gli abusi di Don Marco negati dalla Curia anche ai magistrati
di Andrea Palladino
«Dopo la nostra seconda denuncia raccontano le vittime il sacerdote fu spostato in un ostello per giovani ad Assisi». Gli investigatori si trovarono davanti a un muro di omertà. E così Don Marco venne sempre «coperto».
Hanno nomi che non puoi dimenticare, che rimangono impressi appena ti stringono la mano, con vigore, guardandoti negli occhi. Sono ragazzi normali, di una normale periferia romana, qualcuno sposato, qualcuno con figli piccoli. Hanno alle spalle anni di paure, di vergogna e di abusi, venuti da un prete che avevano cercato di fermare. Prima rivolgendosi al loro vescovo, nel 1998. Poi al suo successore, nel 2002, che promise l’avvio di un processo ecclesiastico, chiedendo, però, di non denunciare nulla alla giustizia civile. E, dopo altri due anni di silenzio imposto, alla Polizia, perché a quella giustizia ecclesiastica ormai non credevano più.
Oggi ascoltano con rabbia le parole venute dalla massima autorità dei vescovi italiani: «Se vi sono state coperture di abusi sessuali anche in Italia ha spiegato il presidente della Cei Bagnasco qualche giorno fa il giudizio della Chiesa è quello noto: si tratta di una cosa sbagliata». La storia di questo gruppo di ragazzi di Pomezia, alle porte di Roma, mostra, se non bastassero le parole di Bagnasco, come la Chiesa abbia chiuse le porte alla giustizia nei casi di pedofilia. Prima chiedendo il silenzio, poi rifiutando ogni collaborazione con i magistrati che cercavano di ricostruire le responsabilità e le coperture. «Padre Marco raccontano a distanza di anni i ragazzi di Pomezia l’hanno semplicemente spostato dopo la nostra seconda denuncia, mandandolo in un ostello per giovani ad Assisi, lasciando che molti ragazzi continuassero a frequentarlo». Mostrano una foto, che ritrae un prete barbuto, forte padre Marco Agostini mentre concelebra la messa solo un paio di mesi prima degli arresti e quattro anni dopo la loro denuncia fatta davanti all’allora vescovo di Albano laziale Agostino Vallini, oggi cardinale vicario di Roma. Nessuna sospensione a divinis, nessuna condanna.
E’ dal fascicolo del processo, però, che esce il documento che racconta meglio di qualsiasi inchiesta come la chiesa ha evitato, almeno in questo caso, di collaborare con i magistrati. E’ una lettera con la firma autorevole del vescovo di Albano Laziale Marcello Semeraro, succeduto a Vallini nel 2004. La data è del 30 maggio 2006, quando Ratzinger già aveva assunto il nome di Benedetto XVI. Rispondeva alla richiesta arrivata dalla Procura di Velletri che aveva appena ottenuto dal Gip la misura cautelare per padre Marco Agostini di poter avere le informazioni raccolte dalla Curia. Gli investigatori, durante due anni di indagini delicatissime, si erano trovati davanti a un muro di omertà impenetrabile, tanto che altri due sacerdoti, della stessa congregazione del prete accusato di pedofilia, gli Oblati di San Francesco di Sales, erano finiti sotto processo per favoreggiamento.
«Sono spiacente di non poter esaudire la richiesta» è la frase lapidaria di risposta del vescovo di Albano. Motivo? La “disposizione dell’articolo 4, n. 4 dell’accordo che apporta modificazioni al Concordato Lateranense”, ovvero l’accordo stato-chiesa firmato da Bettino Craxi il 18 febbraio 1984. Un accordo che ha fornito il supporto legale per negare ai magistrati le informazioni sui preti pedofili: «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero», recita la norma firmata nel 1984.
La Procura della Repubblica di Velletri, non si arrese, risposte che se è vero che non c’è l’obbligo, è anche vero che non c’è il divieto, rimettendo tutto nella discrezionalità dei vescovi. Ma nulla è accaduto, gli atti del processo ecclesiastico non sono mai stati forniti.
Oggi paradossalmente il processo rischia di non arrivare nemmeno a conclusione. Padre Marco è morto tragicamente, uccidendosi nella casa della sorella dove stava scontando gli arresti domiciliari. L’unica imputazione rimasta in piedi riguarda un’accusa di favoreggiamento per un sacerdote della sua stessa congregazione, con una prescrizione ormai vicinissima. In questo processo per la prima volta il giudice aveva ammesso la possibilità di agire anche contro la Curia, per una omessa vigilanza. Tutto inutile, probabilmente. Ai ragazzi di Pomezia non resta che dimenticare, senza giustizia.