venerdì 9 novembre 2007

Il dolore come cura, E l’anestesia era un’idea satanica

La Stampa 5.8.06
Il dolore come cura E l’anestesia era un’idea satanica
CENTOSESSANT’ANNI FA LA PRIMA OPERAZIONE SU UN PAZIENTE ADDORMENTATO. PERÒ MOLTI MEDICI NON ACCETTARONO LA NOVITÀ
di Eugenia Tognotti
A prima vista, quello rappresentata in uno dei primi e più noti dagherrotipi sembrerebbe un normale intervento chirurgico in ambito ospedaliero, col paziente ancora disteso sul tavolo operatorio. Ma, a osservarla meglio, quella scena - che rappresenta la prima operazione indolore della storia - ha ben poco d’ordinario. E lo dimostra la centralità di quel corpo arreso, addormentato, e l’espressione attonita, quasi incredula, del gruppo di chirurghi e testimoni che sostano nella sala operatoria del Massachussets General Hospital di Boston, il 16 ottobre 1846: attoniti, quasi increduli, consapevoli di essere di fronte a una tappa fondamentale nell’eterna lotta per lenire o eliminare il dolore. E, di certo, dovevano misurare tutto il contrasto tra le immagini che avevano davanti e quelle cruente e drammatiche proprie della grande interventistica pre-anestetica: i fiotti di sangue; il terrore e le urla; i contorcimenti del paziente legato con cinghie di tela al tavolo di legno; le spugne imbevute d’acqua ghiacciata sul campo operatorio; il rapidissimo movimento dei ferri, il più possibile lontano dai grossi vasi sanguigni. E, naturalmente, il dolore nella sua dimensione corporea. Quello che atterrisce e sgomenta nella muta implorazione impressa nel marmo della statua di Laocoonte, straziato dai denti del serpente nelle carni. Quell’evento, che apriva la strada alla possibilità di produrre insensibilità al dolore mediante l’inalazione di gas chimici, è ricordato nelle cronologie delle scoperte scientifiche e debitamente celebrato, anche quest’anno, negli anniversari, con convegni e libri, in particolare negli Stati Uniti, dove la pratica era stata sperimentata per la prima volta da due dentisti - Horace Wells e William Morton - destinati all’oblio e, il primo, persino al disonore.Per secoli, la medicina aveva dovuto confrontarsi con la quasi totale impossibilità di controllare il dolore fisico - il «dolor corporis» di cui parla Seneca -, caratteristica essenziale della malattia. Lenirlo era (ed è) il fine essenziale d’ogni medicina: «Divinum opus est sedare dolorem», era il detto della tradizione.Ma nell’Antichità, per tutto il Medioevo e per buona parte dell’epoca moderna c’era ben poco che i medici potessero fare se non, dicevano i francesi, «consoler et amuser», consolare e rasserenare il paziente. In chirurgia si ricorreva agli impacchi di ghiaccio, all’alcool, alla mandragora, alla canapa indiana, all’oppio, dal greco «òpion» (succo), la cui efficacia contro il dolore era conosciuta da sempre: ne parla, tra gli altri, il naturalista ed esperto d’arte medica Celso, nel suo De Medicina (30 d.C.) e, secoli dopo, colui che volle chiamarsi Paracelso, «più di Celso», cioè il medico iconoclasta Philippus Theophrastus Bombastus von Hohenheim (1493-1541), il primo a inventare «l’acqua bianca», l’etere, facendo reagire l’acido solforico con alcol. Ma l’implacabile demolitore della tradizione della medicina arabo-galenica mise a punto anche il laudano (tintura di oppio), destinato, invece, ad affermarsi prima in campo terapeutico: vi ricorrono artisti e grandi dame per curare languori e pene d’amore, ma anche uomini d’arme e condottieri come Napoleone e Orazio Nelson, tormentato dai dolori dopo la maldestra amputazione del braccio ferito, nel 1797, nel corso dell’ardimentoso attacco a Santa Cruz di Tenerife.Nella seconda metà di quel secolo, la ricerca di presidi antidolorifici conosce prima il capitolo dell’ipnosi del medico tedesco Franz Anton Messmer, sostenitore dell’impiego terapeutico del magnetismo animale; quindi, quello del protossido d’azoto, detto anche «gas esilarante» per la sua capacità di modificare il tono dell’umore. Ma le applicazioni pratiche delle ricerche si faranno attendere fino a metà del XIX secolo. Nel terzo decennio, il rituale operatorio è lo stesso del passato, Ecco, ad esempio, come due chirurghi procedono all’amputazione della gamba del giovane patriota, scrittore e musicista Pietro Maroncelli, rinchiuso nella tetra fortezza dello Spielberg. Niente tavolo operatorio. Niente pratiche di asepsi e antisepsi. Niente antidolorifici. A sostenere l’«eretico e sedizioso» prigioniero, il suo pietoso amico, Silvio Pellico, cui si deve la sobria descrizione: «Il malato fu seduto sulla sponda del letto colle gambe giù... Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che dovea fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò tutto intorno, la profondità d’un dito; poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo, si segò l’osso».Di lì a poco, la pratica dell’anestesia avrebbe cominciato il suo cammino. E, intanto, entravano in scena gli antidolorifici, che suscitavano inquietudini e dilemmi morali, la cui eco arriva ai nostri giorni. I medici dovevano destreggiarsi tra due imperativi solenni: alleviare la sofferenza e, allo stesso tempo, non danneggiare il malato («Primum non nocere»): ma come era possibile prevedere gli effetti precisi dei trattamenti con oppiacei? Per molti medici il dolore era un «segnale» importante e alcuni pensavano che la sua eliminazione influisse negativamente sul processo di guarigione spontanea.Non è, dunque, una marcia trionfale quella dell’etere e del cloroformio. Il superamento del dolore metteva in crisi la visione cristiana e antropologica. L’anestesia - definita «satanica» dal presidente dell’associazione dei dentisti americani e non sicura da un giornale medico a metà Ottocento - implicava un intervento su pazienti non coscienti e poteva avere effetti indesiderati. Persino medici e scienziati affermarono che non si sarebbero mai affidati a un chirurgo nello stato d’incoscienza reso possibile dall’anestesia e dalla narcosi da etere, più tardi dalla morfina (da Morfeo, dio del sonno) e da altre tecniche. Il cloroformio stentò ad affermarsi in ginecologia perché sembrava contrastare l’inesorabile sentenza biblica «Tu partorirai con dolore». E soltanto la notizia che la Regina Vittoria l’aveva accettato in uno dei suoi parti ne favorì la diffusione tra le dame dell’alta società europea.È una lunga storia - di successi e fallimenti - quella della lotta contro il dolore che, in ogni tempo, ha sollecitato nelle culture occidentali la riflessione di pensatori e filosofi: che significato ha il dolore nelle nostre vite? Perché un Dio d’amore permette la sofferenza? Fin dove ci si può spingere nella ricerca di mezzi per trovare sollievo? Queste domande hanno accompagnato le grandi trasformazioni nella percezione del dolore, dei mezzi per rilevarlo e della conoscenza scientifica, fino agli analgesici e agli efficaci presidi dei nostri giorni. A più di un secolo e mezzo dal primo successo dell’uomo nella lotta contro il dolore, la sfida continua e la medicina, nel farvi fronte, non può che porsi a cavallo tra le scienze della natura e quelle dello spirito, affrontando il dolore non solo sul piano fisiologico e psicologico, ma interrogandosi anche sul suo «senso», antropologico e filosofico, per superare la tecnica e arrivare a una cultura della guarigione.