l'Unità 26.4.08
Caricare di responsabilità il medico che ha di fronte un malato non più in grado di decidere è ingiusto oltre che sbagliato
Perché i medici hanno bisogno del testamento biologico
di Luciano Orsi
Se il paziente è ormai incosciente come si fa a rispettarne la volontà?
Ogni medico decide «in scienza e coscienza» ma questo non può bastare
Non passa giorno che da qualche parte non si sbandierino le grandi potenzialità terapeutiche della medicina. Tutti ormai sanno che l’attuale medicina dispone di molte “armi terapeutiche” che è tecnicamente possibile impiegare nelle fasi avanzate e terminali delle malattie inguaribili. Per converso quasi nessuno chiarisce che molto spesso la loro applicazione è controversa sia dal punto di vista clinico che etico. Infatti, soprattutto nel caso dei trattamenti di sostegno vitale (respirazione, idratazione e nutrizione artificiali, dialisi, ecc.) la correttezza clinica e la giustezza etica diminuiscono con l’aggravarsi della malattia e l’aumento degli oneri fisici e psichici imposti da tali trattamenti. Può il medico, di fronte ad un malato capace di intendere, volere e decidere, decidere da solo se tali trattamenti sono appropriati? La normativa giuridica, la deontologia e qualunque teoria etica rispondono senza esitazione con un secco “no”, poiché senza il consenso informato nessun trattamento, anche se clinicamente appropriato, è eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) lecito. Ma cosa succede se il malato perde la capacità di decidere per una demenza avanzata o un ictus grave? Senza un testamento biologico tutto il potere decisionale si concentra nelle mani del medico. Anche se il malato ha espresso in precedenza la volontà di non subire un trattamento, nessuno, neanche un parente stretto, può opporsi alla decisione de medico. La scelta finale dipende solo dall’orientamento del singolo medico che può ispirare la propria decisione ai pregressi desideri del malato o, all’opposto, ai suoi valori personali. Ma come si rapportano questi valori con le precedenti volontà di un malato che quasi sempre non ha mai visto prima o con cui non ha mai parlato di quali terapie praticare alla fine della vita?
Si dice, in modo rituale, che il medico decide in “scienza e coscienza”, ma tale supposta virtù che rapporti ha con i valori del malato, con le sue convinzioni morali, le sue ispirazioni spirituali? Come fa il medico a decidere “per il bene del malato” se non conosce qual è il giudizio del malato su ciò che è “bene per se stesso”? Cosa c’entra la “retta tradizione ippocratica della medicina” con le più intime convinzioni del malato, con la sua concezione di dignità, con la sua visione del mondo, con la sua concezione di qualità di vita, con il peso dei trattamenti che lui avrebbe giudicato sopportabile?
Non illudiamoci, non esiste, né mai esiterà, alcuna formula magica che permetta di calcolare se un determinato trattamento è proporzionato o se, invece, è un trattamento in eccesso. L’eccesso di un trattamento, impropriamente denominato “accanimento terapeutico”, non può essere fissato per decreto o normato in alcun modo da nessuna Autorità Morale, poiché dipende dal giudizio che i singoli soggetti assegnano ad alcuni elementi come le probabilità di successo di una terapia, il rapporto fra un presunto aumento della qualità e quantità di vita biologica ed i rischi connessi. Pertanto, una stessa terapia può essere eticamente appropriata per un individuo e sporporzionata per un altro individuo in base ad una diversa concezione della medicina, della qualità della vita, della malattia e della morte.
Se il medico italiano vuole davvero rispettare le volontà pregresse di un malato ormai mentalmente incapace non può che ispirarsi alle consolidate esperienze dei colleghi di tante nazioni in cui il testamento biologico è operante ed attivarsi per aiutare ogni suo assistito che lo desidera e/o che volge verso la fase finale delle malattie a pianificare in via anticipata i trattamenti. Questa è la sola strada per formulare delle direttive anticipate che orientino in modo eticamente legittimo le inevitabili decisioni terapeutiche che i medici dovranno prendere quando il malato non potrà più farlo in prima persona.
Caricare di responsabilità il medico che ha di fronte un malato non più in grado di decidere è ingiusto oltre che sbagliato
Perché i medici hanno bisogno del testamento biologico
di Luciano Orsi
Se il paziente è ormai incosciente come si fa a rispettarne la volontà?
Ogni medico decide «in scienza e coscienza» ma questo non può bastare
Non passa giorno che da qualche parte non si sbandierino le grandi potenzialità terapeutiche della medicina. Tutti ormai sanno che l’attuale medicina dispone di molte “armi terapeutiche” che è tecnicamente possibile impiegare nelle fasi avanzate e terminali delle malattie inguaribili. Per converso quasi nessuno chiarisce che molto spesso la loro applicazione è controversa sia dal punto di vista clinico che etico. Infatti, soprattutto nel caso dei trattamenti di sostegno vitale (respirazione, idratazione e nutrizione artificiali, dialisi, ecc.) la correttezza clinica e la giustezza etica diminuiscono con l’aggravarsi della malattia e l’aumento degli oneri fisici e psichici imposti da tali trattamenti. Può il medico, di fronte ad un malato capace di intendere, volere e decidere, decidere da solo se tali trattamenti sono appropriati? La normativa giuridica, la deontologia e qualunque teoria etica rispondono senza esitazione con un secco “no”, poiché senza il consenso informato nessun trattamento, anche se clinicamente appropriato, è eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) lecito. Ma cosa succede se il malato perde la capacità di decidere per una demenza avanzata o un ictus grave? Senza un testamento biologico tutto il potere decisionale si concentra nelle mani del medico. Anche se il malato ha espresso in precedenza la volontà di non subire un trattamento, nessuno, neanche un parente stretto, può opporsi alla decisione de medico. La scelta finale dipende solo dall’orientamento del singolo medico che può ispirare la propria decisione ai pregressi desideri del malato o, all’opposto, ai suoi valori personali. Ma come si rapportano questi valori con le precedenti volontà di un malato che quasi sempre non ha mai visto prima o con cui non ha mai parlato di quali terapie praticare alla fine della vita?
Si dice, in modo rituale, che il medico decide in “scienza e coscienza”, ma tale supposta virtù che rapporti ha con i valori del malato, con le sue convinzioni morali, le sue ispirazioni spirituali? Come fa il medico a decidere “per il bene del malato” se non conosce qual è il giudizio del malato su ciò che è “bene per se stesso”? Cosa c’entra la “retta tradizione ippocratica della medicina” con le più intime convinzioni del malato, con la sua concezione di dignità, con la sua visione del mondo, con la sua concezione di qualità di vita, con il peso dei trattamenti che lui avrebbe giudicato sopportabile?
Non illudiamoci, non esiste, né mai esiterà, alcuna formula magica che permetta di calcolare se un determinato trattamento è proporzionato o se, invece, è un trattamento in eccesso. L’eccesso di un trattamento, impropriamente denominato “accanimento terapeutico”, non può essere fissato per decreto o normato in alcun modo da nessuna Autorità Morale, poiché dipende dal giudizio che i singoli soggetti assegnano ad alcuni elementi come le probabilità di successo di una terapia, il rapporto fra un presunto aumento della qualità e quantità di vita biologica ed i rischi connessi. Pertanto, una stessa terapia può essere eticamente appropriata per un individuo e sporporzionata per un altro individuo in base ad una diversa concezione della medicina, della qualità della vita, della malattia e della morte.
Se il medico italiano vuole davvero rispettare le volontà pregresse di un malato ormai mentalmente incapace non può che ispirarsi alle consolidate esperienze dei colleghi di tante nazioni in cui il testamento biologico è operante ed attivarsi per aiutare ogni suo assistito che lo desidera e/o che volge verso la fase finale delle malattie a pianificare in via anticipata i trattamenti. Questa è la sola strada per formulare delle direttive anticipate che orientino in modo eticamente legittimo le inevitabili decisioni terapeutiche che i medici dovranno prendere quando il malato non potrà più farlo in prima persona.