Corriere della Sera 23.4.08
Scienza e morale, l'utopia del dialogo
Boncinelli: «La ricerca punta ai risultati, non ai valori». Severino:«Ma impone la sua verità»
dialogo tra EDOARDO BONCINELLI ed EMANUELE SEVERINO
Boncinelli: Credo che da nessun punto di vista possa sussistere un contrasto tra scienza ed etica, perché si tratta di discipline che si occupano di problemi diversi. Ciò che di norma viene definito come contrasto tra scienza ed etica è in realtà il contrasto tra etiche diverse, ovvero tra portatori di etiche diverse, dove la scienza non è che il fornitore degli argomenti. Cinquant'anni fa non si poteva discutere di alcune cose per il semplice motivo che non erano possibili; prendiamo l'esempio della fecondazione assistita. La scienza ha messo sul tavolo opportunità che prima non esistevano e che hanno fatto discutere; ma a discuterne non sono gli scienziati con gli eticisti: a discuterne sono i portatori di un'etica con i portatori di un'altra etica. O, per meglio dire, i portatori di un'etica con i portatori di molte altre etiche, perché ci troviamo di fronte, da una parte, a una sorta di monolite che è l'etica cattolica, e dall'altra a tutto un ventaglio di posizioni abbastanza diverse, giacché la cosiddetta etica laica in realtà è unificata solo da una maggiore tolleranza per il progresso, una maggiore attenzione agli interessi dell'individuo e da un richiamo ridotto al magistero della tradizione. Da parte laica, e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, c'è una vastissima gamma di posizioni, tanto che la contrapposizione fatta da Giovanni Fornero nel suo bellissimo libro, Bioetica cattolica e bioetica laica, pubblicato da Bruno Mondadori, è utile ma leggermente forzata. La scienza in tutto questo non c'entra, se non, lo ripeto, come fornitrice di occasioni.
Severino: Certo, si tende ad avere questa immagine della scienza come semplice fornitrice di occasioni, o come semplice strumento in vista della realizzazione di scopi che non appartengono allo strumento ma, al contrario, vedo una profonda solidarietà tra etica e scienza. Bisogna cominciare a chiedersi il significato di queste parole. Etica è una parola greca. Non che prima dei Greci non vi fossero problemi di carattere morale, sebbene, col pensiero greco, l'etica acquista una connotazione che potremmo dire inaudita. Allora, che cos'è l'etica prima e dopo questa connotazione inaudita? I popoli vivono, e credono di poter vivere meglio se si alleano con ciò che essi ritengono sia per loro la potenza suprema, e questo è abbastanza naturale, poiché per vivere mi appoggio a ciò che ritengo stabile, capace di reggere. Allora, questo agganciarsi a ciò che si ritiene la potenza suprema è il vivere in un ambiente rassicurante. La parola etica indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine. Etica vuol dire: vivere in un luogo rassicurante perché ci si trova in accordo e non in contrapposizione con la potenza. Se vivo in un luogo e so che è minacciato, e so di non avere strumenti per difendermi, vado altrove. Invece ethos in greco indica la consuetudine, che è insieme l'ambiente in cui ci si può difendere.
Ma difendersi da che cosa? Dal dolore, dalla morte, dall'angoscia, dalla sofferenza, dai pericoli. Ora, con il pensiero greco, questo atteggiamento assume una radicalità che qualificavo come inaudita: la potenza con la quale ci si allea per sopravvivere e per difendersi dal pericolo è cio che il pensiero greco chiama «verità ». Se ci si allea con una finta potenza, allora l'alleanza è insicura; è quindi inevitabile che emerga l'esigenza di allearsi con ciò che è la vera potenza, che l'ethos sia l'alleanza con la vera potenza. Ma per fare questo bisogna che cominci a esserci l'idea o il significato della parola verità. È solo perché il pensiero greco porta alla luce il significato radicale della verità, che ci può essere un'alleanza con la potenza vera.
Ora, tutto quello che abbiamo detto dell'etica dobbiamo dirlo anche per la scienza, che non è affatto quella semplice occasione di opportunità, quella neutralità rispetto agli scopi di cui tu parli. No, anche la scienza merita che si dica di essa ciò che già aveva detto Nietzsche: la scienza nasce dalla paura, così come l'etica, perché difendersi alleandosi alla potenza vuole dire cercare di andare oltre la paura.
Cio che noi oggi diciamo «scienza » è lo sviluppo di tutte le tecniche messe in atto dagli uomini per non avere paura e per riuscire a sopravvivere. Qual è l'etica della scienza? La scienza ha ed è di per sé un'etica. E perché? Perché ha quell'insieme di procedure che, soprattutto oggi, dà agli uomini la fede, la convinzione che essa sia lo strumento che più efficacemente di altri consente di allontanare la paura. Allora etica significa difendersi dalla paura alleandosi alla potenza, che oggi viene dalla scienza identificata con la potenza soprattutto tecnologica; in questo senso non c'è scissione tra etica e scienza.
Nella tradizione, la vera potenza è quella verità il cui contenuto è soprattutto il Dio, quindi la potenza di una conoscenza indiscutibile che dice in modo indiscutibile:
il vero potente è Dio. Oggi non si dice piu così, anche se si dice una cosa simile; è cambiato il protagonista, è cambiata la qualifica del potente. Oggi il vero potente è la tecnica. La tecnica è l'erede della funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio.
***
Boncinelli: Oggi si parla tanto di dialogare. Ma un vero dialogo, non formale e con pieno intendimento delle ragioni dell'uno da parte dell'altro, è raro e difficile. Forse appartiene alle tante favole della modernità. Si parla in particolare di dialogo fra scienza e filosofia. Non so se la scienza possa dialogare con la filosofia, ma certo io non posso dialogare con i filosofi, anche i più vicini a me per formazione e convinzione, almeno con quelli che conosco, salvo pochissime eccezioni.
La spiegazione che mi sono dato invoca la diversa natura della vocazione di chi si dedica alla scienza e di chi si dedica alla filosofia. Lo scienziato vuole raggiungere qualche conclusione, anche se provvisoria e incompleta, su temi che possono essere considerati di nessuna rilevanza (a parte il fatto che la scienza, e non le elucubrazioni teoriche, ha cambiato il mondo, anche se questo non piace a tutti). Al contrario, il filosofo vuole mettere tutto in discussione, vuole trovare il pelo nell'uovo — che c'è sempre, perché la conoscenza perfetta non è di questo mondo — e in definitiva non lasciare più niente in piedi. D'altra parte, non c'è concetto che, discusso a lungo, non perda ogni significato. Volendo, si può completare il quadro con un altro elemento di distinzione. Lo scienziato sperimentale sa fin dall'inizio che da solo non potrà mai fare niente. Al massimo potrà aspirare a dare un contributo che, unito a quello di tanti altri, porterà a qualche risultato, teorico o pratico. Di conseguenza, costui può anche essere un mediocre, anche se nessuno ammetterà mai di buon cuore di esserlo. Il filosofo, invece, o si limita a fare lo storico della filosofia, o pensa di dare un suo contributo. Ogni filosofo aspira a essere un grande filosofo. Aggiungerei infine che, a differenza di quella del filosofo, la visione dello scienziato sui fenomeni da studiare è intrinsecamente e irrimediabilmente locale. Quando aspira alla globalità, in genere in tarda età, fa quasi sempre della cattiva filosofia, anche se si chiama Albert Einstein. È chiaro che il modo di porsi davanti a tutte le questioni, risulta molto diverso nei due casi.
Severino: Da sempre, ma soprattutto nell'età moderna, ciò che si dice «scienza» è specializzazione, che separa un certo campo di oggetti, o di cose, da tutti gli altri e lo analizza in base a precisi criteri e metodi. Per lo più, l'analisi del significato della specializzazione — cioè del separare e dell'isolare — non rientra nello stesso campo. Non vi rientra quindi nemmeno l'analisi del senso della totalità, dalla quale la specializzazione isola il proprio campo. Queste analisi appartengono, da sempre, alla filosofia. Quando uno scienziato considera i rapporti tra il proprio campo e la filosofia, non parla dunque in nome della propria disciplina. Si porta sul piano della filosofia, con maggiore o minore coscienza; vi si porta inevitabilmente — e, d'altra parte, anche quando si chiude nel proprio terreno, si appoggia pur sempre a qualcosa che gli è esterno, cioè al senso che il pensiero filosofico ha attribuito alla «cosa», all'oggetto.
Anche gli individui seguono (e tradiscono) certe specifiche regole di comportamento. In questo senso delimitano a loro volta un dominio particolare di cose, sono essi stessi, gli individui, specializzazioni. Si muovono però sempre, volenti o nolenti, all'interno delle grandi regole etiche seguite (e tradite) dai popoli a cui appartengono. Anche quando danno risalto alle proprie regole di comportamento, in qualche modo percepiscono la scacchiera greca su cui giocano la vita e su cui ormai tutte le vite si avviano a essere giocate.
Ma se oggi nemmeno a uno scienziato è consentito dominare l'intera ricchezza della propria disciplina, come può pretendere la filosofia di comprendere addirittura il fenomeno scienza nel suo insieme? O di comprendere la «storia dell'Occidente»? La filosofia del nostro tempo tende a rispondere che questo è impossibile. E, infatti, se le cose vengono dal nulla e vi ritornano, sono essenzialmente estranee le une alle altre, cioè non può esistere né essere conosciuto alcun principio che le unifichi. Il senso greco della «cosa» sta al fondamento di ogni separare, isolare, specializzarsi dell'Occidente. Oggi quel senso si esprime nell'affermazione che il mondo intero è un insieme di frammenti e che la conoscenza autentica è specializzazione. Senonché, anche questa affermazione getta uno sguardo sul mondo; e non su una parte di esso, ma sul mondo intero e pertanto è anch'essa uno sguardo unificante: scorge l'essenza unificante del mondo e vede che questa essenza è la frammentarietà stessa del mondo, la stessa divisione delle cose. Ciò significa che, in qualche modo, la manifestazione del senso unitario del mondo è inevitabile; e che tale manifestazione continua a essere il compito della filosofia.
Scienza e morale, l'utopia del dialogo
Boncinelli: «La ricerca punta ai risultati, non ai valori». Severino:«Ma impone la sua verità»
dialogo tra EDOARDO BONCINELLI ed EMANUELE SEVERINO
Boncinelli: Credo che da nessun punto di vista possa sussistere un contrasto tra scienza ed etica, perché si tratta di discipline che si occupano di problemi diversi. Ciò che di norma viene definito come contrasto tra scienza ed etica è in realtà il contrasto tra etiche diverse, ovvero tra portatori di etiche diverse, dove la scienza non è che il fornitore degli argomenti. Cinquant'anni fa non si poteva discutere di alcune cose per il semplice motivo che non erano possibili; prendiamo l'esempio della fecondazione assistita. La scienza ha messo sul tavolo opportunità che prima non esistevano e che hanno fatto discutere; ma a discuterne non sono gli scienziati con gli eticisti: a discuterne sono i portatori di un'etica con i portatori di un'altra etica. O, per meglio dire, i portatori di un'etica con i portatori di molte altre etiche, perché ci troviamo di fronte, da una parte, a una sorta di monolite che è l'etica cattolica, e dall'altra a tutto un ventaglio di posizioni abbastanza diverse, giacché la cosiddetta etica laica in realtà è unificata solo da una maggiore tolleranza per il progresso, una maggiore attenzione agli interessi dell'individuo e da un richiamo ridotto al magistero della tradizione. Da parte laica, e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, c'è una vastissima gamma di posizioni, tanto che la contrapposizione fatta da Giovanni Fornero nel suo bellissimo libro, Bioetica cattolica e bioetica laica, pubblicato da Bruno Mondadori, è utile ma leggermente forzata. La scienza in tutto questo non c'entra, se non, lo ripeto, come fornitrice di occasioni.
Severino: Certo, si tende ad avere questa immagine della scienza come semplice fornitrice di occasioni, o come semplice strumento in vista della realizzazione di scopi che non appartengono allo strumento ma, al contrario, vedo una profonda solidarietà tra etica e scienza. Bisogna cominciare a chiedersi il significato di queste parole. Etica è una parola greca. Non che prima dei Greci non vi fossero problemi di carattere morale, sebbene, col pensiero greco, l'etica acquista una connotazione che potremmo dire inaudita. Allora, che cos'è l'etica prima e dopo questa connotazione inaudita? I popoli vivono, e credono di poter vivere meglio se si alleano con ciò che essi ritengono sia per loro la potenza suprema, e questo è abbastanza naturale, poiché per vivere mi appoggio a ciò che ritengo stabile, capace di reggere. Allora, questo agganciarsi a ciò che si ritiene la potenza suprema è il vivere in un ambiente rassicurante. La parola etica indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine. Etica vuol dire: vivere in un luogo rassicurante perché ci si trova in accordo e non in contrapposizione con la potenza. Se vivo in un luogo e so che è minacciato, e so di non avere strumenti per difendermi, vado altrove. Invece ethos in greco indica la consuetudine, che è insieme l'ambiente in cui ci si può difendere.
Ma difendersi da che cosa? Dal dolore, dalla morte, dall'angoscia, dalla sofferenza, dai pericoli. Ora, con il pensiero greco, questo atteggiamento assume una radicalità che qualificavo come inaudita: la potenza con la quale ci si allea per sopravvivere e per difendersi dal pericolo è cio che il pensiero greco chiama «verità ». Se ci si allea con una finta potenza, allora l'alleanza è insicura; è quindi inevitabile che emerga l'esigenza di allearsi con ciò che è la vera potenza, che l'ethos sia l'alleanza con la vera potenza. Ma per fare questo bisogna che cominci a esserci l'idea o il significato della parola verità. È solo perché il pensiero greco porta alla luce il significato radicale della verità, che ci può essere un'alleanza con la potenza vera.
Ora, tutto quello che abbiamo detto dell'etica dobbiamo dirlo anche per la scienza, che non è affatto quella semplice occasione di opportunità, quella neutralità rispetto agli scopi di cui tu parli. No, anche la scienza merita che si dica di essa ciò che già aveva detto Nietzsche: la scienza nasce dalla paura, così come l'etica, perché difendersi alleandosi alla potenza vuole dire cercare di andare oltre la paura.
Cio che noi oggi diciamo «scienza » è lo sviluppo di tutte le tecniche messe in atto dagli uomini per non avere paura e per riuscire a sopravvivere. Qual è l'etica della scienza? La scienza ha ed è di per sé un'etica. E perché? Perché ha quell'insieme di procedure che, soprattutto oggi, dà agli uomini la fede, la convinzione che essa sia lo strumento che più efficacemente di altri consente di allontanare la paura. Allora etica significa difendersi dalla paura alleandosi alla potenza, che oggi viene dalla scienza identificata con la potenza soprattutto tecnologica; in questo senso non c'è scissione tra etica e scienza.
Nella tradizione, la vera potenza è quella verità il cui contenuto è soprattutto il Dio, quindi la potenza di una conoscenza indiscutibile che dice in modo indiscutibile:
il vero potente è Dio. Oggi non si dice piu così, anche se si dice una cosa simile; è cambiato il protagonista, è cambiata la qualifica del potente. Oggi il vero potente è la tecnica. La tecnica è l'erede della funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio.
***
Boncinelli: Oggi si parla tanto di dialogare. Ma un vero dialogo, non formale e con pieno intendimento delle ragioni dell'uno da parte dell'altro, è raro e difficile. Forse appartiene alle tante favole della modernità. Si parla in particolare di dialogo fra scienza e filosofia. Non so se la scienza possa dialogare con la filosofia, ma certo io non posso dialogare con i filosofi, anche i più vicini a me per formazione e convinzione, almeno con quelli che conosco, salvo pochissime eccezioni.
La spiegazione che mi sono dato invoca la diversa natura della vocazione di chi si dedica alla scienza e di chi si dedica alla filosofia. Lo scienziato vuole raggiungere qualche conclusione, anche se provvisoria e incompleta, su temi che possono essere considerati di nessuna rilevanza (a parte il fatto che la scienza, e non le elucubrazioni teoriche, ha cambiato il mondo, anche se questo non piace a tutti). Al contrario, il filosofo vuole mettere tutto in discussione, vuole trovare il pelo nell'uovo — che c'è sempre, perché la conoscenza perfetta non è di questo mondo — e in definitiva non lasciare più niente in piedi. D'altra parte, non c'è concetto che, discusso a lungo, non perda ogni significato. Volendo, si può completare il quadro con un altro elemento di distinzione. Lo scienziato sperimentale sa fin dall'inizio che da solo non potrà mai fare niente. Al massimo potrà aspirare a dare un contributo che, unito a quello di tanti altri, porterà a qualche risultato, teorico o pratico. Di conseguenza, costui può anche essere un mediocre, anche se nessuno ammetterà mai di buon cuore di esserlo. Il filosofo, invece, o si limita a fare lo storico della filosofia, o pensa di dare un suo contributo. Ogni filosofo aspira a essere un grande filosofo. Aggiungerei infine che, a differenza di quella del filosofo, la visione dello scienziato sui fenomeni da studiare è intrinsecamente e irrimediabilmente locale. Quando aspira alla globalità, in genere in tarda età, fa quasi sempre della cattiva filosofia, anche se si chiama Albert Einstein. È chiaro che il modo di porsi davanti a tutte le questioni, risulta molto diverso nei due casi.
Severino: Da sempre, ma soprattutto nell'età moderna, ciò che si dice «scienza» è specializzazione, che separa un certo campo di oggetti, o di cose, da tutti gli altri e lo analizza in base a precisi criteri e metodi. Per lo più, l'analisi del significato della specializzazione — cioè del separare e dell'isolare — non rientra nello stesso campo. Non vi rientra quindi nemmeno l'analisi del senso della totalità, dalla quale la specializzazione isola il proprio campo. Queste analisi appartengono, da sempre, alla filosofia. Quando uno scienziato considera i rapporti tra il proprio campo e la filosofia, non parla dunque in nome della propria disciplina. Si porta sul piano della filosofia, con maggiore o minore coscienza; vi si porta inevitabilmente — e, d'altra parte, anche quando si chiude nel proprio terreno, si appoggia pur sempre a qualcosa che gli è esterno, cioè al senso che il pensiero filosofico ha attribuito alla «cosa», all'oggetto.
Anche gli individui seguono (e tradiscono) certe specifiche regole di comportamento. In questo senso delimitano a loro volta un dominio particolare di cose, sono essi stessi, gli individui, specializzazioni. Si muovono però sempre, volenti o nolenti, all'interno delle grandi regole etiche seguite (e tradite) dai popoli a cui appartengono. Anche quando danno risalto alle proprie regole di comportamento, in qualche modo percepiscono la scacchiera greca su cui giocano la vita e su cui ormai tutte le vite si avviano a essere giocate.
Ma se oggi nemmeno a uno scienziato è consentito dominare l'intera ricchezza della propria disciplina, come può pretendere la filosofia di comprendere addirittura il fenomeno scienza nel suo insieme? O di comprendere la «storia dell'Occidente»? La filosofia del nostro tempo tende a rispondere che questo è impossibile. E, infatti, se le cose vengono dal nulla e vi ritornano, sono essenzialmente estranee le une alle altre, cioè non può esistere né essere conosciuto alcun principio che le unifichi. Il senso greco della «cosa» sta al fondamento di ogni separare, isolare, specializzarsi dell'Occidente. Oggi quel senso si esprime nell'affermazione che il mondo intero è un insieme di frammenti e che la conoscenza autentica è specializzazione. Senonché, anche questa affermazione getta uno sguardo sul mondo; e non su una parte di esso, ma sul mondo intero e pertanto è anch'essa uno sguardo unificante: scorge l'essenza unificante del mondo e vede che questa essenza è la frammentarietà stessa del mondo, la stessa divisione delle cose. Ciò significa che, in qualche modo, la manifestazione del senso unitario del mondo è inevitabile; e che tale manifestazione continua a essere il compito della filosofia.