La Repubblica 4.7.10
Quando Cesare vuole giudicare Dio
di Agostino Paravicini Bagliani
I rapporti tra la Chiesa e la giustizia, che accompagnano la storia del cristianesimo fin dalla sua affermazione storica sotto l´imperatore Costantino († 337), hanno conosciuto da sempre oscillazioni e situazioni conflittuali. Pur considerando il cristianesimo religione di stato, Costantino ordinò che le cause dottrinali dei donatisti fossero portate davanti al giudice imperiale. L´imperatore Giustiniano intervenne in modo ancor più incisivo nella vita interna della Chiesa, garantendo sì protezione ma anche il rispetto di sanzioni in caso di violazione della legge. Il suo Codice (533) regolava in modo dettagliato i problemi disciplinari anche di preti e diaconi. L´imperatore permise persino a ciascuno di denunciare all´imperatore contravvenzioni alla legge.
Costantino aveva però anche concesso ai vescovi di poter giudicare le cause civili riguardanti i semplici chierici, e così si comporteranno i concili fin dal Quarto secolo. Il Concilio di Ippona (393), di cui Agostino era il vescovo, minacciò di deporre il chierico che avesse sottomesso una causa, civile o criminale, al giudice secolare. Nacque dunque già nel Quarto secolo quello che i giuristi del Medioevo e dell´età moderna chiameranno il «privilegio del foro». Anche Carlomagno legiferò con i suoi numerosi "capitolari" sulla disciplina del clero, pur concedendo ai vescovi ampi spazi giurisdizionali. La situazione cambiò radicalmente nell´Undicesimo secolo, in seguito alla volontà del papato romano di liberarsi dalla tutela dei grandi signori laici. Uno dei punti fermi della lotta contro le investiture fu proprio la "libertà della Chiesa" anche in termini giurisdizionali. Papi come Alessandro III (1159-1181) e Innocenzo III (1198-1216) estesero alle autorità ecclesiastiche tutte le cause civili e criminali riguardanti il clero, lasciando alle autorità civili il diritto di giudicare le cause di natura feudale. Nacquero così nuovi gravi conflitti con i poteri laici che tentarono sovente di opporsi, giungendo in molte regioni dell´Europa medievale a una sorta di compromesso. Si distinse infatti tra la deposizione e la degradazione dei chierici colpevoli dei più gravi delitti. La deposizione, che non comportava la perdita dei privilegi, fu riservata alla giustizia ecclesiastica. Con la deposizione si sanzionavano crimini come la lussuria. La degradazione, ancora più severa, veniva invece decisa anche da giudici laici. Il rituale prevedeva che con un coltello o un vetro si raschiasse la pelle delle dita del chierico (che servono a consacrare l´Eucarestia) e si scalfisse con delle forbici la tonsura (simbolo della sua dignità). L´esecuzione della sanzione finale (generalmente il rogo) spettava all´autorità civile.
Come ebbe ad affermare Gregorio VII (1075-1084), «il papa non poteva essere giudicato da nessuno» (Dictatus pape). Soltanto in caso di eresia, poteva però essere deposto da un concilio. Ed è proprio per farlo deporre da un concilio che Guglielmo di Nogaret, in compagnia di Sciarra Colonna, catturò ad Anagni (settembre 1303) papa Bonifacio VIII (1294-1303) cui aveva rivolto fin dal 1302 gravissime accuse, come quella di adorare gli idoli, di essersi dato a pratiche magiche e quant´altro. Accuse storicamente insostenibili ma che avrebbero permesso al re di Francia di trasformare il concilio parigino in un vero e proprio tribunale. L´affermarsi del diritto canonico medievale, e poi il Concilio di Trento, confermarono l´eccezionalità delle prerogative giurisdizionali ecclesiastiche, dovendo però sempre fare i conti con forti resistenze e tradizioni locali. Del resto, anche il Codice di diritto canonico del 1917 prevedeva la possibilità di deroghe locali che tra Otto e Novecento furono sovente oggetto di negoziati concordatari.