l’Unità 4.4.10
Quella grande lobby chiamata chiesa
di Andrea Boraschi
Anche oggi è importante per i cristiani non accettare un’ingiustizia che venga elevata a diritto, per esempio quando si tratta dell’uccisione di bambini innocenti non ancora nati». Così Benedetto XVI, pochi giorni addietro, parlando di aborto.
Or dunque sappiamo, in virtù di una malintesa attitudine “riformista”, che ogni espressione “radicale” (ovvero non “estremista”, ma più semplicemente “ultima”) è, al giorno d’oggi, quanto meno inelegante; perciò non sta bene parlare di “ingerenza” della Chiesa negli affari di Stato italiani. Eppure si dovrà, prima o poi, affrontare apertamente la sostanza elementare di alcune questioni e tornare a definire reciprocità di ruoli, funzioni, prerogative. Quindi spiegare, molto banalmente, che se nessuno intende inibire la gerarchia cattolica dalla partecipazione al dibattito pubblico, parimenti nessuno dovrebbe misconoscere la gravità dell’invito rivolto a parte consistente della popolazione italiana, da parte di un capo di Stato straniero, a non riconoscere la legge e a disubbidirla.
Che al fondo di quell’invito, poi, vi sia una questione morale del massimo rilievo (la “salvaguardia della vita”) non cambia – ahinoi – i termini della questione. Perché appare sempre più evidente come il passaggio da una Chiesa con appendice partitica a una Chiesa con apparati e prassi lobbistiche non abbia giovato granché alla nostra democrazia. L’azione del Vaticano s’è fatta, negli anni, tanto dirompente quanto strisciante, tanto intensa quanto accerchiante. Se partecipare da soggetti organizzati al confronto civile vuol dire lanciare scomuniche antiabortiste alla vigilia delle elezioni e passare all’incasso all’indomani del voto, ebbene, qualche obiezione merita d’essere mossa.
Le campagne “pro life” della Santa Sede non sono mera espressione di un credo o di un diritto al dissenso: aggrediscono direttamente il piano giuridico e quello sanitario e, ancor più, misconoscono la principale forma di democrazia diretta garantita dalla nostra Costituzione, negando la volontà democratica espressa con il referendum sull’aborto del 1981. Che oggi la Cei usi strumentalmente la Lega, un partito xenofobo e fino a poco tempo fa fieramente pagano, per avversare il diritto all’interruzione di gravidanza, è cosa amara. Ma facciano qualcosa di più coraggioso: provino a misurare il consenso di cui godono i loro convincimenti. Chiedano ai padani di raccogliere le firme per un nuovo referendum. E coloro, poi, che intendono seguire la pastorale e disobbedire la legge (ostacolando o rifiutando trattamenti previsti per norma dal Servizio Sanitario Nazionale) facciano come i radicali degli anni ’70, che aiutavano le donne ad abortire in situazioni medicalmente protette: si autodenuncino.
Quella grande lobby chiamata chiesa
di Andrea Boraschi
Anche oggi è importante per i cristiani non accettare un’ingiustizia che venga elevata a diritto, per esempio quando si tratta dell’uccisione di bambini innocenti non ancora nati». Così Benedetto XVI, pochi giorni addietro, parlando di aborto.
Or dunque sappiamo, in virtù di una malintesa attitudine “riformista”, che ogni espressione “radicale” (ovvero non “estremista”, ma più semplicemente “ultima”) è, al giorno d’oggi, quanto meno inelegante; perciò non sta bene parlare di “ingerenza” della Chiesa negli affari di Stato italiani. Eppure si dovrà, prima o poi, affrontare apertamente la sostanza elementare di alcune questioni e tornare a definire reciprocità di ruoli, funzioni, prerogative. Quindi spiegare, molto banalmente, che se nessuno intende inibire la gerarchia cattolica dalla partecipazione al dibattito pubblico, parimenti nessuno dovrebbe misconoscere la gravità dell’invito rivolto a parte consistente della popolazione italiana, da parte di un capo di Stato straniero, a non riconoscere la legge e a disubbidirla.
Che al fondo di quell’invito, poi, vi sia una questione morale del massimo rilievo (la “salvaguardia della vita”) non cambia – ahinoi – i termini della questione. Perché appare sempre più evidente come il passaggio da una Chiesa con appendice partitica a una Chiesa con apparati e prassi lobbistiche non abbia giovato granché alla nostra democrazia. L’azione del Vaticano s’è fatta, negli anni, tanto dirompente quanto strisciante, tanto intensa quanto accerchiante. Se partecipare da soggetti organizzati al confronto civile vuol dire lanciare scomuniche antiabortiste alla vigilia delle elezioni e passare all’incasso all’indomani del voto, ebbene, qualche obiezione merita d’essere mossa.
Le campagne “pro life” della Santa Sede non sono mera espressione di un credo o di un diritto al dissenso: aggrediscono direttamente il piano giuridico e quello sanitario e, ancor più, misconoscono la principale forma di democrazia diretta garantita dalla nostra Costituzione, negando la volontà democratica espressa con il referendum sull’aborto del 1981. Che oggi la Cei usi strumentalmente la Lega, un partito xenofobo e fino a poco tempo fa fieramente pagano, per avversare il diritto all’interruzione di gravidanza, è cosa amara. Ma facciano qualcosa di più coraggioso: provino a misurare il consenso di cui godono i loro convincimenti. Chiedano ai padani di raccogliere le firme per un nuovo referendum. E coloro, poi, che intendono seguire la pastorale e disobbedire la legge (ostacolando o rifiutando trattamenti previsti per norma dal Servizio Sanitario Nazionale) facciano come i radicali degli anni ’70, che aiutavano le donne ad abortire in situazioni medicalmente protette: si autodenuncino.