Int. a R. Deville - "Anni di abusi e minori sottratti la Chiesa non mi ha ascoltato"
la Repubblica del 30 aprile 2010
Andrea Bonanni
«Ricordo ancora la prima telefonata, nel 1992. Era sera, mi sembra. All’apparecchio una voce lontana. "Padre - mi disse - lei non mi conosce ma io ho letto il suo libro. E vorrei raccontarle la mia storia"». Nel salotto della villetta in mattoni rossi sulla Kerkstraat, la via della chiesa, a pochi passi dalla canonica di Buizingen circondata dai tigli dove padre Rik Devillé abita ormai da molti anni, si respira un’aria di pace e di quella serenità scabra, senza lusso, che spesso fa da sfondo alla vita dei preti. «Fu lo scoperchiamento di un mondo che non conoscevo. All’epoca, non esistevano neppure le parole adeguate per raccontarlo. Un mondo di abusi, di violenze, sessuali e no, di neonati sottratti alle giovani madri, di pedofilia e soprattutto di reticenza delle autorità ecclesiastiche».
E che cosa successe?
«Le telefonate aumentavano. Avevo appena pubblicato un libro, "L’ultima dittatura", in cui criticavo l’involuzione della Chiesa, i passi indietro rispetto allo spirito del Concilio che si facevano con ogni nuovo Papa, la mancanza di trasparenza. Molti che lo avevano letto, credettero che io fossi la persona che poteva capire il loroproblema: gli abusi che avevano subito e soprattutto l’impossibilità di rompere il muro di silenzio. Allora creammo questa associazione: "Gruppo fiammingo per la difesa dei diritti dell’uomo nella Chiesa". In sei anni abbiamo raccolto più di trecento casi».
Vi occupavate solo di abusi sessuali sui minori?
«Non solo. Ma molti casi, per esempio, riguardavano la sottrazione di neonati. Quando una ragazza restava di incinta di un prete, e si trattava sovente di donne molto giovani, veniva portata all’estero, soprattutto in Francia dove si può partorire nell’anonimato, ma non vedeva neppure suo figlio. Il bambino veniva preso in qualche convento, e spesso dato subito in adozione. Abbiamo incontrato decine di madri che cercavano i figli e di persone che cercavano la propria madre scontrandosi con un muro di omertà. Sono drammi umani non meno terribili: vite distrutte. E poi c’erano episodi di ordinaria violenza e di maltrattamenti in alcuni conventi: per nulla diversi da quelli emersi in Irlanda con le suore della "Magdalena"».
E voi, che facevate?
«Cercavamo di aiutare, come potevamo. Organizzavamo anche incontri collettivi. Per le vittime, parlare è spesso un modo per rompere la gabbia di solitudine che è la prima conseguenza nefasta degli abusi. Magari non risolve il problema. Ma aiuta».
Ma lei, come prete, non aveva il dovere di riferire ai suoi superiori?
«Ci ho provato. Dio sa se ci ho provato. Abbiamo contattato tutti i vescovati, senza risultato. Alle sedute collettive delle vittime, che organizzavamo in ogni diocesi, abbiamo sempre invitato i vescovi. Nessuno è mai venuto».
Allora avreste potuto fare appello al primate del Belgio, il cardinal Danneels.
«Una volta mi sono presentato con una ventina di vittime degli abusi all’arcivescovado. Non volevano farci entrare. Abbiamo messo il piede nella porta e siamo entrati. Ma Danneels non voleva riceverci, diceva che non aveva tempo. Allora abbiamo detto: benissimo, restiamo qui fino a che trova il tempo. Ci accampammo nel palazzo. Alla fine venne a vederci».
E che fece?
«Ascoltò. Non disse nulla, se non una volta, quando un padre raccontava della sua figlia abusata da un prete. Danneels disse: "non posso fare niente, non è nella mia diocesi. Potevate rivolgervi a Roma". Come se non lo avessimo fatto. Non rispondevano. E se rispondevano dicevano di rivolgersi al vescovo della diocesi di competenza».
Devillé si alza e mostra un foglio con la carta intestata del Supremo Tribunale della Signatura apostolica. E’ una lettera in fiammingo, datata 12 giugno del 2006, in cui si spiega che il tribunale "non è in grado" di trattare il caso esposto. Ma nessuno ha mai fatto pressione su di lei perché cessasse questa attività?
«Come no! Ebbi diversi colloqui con il cardinal Danneels. Diceva che non era mio compito interessarmi dei diritti umani nella Chiesa. Che questa era competenza sua. E che le vittime di abusi avrebbero dovuto rivolgersi direttamente a lui».
Però le pressioni del cardinale sono servite, se nel ‘98 la vostra associazione ha smesso l’attività.
«Abbiamo smesso l’attività perchè in quell’ anno, finalmente, venne creata una Commissione episcopale indipendente: era quello che volevamo. Però non è che la Commissione abbia lavorato granché bene, soprattutto nei primi 10 anni. Chi telefonava si sentiva rispondere da un interlocutore anonimo, che spesso lo metteva in guardia: "è sicuro di quello che sta denunciando? Le sue sono accuse terribili per un prete. " Non è molto incoraggiante, per una vittima che ha già paura».
Padre Devillé, la vostra organizzazione quanti casi ha registrato?
«Dal ‘92 al ‘98 più di trecento casi».
E la Commissione episcopale?
«Che mi risulti, nei primi dieci anni di attività circa una trentina».
la Repubblica del 30 aprile 2010
Andrea Bonanni
«Ricordo ancora la prima telefonata, nel 1992. Era sera, mi sembra. All’apparecchio una voce lontana. "Padre - mi disse - lei non mi conosce ma io ho letto il suo libro. E vorrei raccontarle la mia storia"». Nel salotto della villetta in mattoni rossi sulla Kerkstraat, la via della chiesa, a pochi passi dalla canonica di Buizingen circondata dai tigli dove padre Rik Devillé abita ormai da molti anni, si respira un’aria di pace e di quella serenità scabra, senza lusso, che spesso fa da sfondo alla vita dei preti. «Fu lo scoperchiamento di un mondo che non conoscevo. All’epoca, non esistevano neppure le parole adeguate per raccontarlo. Un mondo di abusi, di violenze, sessuali e no, di neonati sottratti alle giovani madri, di pedofilia e soprattutto di reticenza delle autorità ecclesiastiche».
E che cosa successe?
«Le telefonate aumentavano. Avevo appena pubblicato un libro, "L’ultima dittatura", in cui criticavo l’involuzione della Chiesa, i passi indietro rispetto allo spirito del Concilio che si facevano con ogni nuovo Papa, la mancanza di trasparenza. Molti che lo avevano letto, credettero che io fossi la persona che poteva capire il loroproblema: gli abusi che avevano subito e soprattutto l’impossibilità di rompere il muro di silenzio. Allora creammo questa associazione: "Gruppo fiammingo per la difesa dei diritti dell’uomo nella Chiesa". In sei anni abbiamo raccolto più di trecento casi».
Vi occupavate solo di abusi sessuali sui minori?
«Non solo. Ma molti casi, per esempio, riguardavano la sottrazione di neonati. Quando una ragazza restava di incinta di un prete, e si trattava sovente di donne molto giovani, veniva portata all’estero, soprattutto in Francia dove si può partorire nell’anonimato, ma non vedeva neppure suo figlio. Il bambino veniva preso in qualche convento, e spesso dato subito in adozione. Abbiamo incontrato decine di madri che cercavano i figli e di persone che cercavano la propria madre scontrandosi con un muro di omertà. Sono drammi umani non meno terribili: vite distrutte. E poi c’erano episodi di ordinaria violenza e di maltrattamenti in alcuni conventi: per nulla diversi da quelli emersi in Irlanda con le suore della "Magdalena"».
E voi, che facevate?
«Cercavamo di aiutare, come potevamo. Organizzavamo anche incontri collettivi. Per le vittime, parlare è spesso un modo per rompere la gabbia di solitudine che è la prima conseguenza nefasta degli abusi. Magari non risolve il problema. Ma aiuta».
Ma lei, come prete, non aveva il dovere di riferire ai suoi superiori?
«Ci ho provato. Dio sa se ci ho provato. Abbiamo contattato tutti i vescovati, senza risultato. Alle sedute collettive delle vittime, che organizzavamo in ogni diocesi, abbiamo sempre invitato i vescovi. Nessuno è mai venuto».
Allora avreste potuto fare appello al primate del Belgio, il cardinal Danneels.
«Una volta mi sono presentato con una ventina di vittime degli abusi all’arcivescovado. Non volevano farci entrare. Abbiamo messo il piede nella porta e siamo entrati. Ma Danneels non voleva riceverci, diceva che non aveva tempo. Allora abbiamo detto: benissimo, restiamo qui fino a che trova il tempo. Ci accampammo nel palazzo. Alla fine venne a vederci».
E che fece?
«Ascoltò. Non disse nulla, se non una volta, quando un padre raccontava della sua figlia abusata da un prete. Danneels disse: "non posso fare niente, non è nella mia diocesi. Potevate rivolgervi a Roma". Come se non lo avessimo fatto. Non rispondevano. E se rispondevano dicevano di rivolgersi al vescovo della diocesi di competenza».
Devillé si alza e mostra un foglio con la carta intestata del Supremo Tribunale della Signatura apostolica. E’ una lettera in fiammingo, datata 12 giugno del 2006, in cui si spiega che il tribunale "non è in grado" di trattare il caso esposto. Ma nessuno ha mai fatto pressione su di lei perché cessasse questa attività?
«Come no! Ebbi diversi colloqui con il cardinal Danneels. Diceva che non era mio compito interessarmi dei diritti umani nella Chiesa. Che questa era competenza sua. E che le vittime di abusi avrebbero dovuto rivolgersi direttamente a lui».
Però le pressioni del cardinale sono servite, se nel ‘98 la vostra associazione ha smesso l’attività.
«Abbiamo smesso l’attività perchè in quell’ anno, finalmente, venne creata una Commissione episcopale indipendente: era quello che volevamo. Però non è che la Commissione abbia lavorato granché bene, soprattutto nei primi 10 anni. Chi telefonava si sentiva rispondere da un interlocutore anonimo, che spesso lo metteva in guardia: "è sicuro di quello che sta denunciando? Le sue sono accuse terribili per un prete. " Non è molto incoraggiante, per una vittima che ha già paura».
Padre Devillé, la vostra organizzazione quanti casi ha registrato?
«Dal ‘92 al ‘98 più di trecento casi».
E la Commissione episcopale?
«Che mi risulti, nei primi dieci anni di attività circa una trentina».