il Fatto 9.4.10
Quando l’aborto è una scelta di sopravvivenza
Viaggio al San Camillo di Roma nel reparto che aiuta le donne
di Silvia D’Onghia e Valeria Fabbrini
Il reparto dell'ospedale romano San Camillo in cui si pratica l'interruzione di gravidanza è un padiglione a sé rispetto a quello maternità: si trova al piano meno uno, vi si accede senza ascensore, attraverso una scaletta di emergenza di ferro che porta in un sotterraneo, un posto da nascondere, squallido e che da fuori a malapena si vede. Non ha l’aria di un centro di eccellenza, eppure è un vero punto di riferimento, poiché è il reparto più grande d’Italia. Ogni mattina 12 donne – italiane e straniere, minorenni e avanti negli anni – arrivano qui per compiere un gesto dolorosissimo. Quella di Bianca è solo una storia come tante, inverosimile ma normale all’interno di questo reparto. A soli 17 anni rimane incinta. E’ spaventata, non può parlare con i genitori, anzi, ha paura soprattutto di loro. Senza soldi, si rivolge alla struttura ospedaliera per sentirsi più sicura e tutelata. “Ho effettuato l’interruzione di gravidanza di lunedì, da sola e saltando un giorno di scuola. Tutto è avvenuto in silenzio come in una catena di montaggio. Ricordo le scale del seminterrato, eravamo tantissime ragazze, circa 20, ci chiamavano a turno. Quel giorno, però, l’ecografista era un obiettore; così mi chiesero di tornare un altro giorno per il controllo, ma neanche loro potevano sapere quando ci sarebbe stato uno specialista disponibile. L'aspirazione del feto non riuscì. Oggi il mio bambino ha tre anni e non saprò mai cosa è successo quel giorno, ma ogni volta che ci penso mi sento male”. Irina invece, ragazza moldava, ha dovuto subire un aborto terapeutico al quinto mese a causa di una grave malformazione del feto: “Ero nel lettino nel reparto dell’interruzione di gravidanza, non c’era l’anestesista, ricordo le urla della dottoressa alla ricerca dell’unico anestesista non obiettore. Alla fine mi fecero l’epidurale, ma dopo moltissime ore di attesa”.
Storie così Giovanna Scassellati, direttrice del Reparto Day Hospital del San Camillo, potrebbe raccontarne a centinaia.Lei fa parte di quella classe di medici in via di estinzione: i ginecologi non obiettori. “Siamo soltanto sette, una minoranza. Lo scorso anno abbiamo fatto 2400 interventi. Qui arrivano da ogni parte d’Italia, perché intorno a noi c’è il ‘deserto dei Tartari’: pensi che a Frosinone, per esempio, c’è un unico medico non obiettore”. La dottoressa Scassellati parla con una grande determinazione, con la tenacia di chi è consapevole di fare un lavoro di frontiera: “Sembra sempre che uno debba andare controcorrente, ma noi non è che ci divertiamo a fare un lavoro così”. Le donne che arrivano al San Camillo ricevono innanzitutto assistenza psicologica: “Che non si pensi che una arriva qui e in cinque minuti abortisce! Capita spesso che le donne, grazie ad un’adeguata assistenza, decidano di portare avanti la gravidanza. A quel punto noi le seguiamo gratuitamente”. Assistenza significa anche mediazione culturale: “Moltissime pazienti sono straniere, soprattutto rumene e moldave, ma anche filippine, sudamericane. L’ex sindaco Veltroni ci aveva finanziato un progetto che prevedeva dei mediatori culturali. Poi, col cambio di giunta, quel servizio è rimasto sospeso per cinque mesi, durante i quali c’è stato un drammatico calo di richieste di inserimento di spirali. Anche questo è un segnale. Poi, grazie anche al coinvolgimento della popolazione, siamo riusciti ad ottenere nuovi fondi”.
Il problema, come sempre, è culturale e investe soprattutto la prevenzione. “Che non esiste quasi più – prosegue la direttrice – A scuola non si fa educazione sanitaria, per esempio. Lo scorso anno sono arrivate da noi una novantina di minorenni senza alcuna informazione sessuale”.
Al San Camillo si arriva di mattina, ci si prenota e si fanno tutti gli accertamenti, dall’ecografia all’elettrocardiogramma. Ci sono 12 letti, quindi massimo 12 aborti al giorno. “Quando non si allaga tutto, come è accaduto mercoledì mattina”,
sorride amaramente la Scassellati. Qui la pillola RU486 non è ancora arrivata: “Non abbiamo la struttura, un intero reparto è in fase di ristrutturazione. E non si possono mettere insieme le donne che scelgono di abortire a quelle che partoriscono. Ma è solo una questione organizzativa. Quando avremo la possibilità lo faremo, attenendoci ai protocolli ministeriali e regionali”.
A Giovanna Scassellati non piace lo “sgradevole polverone” che si è alzato intorno alla pillola abortiva: “A crearlo sono anche molti colleghi, che si vogliono mettere in mostra. Invece bisogna mantenere un basso profilo, e rispettare le scelte dell’elettorato”. E continuare a lavorare, in questo sottoscala di sofferenza.
Quando l’aborto è una scelta di sopravvivenza
Viaggio al San Camillo di Roma nel reparto che aiuta le donne
di Silvia D’Onghia e Valeria Fabbrini
Il reparto dell'ospedale romano San Camillo in cui si pratica l'interruzione di gravidanza è un padiglione a sé rispetto a quello maternità: si trova al piano meno uno, vi si accede senza ascensore, attraverso una scaletta di emergenza di ferro che porta in un sotterraneo, un posto da nascondere, squallido e che da fuori a malapena si vede. Non ha l’aria di un centro di eccellenza, eppure è un vero punto di riferimento, poiché è il reparto più grande d’Italia. Ogni mattina 12 donne – italiane e straniere, minorenni e avanti negli anni – arrivano qui per compiere un gesto dolorosissimo. Quella di Bianca è solo una storia come tante, inverosimile ma normale all’interno di questo reparto. A soli 17 anni rimane incinta. E’ spaventata, non può parlare con i genitori, anzi, ha paura soprattutto di loro. Senza soldi, si rivolge alla struttura ospedaliera per sentirsi più sicura e tutelata. “Ho effettuato l’interruzione di gravidanza di lunedì, da sola e saltando un giorno di scuola. Tutto è avvenuto in silenzio come in una catena di montaggio. Ricordo le scale del seminterrato, eravamo tantissime ragazze, circa 20, ci chiamavano a turno. Quel giorno, però, l’ecografista era un obiettore; così mi chiesero di tornare un altro giorno per il controllo, ma neanche loro potevano sapere quando ci sarebbe stato uno specialista disponibile. L'aspirazione del feto non riuscì. Oggi il mio bambino ha tre anni e non saprò mai cosa è successo quel giorno, ma ogni volta che ci penso mi sento male”. Irina invece, ragazza moldava, ha dovuto subire un aborto terapeutico al quinto mese a causa di una grave malformazione del feto: “Ero nel lettino nel reparto dell’interruzione di gravidanza, non c’era l’anestesista, ricordo le urla della dottoressa alla ricerca dell’unico anestesista non obiettore. Alla fine mi fecero l’epidurale, ma dopo moltissime ore di attesa”.
Storie così Giovanna Scassellati, direttrice del Reparto Day Hospital del San Camillo, potrebbe raccontarne a centinaia.Lei fa parte di quella classe di medici in via di estinzione: i ginecologi non obiettori. “Siamo soltanto sette, una minoranza. Lo scorso anno abbiamo fatto 2400 interventi. Qui arrivano da ogni parte d’Italia, perché intorno a noi c’è il ‘deserto dei Tartari’: pensi che a Frosinone, per esempio, c’è un unico medico non obiettore”. La dottoressa Scassellati parla con una grande determinazione, con la tenacia di chi è consapevole di fare un lavoro di frontiera: “Sembra sempre che uno debba andare controcorrente, ma noi non è che ci divertiamo a fare un lavoro così”. Le donne che arrivano al San Camillo ricevono innanzitutto assistenza psicologica: “Che non si pensi che una arriva qui e in cinque minuti abortisce! Capita spesso che le donne, grazie ad un’adeguata assistenza, decidano di portare avanti la gravidanza. A quel punto noi le seguiamo gratuitamente”. Assistenza significa anche mediazione culturale: “Moltissime pazienti sono straniere, soprattutto rumene e moldave, ma anche filippine, sudamericane. L’ex sindaco Veltroni ci aveva finanziato un progetto che prevedeva dei mediatori culturali. Poi, col cambio di giunta, quel servizio è rimasto sospeso per cinque mesi, durante i quali c’è stato un drammatico calo di richieste di inserimento di spirali. Anche questo è un segnale. Poi, grazie anche al coinvolgimento della popolazione, siamo riusciti ad ottenere nuovi fondi”.
Il problema, come sempre, è culturale e investe soprattutto la prevenzione. “Che non esiste quasi più – prosegue la direttrice – A scuola non si fa educazione sanitaria, per esempio. Lo scorso anno sono arrivate da noi una novantina di minorenni senza alcuna informazione sessuale”.
Al San Camillo si arriva di mattina, ci si prenota e si fanno tutti gli accertamenti, dall’ecografia all’elettrocardiogramma. Ci sono 12 letti, quindi massimo 12 aborti al giorno. “Quando non si allaga tutto, come è accaduto mercoledì mattina”,
sorride amaramente la Scassellati. Qui la pillola RU486 non è ancora arrivata: “Non abbiamo la struttura, un intero reparto è in fase di ristrutturazione. E non si possono mettere insieme le donne che scelgono di abortire a quelle che partoriscono. Ma è solo una questione organizzativa. Quando avremo la possibilità lo faremo, attenendoci ai protocolli ministeriali e regionali”.
A Giovanna Scassellati non piace lo “sgradevole polverone” che si è alzato intorno alla pillola abortiva: “A crearlo sono anche molti colleghi, che si vogliono mettere in mostra. Invece bisogna mantenere un basso profilo, e rispettare le scelte dell’elettorato”. E continuare a lavorare, in questo sottoscala di sofferenza.