Quando relativismo è sinonimo di tolleranza
L'opinione online del 14 maggio 2008
di Alessandro Litta Modignani
Rispondendo a un lettore nella rubrica delle lettere sul Corriere della Sera di sabato scorso, Sergio Romano divaga per quattro colonne su Gianfranco Fini, sul suo percorso politico, sul discorso di insediamento alla Presidenza della Camera e altro ancora. Solo alla fine, nelle ultime 5 righe, è costretto infine a rispondere alla domanda che il lettore gli aveva posto. Il signor Lucio Scenna, insegnante di storia e filosofia in un liceo di Pescara, lamenta il fatto di essere considerato un cittadino “pericoloso per la libertà” in quanto sostenitore del “relativismo etico”. L’ambasciatore Romano, con l’abilità maturata in tanti anni di carriera diplomatica, “osserva semplicemente” che il relativismo culturale, per quanto lo concerne, si chiama “tolleranza”. Ma come, osserva semplicemente? Come sarebbe a dire, tolleranza? Se davvero le cose stanno così, ciò significa che gli avversari del relativismo sono i fautori dell’intolleranza. E’ proprio questo il pensiero di Sergio Romano? Se egli, commentatore di ispirazione laica e liberale, davvero lo crede, dovrebbe scriverlo non nella rubrica delle lettere (in posizione quasi invisibile) bensì negli editoriali di prima pagina.
Per essere coraggioso e coerente, Romano dovrebbe respingere con forza i quotidiani attacchi di Papa Benedetto XVI al relativismo, quali pericolosi semi di intolleranza gettati ogni giorno nella società italiana. Altro che “indiscussa autorità spirituale dell’Occidente”, altro che “guida spirituale della larghissima maggioranza del popolo italiano”, come lo ha definito Fini.
Se invece Romano si limita a confinare in poche righe la sua opinione su una delle questioni culturali cruciali del nostro tempo, evidentemente una ragione c’è. Essa consiste nell’estrema timidezza del pensiero laico e liberale in Italia, ma soprattutto nella sua debolezza politica. “Laici in ginocchio” è il felice titolo di un saggio di Carlo Augusto Viano, che descrive assai bene questa attitudine di una gran parte della nostra classe dirigente, anche di sinistra, subalterna alle gerarchie vaticane innanzitutto per mentalità, ancor prima che per fede religiosa. Non solo i cattolici liberali e i cattolici democratici sono sempre più rari: anche buona parte della cultura laica sembra rassegnata all’egemonia dei religiosi sulla vita pubblica nazionale. Le eccezioni sono pochissime. Non è male ricordare che la legge sul divorzio portava anche la firma di un liberale, Antonio Baslini, che era solito raccontare divertito delle pressioni iniziali provenienti da Malagodi e dai suoi, affinché desistesse dai suoi insani propositi. I nostri elettori milanesi sono tutti cattolici, dicevano, non sarai più rieletto deputato. Il divorzio favorirà “i comunisti”. Ma Baslini non si lasciò intimidire. Ecco: del coraggio e della coerenza di un liberale come Antonio Baslini vi sarebbe un gran bisogno oggi nella politica italiana. Ma nell’attuale classe dirigente non ve ne è quasi traccia.
L'opinione online del 14 maggio 2008
di Alessandro Litta Modignani
Rispondendo a un lettore nella rubrica delle lettere sul Corriere della Sera di sabato scorso, Sergio Romano divaga per quattro colonne su Gianfranco Fini, sul suo percorso politico, sul discorso di insediamento alla Presidenza della Camera e altro ancora. Solo alla fine, nelle ultime 5 righe, è costretto infine a rispondere alla domanda che il lettore gli aveva posto. Il signor Lucio Scenna, insegnante di storia e filosofia in un liceo di Pescara, lamenta il fatto di essere considerato un cittadino “pericoloso per la libertà” in quanto sostenitore del “relativismo etico”. L’ambasciatore Romano, con l’abilità maturata in tanti anni di carriera diplomatica, “osserva semplicemente” che il relativismo culturale, per quanto lo concerne, si chiama “tolleranza”. Ma come, osserva semplicemente? Come sarebbe a dire, tolleranza? Se davvero le cose stanno così, ciò significa che gli avversari del relativismo sono i fautori dell’intolleranza. E’ proprio questo il pensiero di Sergio Romano? Se egli, commentatore di ispirazione laica e liberale, davvero lo crede, dovrebbe scriverlo non nella rubrica delle lettere (in posizione quasi invisibile) bensì negli editoriali di prima pagina.
Per essere coraggioso e coerente, Romano dovrebbe respingere con forza i quotidiani attacchi di Papa Benedetto XVI al relativismo, quali pericolosi semi di intolleranza gettati ogni giorno nella società italiana. Altro che “indiscussa autorità spirituale dell’Occidente”, altro che “guida spirituale della larghissima maggioranza del popolo italiano”, come lo ha definito Fini.
Se invece Romano si limita a confinare in poche righe la sua opinione su una delle questioni culturali cruciali del nostro tempo, evidentemente una ragione c’è. Essa consiste nell’estrema timidezza del pensiero laico e liberale in Italia, ma soprattutto nella sua debolezza politica. “Laici in ginocchio” è il felice titolo di un saggio di Carlo Augusto Viano, che descrive assai bene questa attitudine di una gran parte della nostra classe dirigente, anche di sinistra, subalterna alle gerarchie vaticane innanzitutto per mentalità, ancor prima che per fede religiosa. Non solo i cattolici liberali e i cattolici democratici sono sempre più rari: anche buona parte della cultura laica sembra rassegnata all’egemonia dei religiosi sulla vita pubblica nazionale. Le eccezioni sono pochissime. Non è male ricordare che la legge sul divorzio portava anche la firma di un liberale, Antonio Baslini, che era solito raccontare divertito delle pressioni iniziali provenienti da Malagodi e dai suoi, affinché desistesse dai suoi insani propositi. I nostri elettori milanesi sono tutti cattolici, dicevano, non sarai più rieletto deputato. Il divorzio favorirà “i comunisti”. Ma Baslini non si lasciò intimidire. Ecco: del coraggio e della coerenza di un liberale come Antonio Baslini vi sarebbe un gran bisogno oggi nella politica italiana. Ma nell’attuale classe dirigente non ve ne è quasi traccia.