La Repubblica 30.5.08
Se la politica invoca dio. La crisi della società secolare
La lezione di Gustavo Zagrebelsky a Bologna
Secondo alcuni sarebbe finito il movimento storico che in cinque secoli ha portato l’Occidente a distinguere Stato e religione: ma è un problema tutto da discutere
Il clericalismo ateo è la forma odierna di una duplice corruzione
La Rivoluzione francese fu considerata opera del demonio fuor di metafora
Pubblichiamo alcune parti della lezione di per la serie "Elogio della politica" diretta da Ivano Dionigi
Le discussioni sul rapporto religione politica, non solo in Italia ma in generale nel mondo, sono contrassegnate da un atteggiamento che si potrebbe definire, con una contradictio in adiecto, come sociologia normativa. Si procede dalla descrizione delle condizioni de facto della società (sociologia) e da questa descrizione si ricavano conseguenze de iure (norme): da quello che succede a quello che è giusto che succeda.
Si constata un intreccio crescente tra poteri pubblici e autorità religiose. Il primo chiede sostegno alle seconde e le seconde al primo, ciascuno per la propria utilità. I rispettivi confini si fanno evanescenti. La politica manifestamente cerca l´appoggio della religione e la religione l´appoggio della politica. La "secolarizzazione", il movimento storico che in cinque secoli ha portato l´Occidente a distinguere tra politica e religione e a fondare lo Stato su ragioni immanenti, non teologiche, sarebbe alla fine. Saremmo entrati cioè nell´epoca della "post-secolarizzazione". La ragione di questo rinnovato intreccio starebbe nel fallimento della pretesa della "ragione secolare" di fondare il governo dell´esistenza, la comprensione del suo significato e la sua salvaguardia su forze morali e scientifiche proprie, cioè esclusivamente umane. Questo fallimento dimostrerebbe l´insensatezza di quella pretesa. La parabola storica che, dall´umanesimo, cioè dalla centralità e signoria dell´essere umano nell´universo, ha condotto alla sovranità popolare si starebbe per concludere con un tracollo.
A distanza di due secoli, dovremmo riconoscere che avevano ragione i critici della Rivoluzione, la rivoluzione che aveva preteso di rovesciare la base del potere, dalla grazia di Dio alla volontà popolare, e per questo fu considerata, non per metafora, opera del demonio. Da ciò deriverebbe la necessità di orientare di nuovo la vita politica al trascendente, tramite un rinnovato "appello al cielo". Dio e ciò che su Dio si appoggia nella storia, cioè religione e apparati chiesastici, siano chiamati, come deus ex machina, a superare l´impasse in cui, per il nostro orgoglio smisurato, ci saremmo cacciati. Da qui, la necessità di rivedere l´idea tramandata di laicità che abbiamo recepito dal passato e di adeguarla (ecco la "nuova laicità" di cui si parla) alle odierne condizioni delle nostre società.
Questo modo di ragionare è un insieme di proposizioni indimostrabili e contestabili e che non si legano affatto l´una all´altra. È cioè una serie di aporie che nascondono, nel migliore dei casi, salti logici e auto-illusioni; nel peggiore, inganni.
(a) Innanzitutto, questi argomenti ci trasportano in un´atmosfera che, a considerarla dappresso, appare intrisa di un certo spirito apocalittico e messianico. «Ormai solo un dio ci può salvare», è l´esclamazione di Martin Heidegger, entrata ormai nel nostro comune modo di pensare. Questa speranza è solo un modo per esprimere un atteggiamento nichilistico, cioè la rassegnazione di fronte a ciò che si ritiene inevitabile. Chi potrà mettere un freno all´effetto-serra? Un dio o l´applicazione del trattato di Kyoto sulle emissioni di gas nell´atmosfera? Chi potrà arrestare lo sfruttamento delle risorse agricole dei popoli del terzo e quarto mondo? Un dio o una politica adeguata del WTO?
(b) Se non "un dio", potrebbe essere "il Dio" di una religione positiva questo deus ex machina capace di proteggerci dallo sviluppo incontrollato della tecnica e dalle sue tendenze sociali distruttrici, ancorando la nostra visione del mondo a un principio d´ordine metafisico, sottratto al nostro arbitrio? La risposta positiva a questa domanda sembra ovvia. Dio è la fonte di atteggiamenti religiosi che coincidono con il riconoscimento dell´esistenza di un limite a protezione del sacro, sottratto a manipolazioni profane. La coscienza del sacro darebbe origine a quella forza interiore di governo delle pulsioni distruttrici, che è beneficamente orientata alla coesione sociale e ai comportamenti altruistici.
Ma è davvero così ovvio? Non mi pare. La storia insegna che il "sacro", come le religioni, sono un immenso deposito di forza. Ma è una forza ambigua, che può orientarsi a fini opposti, benefici o malefici; verso l´amore del prossimo o l´odio e l´oppressione del diverso; per la pace ma anche per la guerra; per la comprensione ma anche per l´incomprensione reciproca; per atteggiamenti modesti e moderati, ma anche arroganti e superbi; per il rispetto del creato ma anche per il suo sfruttamento intensivo.
(c) Se non a Dio, in generale, forse al Dio cristiano, di cui ci ha parlato Gesù di Nazareth, potremmo forse rivolgerci? Ricordo il senso in cui formuliamo questa domanda: lo scopo è di trovarvi una forza per il governo della società, cioè rivolgerci al cristianesimo come a una "religione civile". Davvero possiamo noi stravolgere l´insegnamento evangelico fino a farne qualcosa di simile a un manuale per il buon cittadino? Davvero possiamo trasformare Gesù di Nazareth, che, nel deserto, respinse la tentazione diabolica del potere, che fuggì sul monte quando lo si voleva proclamare re, che di fronte alla morte, non propose a Pilato un compromesso di comune utilità ma rivendicò una regalità di tutt´altra natura; davvero possiamo trasformarlo in maestro di virtù civili? La domanda suona di per se stessa assurda, ma lo è di meno se si considerano le resistenze che la gerarchia ecclesiastica, di recente per esempio in Spagna, ha opposto all´introduzione nella scuola di attività laiche di educazione alla cittadinanza, per riservare a sé, cioè alla dottrina cattolica, questa funzione. Il celebre passo di Paolo (Rom 13, 1-2): «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c´è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi, chi si oppone all´autorità, si oppone all´ordine stabilito da Dio», non sembra giustificare il commento della Bibbia di Gerusalemme: «In questo modo la religione cristiana penetra, oltre che la vita morale, la stessa vita civile». Il dovere incondizionato di obbedienza dei cristiani, infatti, non autorizza affatto a dire che la fede in Cristo si confonde (penetra) nel potere civile e così contribuisce a legittimarlo. Sembra significare, in certo modo, il contrario: obbedite comunque, fino a sopportare la persecuzione, in modo da potervi dedicare integralmente alle opere e alla testimonianza della fede. Solo quando l´ordine di Cesare contraddice la parola del Cristo, rendendo impossibile il suo ascolto, allora occorre obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini (Atti, 5, 29).
Da nessuna parte, pare, si autorizza l´uso della fede cristiana per rafforzare - come anche d´altra parte per indebolire - l´autorità del potere civile. I cristiani «risiedono ciascuno nella propria patria, ma come stranieri»; «partecipano a tutti gli oneri pubblici, [non come cristiani, ma] come cittadini». La distinzione, che così chiaramente è posta nella Lettera a Diogneto, equivale a condannare ogni uso civile della religione cristiana. E, invece, nelle alte sfere ecclesiastiche, è stata accolta con soddisfazione, quasi come un meritato riconoscimento e non come un affronto, come ci si sarebbe aspettati, l´affermazione recente di un Capo di Stato che dà atto che per un governante è buona cosa avere a che fare con cristiani timorati di Dio, dove il timor di Dio si traduce in speciale fedeltà e malleabilità politiche; dove la "buona Novella" diventa instrumentum regni.
D´altro canto, si può comprendere che l´autorità politica abbia interesse ad assicurarsi l´appoggio della religione. E si comprende ch´essa, per raggiungere lo scopo, sia disposta a concederle i più larghi privilegi, simbolici e materiali. La "ragion di Stato" lo consiglia e il governante accorto non si lascerà sfuggire l´occasione: «Tra tutte le leggi non ve n´è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de´ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri», diceva Giovanni Botero (Della Ragion di Stato, 1589, libro II, «Modi di propagar la religione»). In tal modo, però, sarà lo Stato a "penetrare" nella religione e la Chiesa, accarezzata nei suoi bisogni materiali e blandita nel suo desiderio di onori e ricchezze, perderà la sua libertà. Così come la perderà lo Stato, in cambio dell´appoggio della Chiesa. Il clericalismo ateo è la forma odierna di questa duplice corruzione, alla quale concorre il tangibile interesse tanto della parte ecclesiastica quanto di quella civile.
Se la politica invoca dio. La crisi della società secolare
La lezione di Gustavo Zagrebelsky a Bologna
Secondo alcuni sarebbe finito il movimento storico che in cinque secoli ha portato l’Occidente a distinguere Stato e religione: ma è un problema tutto da discutere
Il clericalismo ateo è la forma odierna di una duplice corruzione
La Rivoluzione francese fu considerata opera del demonio fuor di metafora
Pubblichiamo alcune parti della lezione di per la serie "Elogio della politica" diretta da Ivano Dionigi
Le discussioni sul rapporto religione politica, non solo in Italia ma in generale nel mondo, sono contrassegnate da un atteggiamento che si potrebbe definire, con una contradictio in adiecto, come sociologia normativa. Si procede dalla descrizione delle condizioni de facto della società (sociologia) e da questa descrizione si ricavano conseguenze de iure (norme): da quello che succede a quello che è giusto che succeda.
Si constata un intreccio crescente tra poteri pubblici e autorità religiose. Il primo chiede sostegno alle seconde e le seconde al primo, ciascuno per la propria utilità. I rispettivi confini si fanno evanescenti. La politica manifestamente cerca l´appoggio della religione e la religione l´appoggio della politica. La "secolarizzazione", il movimento storico che in cinque secoli ha portato l´Occidente a distinguere tra politica e religione e a fondare lo Stato su ragioni immanenti, non teologiche, sarebbe alla fine. Saremmo entrati cioè nell´epoca della "post-secolarizzazione". La ragione di questo rinnovato intreccio starebbe nel fallimento della pretesa della "ragione secolare" di fondare il governo dell´esistenza, la comprensione del suo significato e la sua salvaguardia su forze morali e scientifiche proprie, cioè esclusivamente umane. Questo fallimento dimostrerebbe l´insensatezza di quella pretesa. La parabola storica che, dall´umanesimo, cioè dalla centralità e signoria dell´essere umano nell´universo, ha condotto alla sovranità popolare si starebbe per concludere con un tracollo.
A distanza di due secoli, dovremmo riconoscere che avevano ragione i critici della Rivoluzione, la rivoluzione che aveva preteso di rovesciare la base del potere, dalla grazia di Dio alla volontà popolare, e per questo fu considerata, non per metafora, opera del demonio. Da ciò deriverebbe la necessità di orientare di nuovo la vita politica al trascendente, tramite un rinnovato "appello al cielo". Dio e ciò che su Dio si appoggia nella storia, cioè religione e apparati chiesastici, siano chiamati, come deus ex machina, a superare l´impasse in cui, per il nostro orgoglio smisurato, ci saremmo cacciati. Da qui, la necessità di rivedere l´idea tramandata di laicità che abbiamo recepito dal passato e di adeguarla (ecco la "nuova laicità" di cui si parla) alle odierne condizioni delle nostre società.
Questo modo di ragionare è un insieme di proposizioni indimostrabili e contestabili e che non si legano affatto l´una all´altra. È cioè una serie di aporie che nascondono, nel migliore dei casi, salti logici e auto-illusioni; nel peggiore, inganni.
(a) Innanzitutto, questi argomenti ci trasportano in un´atmosfera che, a considerarla dappresso, appare intrisa di un certo spirito apocalittico e messianico. «Ormai solo un dio ci può salvare», è l´esclamazione di Martin Heidegger, entrata ormai nel nostro comune modo di pensare. Questa speranza è solo un modo per esprimere un atteggiamento nichilistico, cioè la rassegnazione di fronte a ciò che si ritiene inevitabile. Chi potrà mettere un freno all´effetto-serra? Un dio o l´applicazione del trattato di Kyoto sulle emissioni di gas nell´atmosfera? Chi potrà arrestare lo sfruttamento delle risorse agricole dei popoli del terzo e quarto mondo? Un dio o una politica adeguata del WTO?
(b) Se non "un dio", potrebbe essere "il Dio" di una religione positiva questo deus ex machina capace di proteggerci dallo sviluppo incontrollato della tecnica e dalle sue tendenze sociali distruttrici, ancorando la nostra visione del mondo a un principio d´ordine metafisico, sottratto al nostro arbitrio? La risposta positiva a questa domanda sembra ovvia. Dio è la fonte di atteggiamenti religiosi che coincidono con il riconoscimento dell´esistenza di un limite a protezione del sacro, sottratto a manipolazioni profane. La coscienza del sacro darebbe origine a quella forza interiore di governo delle pulsioni distruttrici, che è beneficamente orientata alla coesione sociale e ai comportamenti altruistici.
Ma è davvero così ovvio? Non mi pare. La storia insegna che il "sacro", come le religioni, sono un immenso deposito di forza. Ma è una forza ambigua, che può orientarsi a fini opposti, benefici o malefici; verso l´amore del prossimo o l´odio e l´oppressione del diverso; per la pace ma anche per la guerra; per la comprensione ma anche per l´incomprensione reciproca; per atteggiamenti modesti e moderati, ma anche arroganti e superbi; per il rispetto del creato ma anche per il suo sfruttamento intensivo.
(c) Se non a Dio, in generale, forse al Dio cristiano, di cui ci ha parlato Gesù di Nazareth, potremmo forse rivolgerci? Ricordo il senso in cui formuliamo questa domanda: lo scopo è di trovarvi una forza per il governo della società, cioè rivolgerci al cristianesimo come a una "religione civile". Davvero possiamo noi stravolgere l´insegnamento evangelico fino a farne qualcosa di simile a un manuale per il buon cittadino? Davvero possiamo trasformare Gesù di Nazareth, che, nel deserto, respinse la tentazione diabolica del potere, che fuggì sul monte quando lo si voleva proclamare re, che di fronte alla morte, non propose a Pilato un compromesso di comune utilità ma rivendicò una regalità di tutt´altra natura; davvero possiamo trasformarlo in maestro di virtù civili? La domanda suona di per se stessa assurda, ma lo è di meno se si considerano le resistenze che la gerarchia ecclesiastica, di recente per esempio in Spagna, ha opposto all´introduzione nella scuola di attività laiche di educazione alla cittadinanza, per riservare a sé, cioè alla dottrina cattolica, questa funzione. Il celebre passo di Paolo (Rom 13, 1-2): «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c´è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi, chi si oppone all´autorità, si oppone all´ordine stabilito da Dio», non sembra giustificare il commento della Bibbia di Gerusalemme: «In questo modo la religione cristiana penetra, oltre che la vita morale, la stessa vita civile». Il dovere incondizionato di obbedienza dei cristiani, infatti, non autorizza affatto a dire che la fede in Cristo si confonde (penetra) nel potere civile e così contribuisce a legittimarlo. Sembra significare, in certo modo, il contrario: obbedite comunque, fino a sopportare la persecuzione, in modo da potervi dedicare integralmente alle opere e alla testimonianza della fede. Solo quando l´ordine di Cesare contraddice la parola del Cristo, rendendo impossibile il suo ascolto, allora occorre obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini (Atti, 5, 29).
Da nessuna parte, pare, si autorizza l´uso della fede cristiana per rafforzare - come anche d´altra parte per indebolire - l´autorità del potere civile. I cristiani «risiedono ciascuno nella propria patria, ma come stranieri»; «partecipano a tutti gli oneri pubblici, [non come cristiani, ma] come cittadini». La distinzione, che così chiaramente è posta nella Lettera a Diogneto, equivale a condannare ogni uso civile della religione cristiana. E, invece, nelle alte sfere ecclesiastiche, è stata accolta con soddisfazione, quasi come un meritato riconoscimento e non come un affronto, come ci si sarebbe aspettati, l´affermazione recente di un Capo di Stato che dà atto che per un governante è buona cosa avere a che fare con cristiani timorati di Dio, dove il timor di Dio si traduce in speciale fedeltà e malleabilità politiche; dove la "buona Novella" diventa instrumentum regni.
D´altro canto, si può comprendere che l´autorità politica abbia interesse ad assicurarsi l´appoggio della religione. E si comprende ch´essa, per raggiungere lo scopo, sia disposta a concederle i più larghi privilegi, simbolici e materiali. La "ragion di Stato" lo consiglia e il governante accorto non si lascerà sfuggire l´occasione: «Tra tutte le leggi non ve n´è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de´ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri», diceva Giovanni Botero (Della Ragion di Stato, 1589, libro II, «Modi di propagar la religione»). In tal modo, però, sarà lo Stato a "penetrare" nella religione e la Chiesa, accarezzata nei suoi bisogni materiali e blandita nel suo desiderio di onori e ricchezze, perderà la sua libertà. Così come la perderà lo Stato, in cambio dell´appoggio della Chiesa. Il clericalismo ateo è la forma odierna di questa duplice corruzione, alla quale concorre il tangibile interesse tanto della parte ecclesiastica quanto di quella civile.