Corriere della Sera 20.7.08
Il saggio di Alessandra Dino
Quando la mafia è troppo devota
Cosa Nostra e il controverso legame tra uomini d'onore e Chiesa
di Vittorio Grevi
A 15 anni dall'assassinio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio a Palermo, di fronte ad una Chiesa siciliana ancora divisa nella valutazione della figura del sacerdote ucciso dai sicari, per il suo impegno contro i soprusi delle cosche, la sociologa Alessandra Dino torna ad occuparsi di un tema cruciale sul terreno della criminalità organizzata siciliana, analizzando i rapporti tra «Chiesa, religione e Cosa nostra ». Ne è scaturito un volume di taglio insolito, e pressoché unico nella pubblicistica corrente ( La mafia devota, Laterza, pp. 304, e 16), che non solo affronta alcuni interrogativi suscitati anche da recenti fatti di cronaca (esiste un Dio dei mafiosi? qual è il rapporto tra gli uomini d'onore e la religione?), ma si pone altresì il problema più generale dell'atteggiamento della Chiesa siciliana rispetto al fenomeno mafioso.
Circa il primo versante, il volume si sofferma sulle forme di devozione, non sempre propriamente evangelica, diffuse presso molti esponenti della mafia, dai capi alle manovalanze. Ne emerge che sovente l'immagine di Dio coltivata dai primi è diversa da quella dei secondi, distinguendosi per un maggior grado di strumentalità rispetto ai fini del sodalizio criminoso: insomma, un Dio «conveniente», funzionale agli obiettivi delle classi dirigenti affiliate alla mafia. Ma le manifestazioni di religiosità sono per molti aspetti analoghe. Sia quelle private (dai santini di Bernardo Provenzano agli altari domestici di Pietro Aglieri, fino all'uso frequente della Bibbia, e non soltanto per letture edificanti), sia quelle pubbliche, di solito caratterizzate da una forte ricerca della ritualità esterna, ricca di significati simbolici (tipico il caso delle feste e delle processioni, ad esempio quelle in onore di San Gaetano a Palermo o di Sant'Agata a Catania, non di rado promosse o controllate da potenti famiglie mafiose del luogo). E questo senza dire del linguaggio impiegato nell'universo mafioso, grondante di frequenti invocazioni al nome di Dio, talora evocato anche nel momento dei più brutali omicidi, quasi a giustificarli all'insegna di una morale superiore.
Quanto alla linea pastorale seguita dalla Chiesa siciliana nei rapporti con la «questione mafia», l'analisi contenuta nel volume si avvantaggia dei risultati di una apposita indagine svolta dall'autrice, anche mediante un particolare questionario, presso un significativo campione di sacerdoti isolani. Si tratta di risultati sconcertanti, che meritano una attenta riflessione da parte dei responsabili della Chiesa locale, poiché fotografano una realtà ecclesiale fortemente divaricata, e spesso ignara della gravità del problema rappresentato dalla mafia, dai suoi metodi e dalle sue ideologie pagane, rispetto al popolo dei fedeli. Basti pensare che solo il 15% degli intervistati dimostrava di avere piena consapevolezza della necessità di riservare una pastorale specifica al recupero del senso della legalità, mentre un altro 20% si limitava ad una «conoscenza stereotipica» del fenomeno mafioso (non priva di atteggiamenti critici anche nei confronti della magistratura), e il restante 65% si rifugiava in una posizione ambigua e pilatesca, ritenendo che la presenza mafiosa sul territorio non costituisse «una questione di diretta competenza della Chiesa».
Una Chiesa per buona parte senza coraggio e senza memoria (nemmeno delle severe invettive lanciate da Papa Giovanni Paolo II e dal Cardinale Pappalardo), dinnanzi alla quale Alessandra Dino, pur non disconoscendo i progressi compiuti negli anni sul piano delle posizioni ufficiali delle gerarchie, non può che registrare la fisionomia di una istituzione «dalle molte anime e dalle molte contraddizioni», poiché «come non esiste una sola mafia, non esiste una sola Chiesa». Una realtà preoccupante, che suscita «profondo disgusto» in un uomo di fede come don Luigi Ciotti, ma che lo induce «ad amare ancora di più» quella parte della Chiesa siciliana che è «capace di vivere fino in fondo il suo ruolo profetico», talora anche a rischio della vita dei suoi preti più coraggiosi.
Il saggio di Alessandra Dino
Quando la mafia è troppo devota
Cosa Nostra e il controverso legame tra uomini d'onore e Chiesa
di Vittorio Grevi
A 15 anni dall'assassinio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio a Palermo, di fronte ad una Chiesa siciliana ancora divisa nella valutazione della figura del sacerdote ucciso dai sicari, per il suo impegno contro i soprusi delle cosche, la sociologa Alessandra Dino torna ad occuparsi di un tema cruciale sul terreno della criminalità organizzata siciliana, analizzando i rapporti tra «Chiesa, religione e Cosa nostra ». Ne è scaturito un volume di taglio insolito, e pressoché unico nella pubblicistica corrente ( La mafia devota, Laterza, pp. 304, e 16), che non solo affronta alcuni interrogativi suscitati anche da recenti fatti di cronaca (esiste un Dio dei mafiosi? qual è il rapporto tra gli uomini d'onore e la religione?), ma si pone altresì il problema più generale dell'atteggiamento della Chiesa siciliana rispetto al fenomeno mafioso.
Circa il primo versante, il volume si sofferma sulle forme di devozione, non sempre propriamente evangelica, diffuse presso molti esponenti della mafia, dai capi alle manovalanze. Ne emerge che sovente l'immagine di Dio coltivata dai primi è diversa da quella dei secondi, distinguendosi per un maggior grado di strumentalità rispetto ai fini del sodalizio criminoso: insomma, un Dio «conveniente», funzionale agli obiettivi delle classi dirigenti affiliate alla mafia. Ma le manifestazioni di religiosità sono per molti aspetti analoghe. Sia quelle private (dai santini di Bernardo Provenzano agli altari domestici di Pietro Aglieri, fino all'uso frequente della Bibbia, e non soltanto per letture edificanti), sia quelle pubbliche, di solito caratterizzate da una forte ricerca della ritualità esterna, ricca di significati simbolici (tipico il caso delle feste e delle processioni, ad esempio quelle in onore di San Gaetano a Palermo o di Sant'Agata a Catania, non di rado promosse o controllate da potenti famiglie mafiose del luogo). E questo senza dire del linguaggio impiegato nell'universo mafioso, grondante di frequenti invocazioni al nome di Dio, talora evocato anche nel momento dei più brutali omicidi, quasi a giustificarli all'insegna di una morale superiore.
Quanto alla linea pastorale seguita dalla Chiesa siciliana nei rapporti con la «questione mafia», l'analisi contenuta nel volume si avvantaggia dei risultati di una apposita indagine svolta dall'autrice, anche mediante un particolare questionario, presso un significativo campione di sacerdoti isolani. Si tratta di risultati sconcertanti, che meritano una attenta riflessione da parte dei responsabili della Chiesa locale, poiché fotografano una realtà ecclesiale fortemente divaricata, e spesso ignara della gravità del problema rappresentato dalla mafia, dai suoi metodi e dalle sue ideologie pagane, rispetto al popolo dei fedeli. Basti pensare che solo il 15% degli intervistati dimostrava di avere piena consapevolezza della necessità di riservare una pastorale specifica al recupero del senso della legalità, mentre un altro 20% si limitava ad una «conoscenza stereotipica» del fenomeno mafioso (non priva di atteggiamenti critici anche nei confronti della magistratura), e il restante 65% si rifugiava in una posizione ambigua e pilatesca, ritenendo che la presenza mafiosa sul territorio non costituisse «una questione di diretta competenza della Chiesa».
Una Chiesa per buona parte senza coraggio e senza memoria (nemmeno delle severe invettive lanciate da Papa Giovanni Paolo II e dal Cardinale Pappalardo), dinnanzi alla quale Alessandra Dino, pur non disconoscendo i progressi compiuti negli anni sul piano delle posizioni ufficiali delle gerarchie, non può che registrare la fisionomia di una istituzione «dalle molte anime e dalle molte contraddizioni», poiché «come non esiste una sola mafia, non esiste una sola Chiesa». Una realtà preoccupante, che suscita «profondo disgusto» in un uomo di fede come don Luigi Ciotti, ma che lo induce «ad amare ancora di più» quella parte della Chiesa siciliana che è «capace di vivere fino in fondo il suo ruolo profetico», talora anche a rischio della vita dei suoi preti più coraggiosi.