La pietà di fronte al suo silenzio
Il Messaggero del 10 luglio 2008, pag. 1
di Vincenzo Cerami
Ci sono principi che vanno difesi fino in fondo affinché certi valori restino intatti nel tempo, al di là dei mutamenti storici e sociali. Il primo di questi principi riguarda la sacralità della vita, unico valore che possa fare da deterrente all’omicidio, sia individuale che di massa. Tale sacralità pone sullo stesso piano, e con la medesima drammaticità, la morte della singola persona e quella di intere comunità. Il pianto della madre dolorosa sotto la croce è il lamento di tutti gli esseri umani davanti al sacrilegio dell’assassinio. La vita degli uomini non appartiene agli uomini.
Una delle circostanze in cui siamo chiamati a fare i conti con questo principio, oltre all’applicazione della pena di morte, è il ricorso all’eutanasia in situazioni di assoluta disperazione. Qui si pongono in conflitto la difesa estrema di un caposaldo etico-religioso e la pietas di fronte a un caso umano di struggente dolore.
Ieri i giudici della Corte d’appello di Milano hanno dato l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione che tiene in vita vegetale Eluana Englaro, una ragazza di Lecco in coma da sedici anni. Suo padre non vuole parlare di eutanasia, prende a sinonimo il termine “libertà”, dice: “Ora la libereremo”.
Dunque si è chiesto alla giustizia terrena (ius) di decretare su una questione che appartiene alla trascendenza (fas), derogando dal dettato della Chiesa, ostile a ogni gesto umano che si sostituisca al volere di Dio nel decidere l’interruzione di una vita.
Nessuno di noi può ignorare la pena delle persone che sono costrette a convivere con la speranza senza speranza, per anni e anni. La loro vita va altrettanto difesa, perché si può essere vivi e morti nello stesso tempo. Bisogna avere la forza di immedesimarsi nel singolo caso e immaginare una casa, un dolore che non ha mai fine, una clinica, e giorni segnati dal silenzio. Bisogna immaginare il tempo che passa sempre uguale e un clima malinconico che condiziona la famiglia e i parenti. Affermato un principio, si pensa ad altro. Ma chi deve fare i conti quotidianamente con la malattia, non può permettersi di pensare ad altro. Sedici anni di buio fanno dire al padre di Eluana: “Ora la libereremo”.
Sarebbe ingiusto interpretare male questa frase, come se l’uomo volesse dire: “Ora ci libereremo”. No, il papà della ragazza è profondamente immerso nel silenzio della figlia, nel quale, da padre amoroso, ascolta la voce di chi non ce la fa a emergere alla luce. È lui che alla fine sceglie l’umana pietas e mette da parte il rigore dei principi.
Il Messaggero del 10 luglio 2008, pag. 1
di Vincenzo Cerami
Ci sono principi che vanno difesi fino in fondo affinché certi valori restino intatti nel tempo, al di là dei mutamenti storici e sociali. Il primo di questi principi riguarda la sacralità della vita, unico valore che possa fare da deterrente all’omicidio, sia individuale che di massa. Tale sacralità pone sullo stesso piano, e con la medesima drammaticità, la morte della singola persona e quella di intere comunità. Il pianto della madre dolorosa sotto la croce è il lamento di tutti gli esseri umani davanti al sacrilegio dell’assassinio. La vita degli uomini non appartiene agli uomini.
Una delle circostanze in cui siamo chiamati a fare i conti con questo principio, oltre all’applicazione della pena di morte, è il ricorso all’eutanasia in situazioni di assoluta disperazione. Qui si pongono in conflitto la difesa estrema di un caposaldo etico-religioso e la pietas di fronte a un caso umano di struggente dolore.
Ieri i giudici della Corte d’appello di Milano hanno dato l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione che tiene in vita vegetale Eluana Englaro, una ragazza di Lecco in coma da sedici anni. Suo padre non vuole parlare di eutanasia, prende a sinonimo il termine “libertà”, dice: “Ora la libereremo”.
Dunque si è chiesto alla giustizia terrena (ius) di decretare su una questione che appartiene alla trascendenza (fas), derogando dal dettato della Chiesa, ostile a ogni gesto umano che si sostituisca al volere di Dio nel decidere l’interruzione di una vita.
Nessuno di noi può ignorare la pena delle persone che sono costrette a convivere con la speranza senza speranza, per anni e anni. La loro vita va altrettanto difesa, perché si può essere vivi e morti nello stesso tempo. Bisogna avere la forza di immedesimarsi nel singolo caso e immaginare una casa, un dolore che non ha mai fine, una clinica, e giorni segnati dal silenzio. Bisogna immaginare il tempo che passa sempre uguale e un clima malinconico che condiziona la famiglia e i parenti. Affermato un principio, si pensa ad altro. Ma chi deve fare i conti quotidianamente con la malattia, non può permettersi di pensare ad altro. Sedici anni di buio fanno dire al padre di Eluana: “Ora la libereremo”.
Sarebbe ingiusto interpretare male questa frase, come se l’uomo volesse dire: “Ora ci libereremo”. No, il papà della ragazza è profondamente immerso nel silenzio della figlia, nel quale, da padre amoroso, ascolta la voce di chi non ce la fa a emergere alla luce. È lui che alla fine sceglie l’umana pietas e mette da parte il rigore dei principi.