il Riformista 15.7.08
Eutanasia, lasciare le cose come stanno?
Ma la legge prevede 15 anni di carcere
Sulla questione non ci si può girare ancora dall'altra parte
di Marco Cappato
Caro direttore, quindici anni di carcere. Ecco la prima cosa che hanno in comune le storie che girano intorno alla parola «eutanasia», se con questa intendiamo non un concetto giuridico (che infatti non è mai menzionato dal nostro ordinamento), ma la scelta di una «buona morte». I quindici anni di carcere per omicidio del consenziente sono la minaccia che pende su tutti coloro - medici, familiari, amici, nemici - che "aiutano" quelle persone. La seconda cosa che hanno in comune quelle storie sono le scelte, drammatiche, che investono sempre più le fasi finali (sempre più lunghe della vita), indipendentemente dalla «tecnica» necessaria per realizzarle.
Lei, direttore, vuole lasciare le cose come stanno. Dopotutto, si potrebbe dire, Piergiorgio Welby ha ottenuto di interrompere le terapie; Beppino Englaro è stato autorizzato a interrompere l'alimentazione di Eluana; una signora a Modena ha nominato un amministratore di sostegno che ha impedito la tracheotomia necessaria per farla vivere contro la propria volontà; Giovanni Nuvoli ha ottenuto di essere lasciato morire. E chi invece vuole vivere può - sanità permettendo - vivere.
Lasciamo le cose così, dunque? No. No, perché il radicale Welby ha mosso il mondo per tre mesi prima di trovare un medico (su 400 mila in Italia) disposto ad aiutarlo, e quel medico ha aspettato un anno prima di uscire innocente dalle aule dei tribunali, mentre se avessero agito i medici belgi pronti a somministrare una dose letale, sarebbero stati condannati al carcere; no, perché Beppino Englaro di anni ne ha aspettati sedici, e se si fosse mosso prima avrebbe rischiato quindici anni di carcere; no, perché la signora di Modena ha avuto la fortuna di trovare un magistrato pronto e sensibile, altrimenti ora avrebbe un tubo non voluto in gola; no, perché Giovanni Nuvoli si è dovuto uccidere da solo autosospendendosi cibo e acqua per otto giorni visto che i carabinieri avevano fermato l'anestesista radicale Tommaso Ciacca, il quale affrontava il rischio di... quindici anni di carcere!
Caro direttore, lei ha scritto che la scelta della madre malata che si toglie la vita è individuale e «tragicamente libera». E precisa: «Quando il malato è ancora in grado di fare da sé». Ma quando non è in grado di fare da sé? Davvero lei vorrebbe far dipendere tutto dal fatto che la persona ha ancora in sé un briciolo di energie per suicidarsi? Distinguere è bene, certo. Distinguere tra interruzione delle terapie, testamento biologico, suicidio assistito, suicidio, e le altre categorie che si possono individuare. Alla base di queste scelte c'è però il dovere, per lo Stato, di distinguere soprattutto tra una scelta libera e responsabile e una imposizione (di vita o di morte che sia) subita da altri: che siano medici ideologizzati o parenti ingordi. Da una parte c'è la «buona morte», dall'altra c'è l'eutanasia clandestina, l'omicidio o l'accanimento tecno-sanitario. Distinguere per legge non è «burocratico», ma è necessario per proteggere il cittadino da violenze, da suicidi di disperazione, da «cattive morti» che un aiuto della legge e dello Stato potrebbe trasformare sia in vite decenti che in buone morti, o «morti opportune», come le chiamava, con Jacques Pohier, Piero Welby.
Proprio come lei, la legge italiana oggi non distingue sulla base della scelta (se è libera o no), ma sulla «tecnica». Se il medico di Welby avesse usato qualche milligrammo in più di anestetico, sarebbe diventato un omicida. Se con Nuvoli un farmaco letale avesse interrotto la sua agonia di fame e di sete, sarebbe stato un omicidio, così come se qualcuno ritenesse che quella di Eluana ora non debba essere trasformata in «agonia dell'agonia», con lunghi giorni di tifoserie politico-religiose, ma medicalmente terminata in pochi attimi (dopo sedici lunghi anni).
Direttore, scrivere che «nessuna legge umana può regolare la morte», e al tempo stesso chiedere che «le cose restino come stanno», è semplicemente contraddittorio. Le leggi già ci sono: sono cattive leggi delle cattive morti, che ammettono eccezioni soltanto da parte di persone particolarmente preparate, agguerrite o fortunate. Ecco perché le buone leggi servono, e non ci si può girare dall'altra parte.
segretario Associazione Coscioni e deputato europeo radicale
Eutanasia, lasciare le cose come stanno?
Ma la legge prevede 15 anni di carcere
Sulla questione non ci si può girare ancora dall'altra parte
di Marco Cappato
Caro direttore, quindici anni di carcere. Ecco la prima cosa che hanno in comune le storie che girano intorno alla parola «eutanasia», se con questa intendiamo non un concetto giuridico (che infatti non è mai menzionato dal nostro ordinamento), ma la scelta di una «buona morte». I quindici anni di carcere per omicidio del consenziente sono la minaccia che pende su tutti coloro - medici, familiari, amici, nemici - che "aiutano" quelle persone. La seconda cosa che hanno in comune quelle storie sono le scelte, drammatiche, che investono sempre più le fasi finali (sempre più lunghe della vita), indipendentemente dalla «tecnica» necessaria per realizzarle.
Lei, direttore, vuole lasciare le cose come stanno. Dopotutto, si potrebbe dire, Piergiorgio Welby ha ottenuto di interrompere le terapie; Beppino Englaro è stato autorizzato a interrompere l'alimentazione di Eluana; una signora a Modena ha nominato un amministratore di sostegno che ha impedito la tracheotomia necessaria per farla vivere contro la propria volontà; Giovanni Nuvoli ha ottenuto di essere lasciato morire. E chi invece vuole vivere può - sanità permettendo - vivere.
Lasciamo le cose così, dunque? No. No, perché il radicale Welby ha mosso il mondo per tre mesi prima di trovare un medico (su 400 mila in Italia) disposto ad aiutarlo, e quel medico ha aspettato un anno prima di uscire innocente dalle aule dei tribunali, mentre se avessero agito i medici belgi pronti a somministrare una dose letale, sarebbero stati condannati al carcere; no, perché Beppino Englaro di anni ne ha aspettati sedici, e se si fosse mosso prima avrebbe rischiato quindici anni di carcere; no, perché la signora di Modena ha avuto la fortuna di trovare un magistrato pronto e sensibile, altrimenti ora avrebbe un tubo non voluto in gola; no, perché Giovanni Nuvoli si è dovuto uccidere da solo autosospendendosi cibo e acqua per otto giorni visto che i carabinieri avevano fermato l'anestesista radicale Tommaso Ciacca, il quale affrontava il rischio di... quindici anni di carcere!
Caro direttore, lei ha scritto che la scelta della madre malata che si toglie la vita è individuale e «tragicamente libera». E precisa: «Quando il malato è ancora in grado di fare da sé». Ma quando non è in grado di fare da sé? Davvero lei vorrebbe far dipendere tutto dal fatto che la persona ha ancora in sé un briciolo di energie per suicidarsi? Distinguere è bene, certo. Distinguere tra interruzione delle terapie, testamento biologico, suicidio assistito, suicidio, e le altre categorie che si possono individuare. Alla base di queste scelte c'è però il dovere, per lo Stato, di distinguere soprattutto tra una scelta libera e responsabile e una imposizione (di vita o di morte che sia) subita da altri: che siano medici ideologizzati o parenti ingordi. Da una parte c'è la «buona morte», dall'altra c'è l'eutanasia clandestina, l'omicidio o l'accanimento tecno-sanitario. Distinguere per legge non è «burocratico», ma è necessario per proteggere il cittadino da violenze, da suicidi di disperazione, da «cattive morti» che un aiuto della legge e dello Stato potrebbe trasformare sia in vite decenti che in buone morti, o «morti opportune», come le chiamava, con Jacques Pohier, Piero Welby.
Proprio come lei, la legge italiana oggi non distingue sulla base della scelta (se è libera o no), ma sulla «tecnica». Se il medico di Welby avesse usato qualche milligrammo in più di anestetico, sarebbe diventato un omicida. Se con Nuvoli un farmaco letale avesse interrotto la sua agonia di fame e di sete, sarebbe stato un omicidio, così come se qualcuno ritenesse che quella di Eluana ora non debba essere trasformata in «agonia dell'agonia», con lunghi giorni di tifoserie politico-religiose, ma medicalmente terminata in pochi attimi (dopo sedici lunghi anni).
Direttore, scrivere che «nessuna legge umana può regolare la morte», e al tempo stesso chiedere che «le cose restino come stanno», è semplicemente contraddittorio. Le leggi già ci sono: sono cattive leggi delle cattive morti, che ammettono eccezioni soltanto da parte di persone particolarmente preparate, agguerrite o fortunate. Ecco perché le buone leggi servono, e non ci si può girare dall'altra parte.
segretario Associazione Coscioni e deputato europeo radicale