Eluana, quando staccare la spina può essere un atto non ingiusto
Il Gazzettino del 22 luglio 2008, pag. 12
di Giuseppe Sarti
La recentissima decisione della Corte d’Appello di Milano, che ha stabilito come ad Eluana possa essere consentito di morire, ha riacceso i riflettori su un tema oltremodo inquietante, tutt’altro che sopito dopo il non remoto caso di Piergiorgio Welby. E questo, in verità, un nodo assai complesso, e non solo per la incontestabile lacuna normativa che attualmente lo connota, ma perché in esso si intersecano componenti essenziali quali una ancora irrisolta possibilità di convivenza tra etica, religione e diritto. Cerchiamo quindi, e nel tentativo di fare un po’ d’ordine, di identificare la materia del contendere. Si tratta,. staccando la fatidica spina, di omicidio del consenziente, di eutanasia, di suicidio assistito, o di compimento d’un atto dovuto? Proviamo a rispondere. Non può essere certo uccidere chi sia d’accordo, e ciò per la doppia evidenza che la persona non è al momento in condizione di decidere, e che l’agente non ha di sicuro intenzione di privarla ingiustamente della vita.
Potrebbe allora essere eutanasia? Il concetto non differisce, nella sostanza, dalla prima ipotesi, salva la determinazione pietistica di porre fine, attraverso la morte, ad un insopportabile, quanto gravissimo e irreversibile stato di sofferenza dell’ammalato. Ma sempre obbedendo ad una precisa richiesta del paziente, e sul presupposto che egli sia (il che è tutto da discutere) padrone assoluto della propria vita.
Ecco, qui interviene l’aspetto religioso, quello cioè intimamente connesso al dono della vita, che se dono proprio è, da solo esclude che chiunque ne possa autonomamente disporre. In altri termini, vivere o morire, rientra nel novero dei patrimoni disponibili d’ogni individuo? Se sì, allora potrebbe argomentarsi di suicidio assistito, una pratica cioè di accompagnamento indolore attraverso il valico che separa la vita dalla morte. Ma ancora una volta, pure qui si assiste alla necessità d’una componente indispensabile, che è sempre rappresentata dalla volontà del richiedente.
II consenso (e la sua pratica attuazione) alla domanda di chi non intenda più vivere, si collocherebbe perciò come attività priva d’alcun riflesso di responsabilità, poiché quand’anche ad uccisione si dovesse pensare, essa sarebbe comunque un evento addebitabile in via esclusiva al suicida, che, come tale, non potrebbe però, proprio perché defunto, essere più punibile. Rimane dunque l’ultima ipotesi, quella cioè del compimento d’un atto dovuto, in ordine al quale la magistratura sembra convincentemente essersi orientata. Già lo scorso anno la Cassazione, con la sentenza del 16/10/2007, aveva posto alla legittimazione di interrompere un’esistenza, un paio di condizioni assai precise:
- che ci si fosse trovati in presenza di persona oggettivamente in condizioni di piena incoscienza per causa di una malattia giunta a livello di irreversibilità ed immutabilità, non suscettibili di alcun miglioramento, ancorché modesto o minimale;
- che la volontà espressa dal paziente, al tempo in cui era in condizione di manifestarla, fosse stata raccolta in termini di assoluta certezza, al di là d’ogni possibile o ragionevole dubbio.
In quest’ipotesi, hanno detto i supremi giudici, separare il paziente dalle macchine che lo trattengono in vita è, in quanto rispetto dovuto da parte del sanitario alla volontà dell’avente diritto, un comportamento consentito, e privo di responsabilità. Ora sembra che anche la Corte d’Appello’ di Milano abbia ripercorso il medesimo iter logico: laddove ci si trovi in presenza d’uno stato immutabile della malattia, e la persona abbia espresso in maniera chiara ed inequivoca la propria ferma determinazione di non seguitare a vivere, è lecito, cioè non ingiusto, interrompere l’efficacia che le macchine a presidio del mantenimento di nutrizione e respiro offrono. Ma con il limite d’una decisione adottata in ambito stretto di diritto positivo, a prescindere quindi da aspetti d’ordine etico o morale per chi possa essere chiamato a sostituirsi, con la propria opera manuale, al sempre ignoto naturale momento dell’ultimo respiro. E ciò, con buona pace di tutti i meccanismi, se così li vogliamo chiamare, previsti in alcuni ben precisi articoli del codice di deontologia medica.
Ma su questo punto, siamo fermamente convinti, nessuna legge degli uomini sarà mai in condizione di acquietare del tutto la coscienza di ognuno.
NOTE
avvocato Venezia
Il Gazzettino del 22 luglio 2008, pag. 12
di Giuseppe Sarti
La recentissima decisione della Corte d’Appello di Milano, che ha stabilito come ad Eluana possa essere consentito di morire, ha riacceso i riflettori su un tema oltremodo inquietante, tutt’altro che sopito dopo il non remoto caso di Piergiorgio Welby. E questo, in verità, un nodo assai complesso, e non solo per la incontestabile lacuna normativa che attualmente lo connota, ma perché in esso si intersecano componenti essenziali quali una ancora irrisolta possibilità di convivenza tra etica, religione e diritto. Cerchiamo quindi, e nel tentativo di fare un po’ d’ordine, di identificare la materia del contendere. Si tratta,. staccando la fatidica spina, di omicidio del consenziente, di eutanasia, di suicidio assistito, o di compimento d’un atto dovuto? Proviamo a rispondere. Non può essere certo uccidere chi sia d’accordo, e ciò per la doppia evidenza che la persona non è al momento in condizione di decidere, e che l’agente non ha di sicuro intenzione di privarla ingiustamente della vita.
Potrebbe allora essere eutanasia? Il concetto non differisce, nella sostanza, dalla prima ipotesi, salva la determinazione pietistica di porre fine, attraverso la morte, ad un insopportabile, quanto gravissimo e irreversibile stato di sofferenza dell’ammalato. Ma sempre obbedendo ad una precisa richiesta del paziente, e sul presupposto che egli sia (il che è tutto da discutere) padrone assoluto della propria vita.
Ecco, qui interviene l’aspetto religioso, quello cioè intimamente connesso al dono della vita, che se dono proprio è, da solo esclude che chiunque ne possa autonomamente disporre. In altri termini, vivere o morire, rientra nel novero dei patrimoni disponibili d’ogni individuo? Se sì, allora potrebbe argomentarsi di suicidio assistito, una pratica cioè di accompagnamento indolore attraverso il valico che separa la vita dalla morte. Ma ancora una volta, pure qui si assiste alla necessità d’una componente indispensabile, che è sempre rappresentata dalla volontà del richiedente.
II consenso (e la sua pratica attuazione) alla domanda di chi non intenda più vivere, si collocherebbe perciò come attività priva d’alcun riflesso di responsabilità, poiché quand’anche ad uccisione si dovesse pensare, essa sarebbe comunque un evento addebitabile in via esclusiva al suicida, che, come tale, non potrebbe però, proprio perché defunto, essere più punibile. Rimane dunque l’ultima ipotesi, quella cioè del compimento d’un atto dovuto, in ordine al quale la magistratura sembra convincentemente essersi orientata. Già lo scorso anno la Cassazione, con la sentenza del 16/10/2007, aveva posto alla legittimazione di interrompere un’esistenza, un paio di condizioni assai precise:
- che ci si fosse trovati in presenza di persona oggettivamente in condizioni di piena incoscienza per causa di una malattia giunta a livello di irreversibilità ed immutabilità, non suscettibili di alcun miglioramento, ancorché modesto o minimale;
- che la volontà espressa dal paziente, al tempo in cui era in condizione di manifestarla, fosse stata raccolta in termini di assoluta certezza, al di là d’ogni possibile o ragionevole dubbio.
In quest’ipotesi, hanno detto i supremi giudici, separare il paziente dalle macchine che lo trattengono in vita è, in quanto rispetto dovuto da parte del sanitario alla volontà dell’avente diritto, un comportamento consentito, e privo di responsabilità. Ora sembra che anche la Corte d’Appello’ di Milano abbia ripercorso il medesimo iter logico: laddove ci si trovi in presenza d’uno stato immutabile della malattia, e la persona abbia espresso in maniera chiara ed inequivoca la propria ferma determinazione di non seguitare a vivere, è lecito, cioè non ingiusto, interrompere l’efficacia che le macchine a presidio del mantenimento di nutrizione e respiro offrono. Ma con il limite d’una decisione adottata in ambito stretto di diritto positivo, a prescindere quindi da aspetti d’ordine etico o morale per chi possa essere chiamato a sostituirsi, con la propria opera manuale, al sempre ignoto naturale momento dell’ultimo respiro. E ciò, con buona pace di tutti i meccanismi, se così li vogliamo chiamare, previsti in alcuni ben precisi articoli del codice di deontologia medica.
Ma su questo punto, siamo fermamente convinti, nessuna legge degli uomini sarà mai in condizione di acquietare del tutto la coscienza di ognuno.
NOTE
avvocato Venezia