Alto ADIGE, 16 Luglio 2008
LA SENTENZA D’APPELLO - Pubblicate ieri a distanza di tre mesi le motivazioni della condanna del sacerdote
«Ragazza credibile, indizi sufficienti»
Mario Bertoldi
Per la condanna di don Giorgio Carli è bastata la parola della presunta parte offesa. Decisivi anche i consulenti dell’accusa:
la Corte ha accolto in pieno il teorema della Procura
Nessun dubbio sulla veridicità dei ricordi riemersi grazie alle cure psicoanalitiche
BOLZANO. Ricordi lineari, precisi, mai contradditori. E’ stato il racconto-denuncia della presunta parte lesa a risultare decisivo nella sentenza con cui la corte d’appello il 16 aprile scorso ha condannato a 7 anni e mezzo di reclusione don Giorgio Carli, il sacerdote assolto in primo grado (da un tribunale tutto al femminile) dall’accusa di aver violentato per alcuni anni una parrocchiana che all’epoca dei fatti era una bimba. Dichiarazioni attendibili, dice la Corte, con efficacia probatoria piena.
Secondo la Corte, dunque, le sole dichiarazioni della ragazza sono sufficienti a dimostrare che i fatti raccontati siano effettivamente accaduti. In sentenza i giudici parlano di «comportamento processuale equilibrato» della denunciante e sottolineano come in tutta la vicenda non siano emersi interessi particolari che possano aver indotto la giovane a fornire un racconto non veritiero. Non solo. I riferimenti di tempo, dei luoghi, delle persone e delle cose indicate sono risultati tutti corretti. Nei ricordi, riemersi grazie dapprima all’interpretazione di un sogno e poi ad una lunga e articolata cura psicoanalitica, i particolari forniti sono risultati sempre numerosi, precisi e corretti. Sono perfettamente ancorati alla realtà - scrivono ancora i giudici d’appello - anche i riferimenti fatti dalla parte lesa (che è da ritenere perfettamente sana di mente) alle attività personali e parrocchiali. Le motivazioni della sentenza di condanna del sacerdote sono dimostrazione che la corte d’appello ha accolto in tutto e per tutto il teorema accusatorio sostenuto da Procura e parte civile. In 183 pagine dattiloscritte la corte ripercorre le tappe della vicenda ma arriva anche a definire il contesto ambientale in cui i fatti si sarebbero svolti, con un ambiente parrocchiale torbido in cui don Giorgio avrebbe avuto piena libertà d’azione per alcuni anni.
Sotto il profilo tecnico la corte d’appello smonta il percorso logico-giuridico del tribunale di primo grado: considera pienamente attendibile la ragazza denunciante e non ritiene che le deposizioni di alcuni testi (in primo luogo del ragazzino che avrebbe partecipato ad alcuni degli stupri in parrocchia) abbiano la forza di togliere credibilità al racconto della presunta parte lesa. E’ questo il passaggio che porta al ribaltamento della sentenza ed è soprattutto la deposizione del cosiddetto superteste a pesare. Il ragazzo che venne indicato come compartecipe degli stupri di don Giorgio (su regia dello stesso sacerdote che avrebbe filmato gli abusi) è stato considerato dalla corte palesemente inattendibile in quanto avrebbe reso dichiarazioni contradditorie e incoerenti, considerate dai giudici di secondo grado non idonee «ad inficiare l’attendibilità della persona offesa che, al contrario, ha reso deposizione estremamente lunga e al contempo lucida, lineare e coerente». Cosa aveva detto il giovane? In un primo tempo aveva lasciato intendere che quanto sostenuto dalla presunta parte lesa potrebbe essere stato vero, anche se personalmente non ricordava nulla. Successivamente, in aula a distanza di due anni, dichiarò (con risolutezza) che i fatti raccontati dalla donna che lo coinvolgevano non erano mai avvenuti. Lo stesso ragazzo era stato anche accusato dalla donna di ripetuti abusi sessuali nei suoi confronti per circa due anni nei bagni delle scuole medie «Alfieri» che entrambi frequentavano. Accusa che non ha mai trovato alcun riscontro (la zona dei bagni era sorvegliata dalla presenza dei bidelli sul corridoio) ma che i giudici d’appello non hanno preso neppure in considerazione (nemmeno a titolo di valutazione dell’attendibilità della ragazza) perchè non considerata nel capo d’imputazione.
«Confuse ed evasive» sono state considerate anche le deposizioni di altri due testi, che in primo grado erano state considerate in termini positivi per la difesa. Si tratta delle deposizioni del parroco don Gabriele Pedrotti e della catechista Culati Vigni, legati da un rapporto di affetto e di amicizia intima. Le loro dichiarazioni rese in aula nel processo di primo grado sono state definite «intrinsecamente contradditorie in contrasto con altri atti del processo, rispetto alle dichiarazioni rese in precedenza nella fase delle indagini preliminari, smentite in modo illogico e affatto convincente».
Un capitolo della sentenza depositata ieri è dedicato anche all’analisi critica del pronunciamento di primo grado che mandò assolto don Giorgio, seppur nel dubbio. I giudici d’appello ritengono che il tribunale abbia «omesso di valutare positivamente quali riscontri prove certe risultanti dagli atti».
La corte d’appello, dunque, parla di «prove certe» evidenziate e specificate in un lungo elenco di elementi tutti a suo tempo contestati dalla difesa del sacerdote (anche nella ricostruzione temporale) quali la macchie di sangue rilevate dalla madre nelle mutandine della piccola abusata, i riferimenti precisi della presunta parte lesa in relazione ai luoghi delle violenze, le dichiarazioni di don Pedrotti in una intercettazione telefonica in cui parla di uno «scivolone» di don Giorgio che «non si sarà probabilmente ripetuto» e le dichiarazioni al telefono della catechista Culati Vigni che, preoccupata per quanto emerso, parla di «un fondo di verità». Tutti elementi che, secondo la difesa di don Giorgio, sarebbero stati letti in termini suggestivi dalla Procura la cui impostazione, però, è stata accolta in pieno dai giudici d’appello con riferimento a deposizioni e testimonianze rese solo nel processo di primo grado, dunque lette dai verbali e non assunte in presa diretta. Poche righe (rispetto alle 183 pagine della sentenza) sono dedicate all’attendibilità di un ricordo-verità recuperato dopo mesi di cure psicoanalitiche: la sentenza elogia apertamente (e più volte) i consulenti della Procura e della parte civile, ritenendo al contrario non all’altezza della situazione i consulenti schierati dalla difesa che avevano sempre fatto riferimento ai possibili «falsi ricordi» che la psiconalisi può generare.
(16 luglio 2008)
LA SENTENZA D’APPELLO - Pubblicate ieri a distanza di tre mesi le motivazioni della condanna del sacerdote
«Ragazza credibile, indizi sufficienti»
Mario Bertoldi
Per la condanna di don Giorgio Carli è bastata la parola della presunta parte offesa. Decisivi anche i consulenti dell’accusa:
la Corte ha accolto in pieno il teorema della Procura
Nessun dubbio sulla veridicità dei ricordi riemersi grazie alle cure psicoanalitiche
BOLZANO. Ricordi lineari, precisi, mai contradditori. E’ stato il racconto-denuncia della presunta parte lesa a risultare decisivo nella sentenza con cui la corte d’appello il 16 aprile scorso ha condannato a 7 anni e mezzo di reclusione don Giorgio Carli, il sacerdote assolto in primo grado (da un tribunale tutto al femminile) dall’accusa di aver violentato per alcuni anni una parrocchiana che all’epoca dei fatti era una bimba. Dichiarazioni attendibili, dice la Corte, con efficacia probatoria piena.
Secondo la Corte, dunque, le sole dichiarazioni della ragazza sono sufficienti a dimostrare che i fatti raccontati siano effettivamente accaduti. In sentenza i giudici parlano di «comportamento processuale equilibrato» della denunciante e sottolineano come in tutta la vicenda non siano emersi interessi particolari che possano aver indotto la giovane a fornire un racconto non veritiero. Non solo. I riferimenti di tempo, dei luoghi, delle persone e delle cose indicate sono risultati tutti corretti. Nei ricordi, riemersi grazie dapprima all’interpretazione di un sogno e poi ad una lunga e articolata cura psicoanalitica, i particolari forniti sono risultati sempre numerosi, precisi e corretti. Sono perfettamente ancorati alla realtà - scrivono ancora i giudici d’appello - anche i riferimenti fatti dalla parte lesa (che è da ritenere perfettamente sana di mente) alle attività personali e parrocchiali. Le motivazioni della sentenza di condanna del sacerdote sono dimostrazione che la corte d’appello ha accolto in tutto e per tutto il teorema accusatorio sostenuto da Procura e parte civile. In 183 pagine dattiloscritte la corte ripercorre le tappe della vicenda ma arriva anche a definire il contesto ambientale in cui i fatti si sarebbero svolti, con un ambiente parrocchiale torbido in cui don Giorgio avrebbe avuto piena libertà d’azione per alcuni anni.
Sotto il profilo tecnico la corte d’appello smonta il percorso logico-giuridico del tribunale di primo grado: considera pienamente attendibile la ragazza denunciante e non ritiene che le deposizioni di alcuni testi (in primo luogo del ragazzino che avrebbe partecipato ad alcuni degli stupri in parrocchia) abbiano la forza di togliere credibilità al racconto della presunta parte lesa. E’ questo il passaggio che porta al ribaltamento della sentenza ed è soprattutto la deposizione del cosiddetto superteste a pesare. Il ragazzo che venne indicato come compartecipe degli stupri di don Giorgio (su regia dello stesso sacerdote che avrebbe filmato gli abusi) è stato considerato dalla corte palesemente inattendibile in quanto avrebbe reso dichiarazioni contradditorie e incoerenti, considerate dai giudici di secondo grado non idonee «ad inficiare l’attendibilità della persona offesa che, al contrario, ha reso deposizione estremamente lunga e al contempo lucida, lineare e coerente». Cosa aveva detto il giovane? In un primo tempo aveva lasciato intendere che quanto sostenuto dalla presunta parte lesa potrebbe essere stato vero, anche se personalmente non ricordava nulla. Successivamente, in aula a distanza di due anni, dichiarò (con risolutezza) che i fatti raccontati dalla donna che lo coinvolgevano non erano mai avvenuti. Lo stesso ragazzo era stato anche accusato dalla donna di ripetuti abusi sessuali nei suoi confronti per circa due anni nei bagni delle scuole medie «Alfieri» che entrambi frequentavano. Accusa che non ha mai trovato alcun riscontro (la zona dei bagni era sorvegliata dalla presenza dei bidelli sul corridoio) ma che i giudici d’appello non hanno preso neppure in considerazione (nemmeno a titolo di valutazione dell’attendibilità della ragazza) perchè non considerata nel capo d’imputazione.
«Confuse ed evasive» sono state considerate anche le deposizioni di altri due testi, che in primo grado erano state considerate in termini positivi per la difesa. Si tratta delle deposizioni del parroco don Gabriele Pedrotti e della catechista Culati Vigni, legati da un rapporto di affetto e di amicizia intima. Le loro dichiarazioni rese in aula nel processo di primo grado sono state definite «intrinsecamente contradditorie in contrasto con altri atti del processo, rispetto alle dichiarazioni rese in precedenza nella fase delle indagini preliminari, smentite in modo illogico e affatto convincente».
Un capitolo della sentenza depositata ieri è dedicato anche all’analisi critica del pronunciamento di primo grado che mandò assolto don Giorgio, seppur nel dubbio. I giudici d’appello ritengono che il tribunale abbia «omesso di valutare positivamente quali riscontri prove certe risultanti dagli atti».
La corte d’appello, dunque, parla di «prove certe» evidenziate e specificate in un lungo elenco di elementi tutti a suo tempo contestati dalla difesa del sacerdote (anche nella ricostruzione temporale) quali la macchie di sangue rilevate dalla madre nelle mutandine della piccola abusata, i riferimenti precisi della presunta parte lesa in relazione ai luoghi delle violenze, le dichiarazioni di don Pedrotti in una intercettazione telefonica in cui parla di uno «scivolone» di don Giorgio che «non si sarà probabilmente ripetuto» e le dichiarazioni al telefono della catechista Culati Vigni che, preoccupata per quanto emerso, parla di «un fondo di verità». Tutti elementi che, secondo la difesa di don Giorgio, sarebbero stati letti in termini suggestivi dalla Procura la cui impostazione, però, è stata accolta in pieno dai giudici d’appello con riferimento a deposizioni e testimonianze rese solo nel processo di primo grado, dunque lette dai verbali e non assunte in presa diretta. Poche righe (rispetto alle 183 pagine della sentenza) sono dedicate all’attendibilità di un ricordo-verità recuperato dopo mesi di cure psicoanalitiche: la sentenza elogia apertamente (e più volte) i consulenti della Procura e della parte civile, ritenendo al contrario non all’altezza della situazione i consulenti schierati dalla difesa che avevano sempre fatto riferimento ai possibili «falsi ricordi» che la psiconalisi può generare.
(16 luglio 2008)