Giusto così: la sua non era più vita
Il Giornale del 10 luglio 2008, pag. 1
di Giordano Bruno Guerri
La vita è sacra, è vero. Questa affermazione di principio, però, perde senso e valore quando si passa a considerare non la vita in generale, ma quella di chi è ridotto allo stato vegetativo: cessate le funzione cerebrali, senza coscienza, nutrito a forza, il corpo inerte collegato a macchinari che fanno proseguire artificialmente, forzatamente, un'esistenza che di umano non ha più niente, se non il dolore. Due anni fa, quando Piergiorgio Welby chiedeva di morire, ci fu chi sostenne che quando un uomo soffre fino al punto di desiderare la morte, gli si deve far capire che la vita può essere bella proprio grazie all'amore degli altri. Parole belle quanto astratte, che suonano come imposizione dell'amore, come privazione della libertà di scegliere tra un bene universale e teorico e un «male» individuale e liberatorio: la scelta di morire. Invece Giovanni Paolo II, nell'enciclica Evangelium vitae, del 1995, sostenne che è giusto lasciare al malato una certa autonomia decisionale sull'ostinazione terapeutica: «È lecito sospendere l'applicazione delle cure quando i risultati non corrispondono all'aspettativa». E fin qui abbiamo parlato di individui malati e però capaci di decidere se davvero valga la pena di essere vissuta un'esistenza senza prospettiva se non altro dolore, altra impossibilità ad agire persino nei gesti più semplici e quotidiani, altra dipendenza da uomini e macchine che lo costringono a vivere contro il suo desiderio di resa, di fine, di pace.
Eluana non poteva neanche scegliere, non poteva scegliere niente, neppure se aprire o chiudere gli occhi. Aveva bisogno di qualcuno che la amasse abbastanza per liberarla, sicuro che lei avrebbe voluto così. E nessuno poteva saperlo meglio di suo padre, che per anni si è battuto per dare la pace al corpo inerte di sua figlia.
C'è chi parlerà di inaccettabile «relativismo etico», perché la vita va difesa sempre e comunque. Non sono d'accordo. Proviamo a fare un esempio a rovescio, quando si tratta di difendere una vita, invece che di concedere una morte: se un testimone di Geova adulto, in base alla sua fede, rifiuta una trasfusione di sangue che lo salverebbe, possiamo riconoscergli questo diritto. Se invece quello stesso testimone di Geova volesse impedire la trasfusione che salverebbe un suo figlio di due anni, la trasfusione verrebbe fatta contro la sua volontà. Il relativismo etico non c'entra, qui si tratta di difendere i diritti dell'individuo, in particolare del più debole. E così dev'essere anche per l'eutanasia. Infatti la corte milanese che ha ammesso la possibilità di «staccare la spina» a Eluana, si è basata su una sentenza della Corte di cassazione del 16 ottobre dell'anno scorso, dopo il caso Welby: è stata riconosciuta l'irreversibilità dello stato vegetativo di Eluana e dimostrato che la ragazza avrebbe preferito morire piuttosto che vivere in quello stato. Continuare tenerla in vita significherebbe soltanto continuare ad andare contro i suoi diritti, che le sono già stati negati per tanti, troppi anni.
A Eluana è stato fatto un torto lungo sedici anni di inutile strazio. C'è un solo modo per evitare che questo dolore si ripeta in altre famiglie, senza costringerle a interminabili cause in tribunale. In Parlamento giace da anni la proposta di legge di Umberto Veronesi sul testamento biologico, una proposta che dovrebbe venire discussa al più presto. Grazie al testamento biologico ogni cittadino potrebbe decidere, nel pieno delle forze e della salute, se in caso di malattia incurabile si possa esercitare su di lui quell'«accanimento terapeutico» più simile a un'offesa alla vita che a una sua difesa.
Il Giornale del 10 luglio 2008, pag. 1
di Giordano Bruno Guerri
La vita è sacra, è vero. Questa affermazione di principio, però, perde senso e valore quando si passa a considerare non la vita in generale, ma quella di chi è ridotto allo stato vegetativo: cessate le funzione cerebrali, senza coscienza, nutrito a forza, il corpo inerte collegato a macchinari che fanno proseguire artificialmente, forzatamente, un'esistenza che di umano non ha più niente, se non il dolore. Due anni fa, quando Piergiorgio Welby chiedeva di morire, ci fu chi sostenne che quando un uomo soffre fino al punto di desiderare la morte, gli si deve far capire che la vita può essere bella proprio grazie all'amore degli altri. Parole belle quanto astratte, che suonano come imposizione dell'amore, come privazione della libertà di scegliere tra un bene universale e teorico e un «male» individuale e liberatorio: la scelta di morire. Invece Giovanni Paolo II, nell'enciclica Evangelium vitae, del 1995, sostenne che è giusto lasciare al malato una certa autonomia decisionale sull'ostinazione terapeutica: «È lecito sospendere l'applicazione delle cure quando i risultati non corrispondono all'aspettativa». E fin qui abbiamo parlato di individui malati e però capaci di decidere se davvero valga la pena di essere vissuta un'esistenza senza prospettiva se non altro dolore, altra impossibilità ad agire persino nei gesti più semplici e quotidiani, altra dipendenza da uomini e macchine che lo costringono a vivere contro il suo desiderio di resa, di fine, di pace.
Eluana non poteva neanche scegliere, non poteva scegliere niente, neppure se aprire o chiudere gli occhi. Aveva bisogno di qualcuno che la amasse abbastanza per liberarla, sicuro che lei avrebbe voluto così. E nessuno poteva saperlo meglio di suo padre, che per anni si è battuto per dare la pace al corpo inerte di sua figlia.
C'è chi parlerà di inaccettabile «relativismo etico», perché la vita va difesa sempre e comunque. Non sono d'accordo. Proviamo a fare un esempio a rovescio, quando si tratta di difendere una vita, invece che di concedere una morte: se un testimone di Geova adulto, in base alla sua fede, rifiuta una trasfusione di sangue che lo salverebbe, possiamo riconoscergli questo diritto. Se invece quello stesso testimone di Geova volesse impedire la trasfusione che salverebbe un suo figlio di due anni, la trasfusione verrebbe fatta contro la sua volontà. Il relativismo etico non c'entra, qui si tratta di difendere i diritti dell'individuo, in particolare del più debole. E così dev'essere anche per l'eutanasia. Infatti la corte milanese che ha ammesso la possibilità di «staccare la spina» a Eluana, si è basata su una sentenza della Corte di cassazione del 16 ottobre dell'anno scorso, dopo il caso Welby: è stata riconosciuta l'irreversibilità dello stato vegetativo di Eluana e dimostrato che la ragazza avrebbe preferito morire piuttosto che vivere in quello stato. Continuare tenerla in vita significherebbe soltanto continuare ad andare contro i suoi diritti, che le sono già stati negati per tanti, troppi anni.
A Eluana è stato fatto un torto lungo sedici anni di inutile strazio. C'è un solo modo per evitare che questo dolore si ripeta in altre famiglie, senza costringerle a interminabili cause in tribunale. In Parlamento giace da anni la proposta di legge di Umberto Veronesi sul testamento biologico, una proposta che dovrebbe venire discussa al più presto. Grazie al testamento biologico ogni cittadino potrebbe decidere, nel pieno delle forze e della salute, se in caso di malattia incurabile si possa esercitare su di lui quell'«accanimento terapeutico» più simile a un'offesa alla vita che a una sua difesa.