mercoledì 30 luglio 2008

Il giudice: «Illegittima la legge sulla procreazione assistita»

Il giudice: «Illegittima la legge sulla procreazione assistita»

Il Secolo XIX del 30 luglio 2008, pag. 5

Sarà la Corte Costituzionale a dire l’ultima parola sulla legge perla procreazione assistita. Con l’ordinanza emessa dal giudice civile di Firenze Isabella Mariani, resa nota ieri, la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita incassa una sonora bocciatura e viene rinviata alla Consulta per un giudizio di costituzionalità proprio nei suoi punti più controversi, ovvero il "cuore" della legge stessa: primi fra tutti, il limite di tre embrioni producibili e l’obbligatorietà di impianto, senza possibilità di revoca del consenso da parte della donna, una volta che l’ovulo è stato fecondato. Ad essere contestato è inoltre il protocollo unico di trattamento cui il medico deve uniformarsi per tutte le pazienti, senza poter considerare la specificità di ogni singolo caso. Tanto che il giudice ritiene si crei un «grave nocumento alla salute della donna».



Spetta ora alla Corte, sulla base del ricorso presentato da una coppia con problemi di sterilità, come spiega l’avvocato Gianni Baldini, legale della coppia, decidere se le parti più importanti della legge sono o meno in contrasto con la Carta Costituzionale.



Sono quattro i punti bocciati dall’ordinanza: il limite dei tre embrioni producibili, l’obbligo del loro impianto contemporaneo in utero, il divieto di crioconservazione degli embrioni e l’irrevocabilità del consenso della paziente. Primo punto: la salute della donna. «L’assetto voluto dalla legge sulla fecondazione assistita crea grave nocumento alla salute della donna e nello stesso tempo non garantisce il fine che essa stessa si propone come programmatico, fornendo soluzioni contraddittorie e non ottimali». Il secondo punto riguarda il limite di tre embrioni. L’articolo 14 della legge «che prevede il limite massimo di tre embrioni da produrre ai fini della procreazione assistita - rileva Baldini - contrasta con l’interesse alla salute della donna ma anche con lo stesso codice di deontologia medica». Così come «crea gravi danni alla salute della donna», l’obbligo di impianto contemporaneo degli embrioni in utero e anche il divieto di crioconservazione. Il giudice dunque, rileva Baldini, «ritiene fondato non solo il contrasto con l’articolo 32 della Costituzione ma anche con l’articolo 3». Così, rileva Baldini, «mentre nel resto D’Europa le aspettative di gravidanza sfiorano il 30%, in Italia sono passate dal 25% nel 2003 al 21% nel 2006, è aumentato il numero dei parti gemellari e sono diminuiti i bambini nati con tecniche di procreazione».



Non è tutto. Il giudice dice no alla previsione di un «protocollo sanitario astratto, unico e non configurato sulle necessità di cura della singola persona». Inoltre si esprime contro l’irrevocabilità del consenso all’impianto po la fecondazione dell’ovulo (art.6), poiché «in assenza dei presupposti del trattamento sanitario obbligatorio (Tso) si realizza per questa via una coazione alla cura del tutto inammissibile».



«È una sonora bocciatura della legge - commenta Baldini - e se l’orientamento della Suprema Corte si manterrà coerente con tutte le pronunce precedenti - conclude il legale il conto alla rovescia per la legge potrebbe essere più che una semplice speranza».

Procreazione. Firenze rinvia la legge 40 alla Consulta

l’Unità 30.7.08
Procreazione. Firenze rinvia la legge 40 alla Consulta

Procreazione, ora la palla - o la «patata bollente», che dir si voglia - passa alla Corte Costituzionale. Con l'ordinanza emessa dal giudice civile di Firenze Isabella Mariani, infatti, la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita incassa una sonora bocciatura e viene rinviata alla Consulta per un giudizio di costituzionalità proprio su quelli che sono i suoi punti più controversi, ovvero il cuore della legge stessa: primo tra tutti, il limite di tre embrioni producibili e l'obbligatorietà di impianto, senza possibilità di revoca del consenso da parte della donna, una volta che l'ovulo è stato fecondato. Ad essere «contestato» è inoltre il protocollo unico di trattamento cui il medico deve uniformarsi per tutte le pazienti, senza poter considerare la specificità di ogni singolo caso. Tanto che il giudice ritiene si crei un «grave nocumento alla salute della donna».
Spetterà ora alla Corte, sulla base del ricorso presentato da una coppia milanese con problemi di sterilità, come spiega l'avvocato Gianni Baldini, loro legale di fiducia, decidere se le parti più importanti della legge sono o meno in contrasto con la Carta Costituzionale. Quattro i punti «bocciati» dall'ordinanza: il limite dei tre embrioni producibili, l'obbligo del loro impianto contemporaneo in utero, il divieto di crioconservazione degli embrioni e l'irrevocabilità del consenso della paziente.
«Se l'orientamento della Suprema Corte si manterrà coerente con tutte le pronunce precedenti - ha commentato il legale - il conto alla rovescia per la legge potrebbe essere più che una semplice speranza». Nel ricorso, ha inoltre spiegato Baldini, «si chiede anche alla Corte una pronuncia che faccia chiarezza circa la totale ammissibilità della diagnosi genetica preimpianto dell'embrione in particolari casi, poichè, la sua previsione da parte delle linee guida emanate dall'ex ministro Livia Turco, lascia comunque delle zone d'ombra».

lunedì 28 luglio 2008

Laicità la Turchia al bivio

Laicità la Turchia al bivio

QN del 28 luglio 2008, pag. 20

di Mario Arpino

In questi giorni è atteso il verdetto della Corte costituzionale turca nel processo intentato a metà marzo contro l’Akp (Giustizia e sviluppo), il partito del premier Erdogan. L’accusa, nella repubblica laica di Kemal Ataturk, è molto grave. L’Akp e i suoi capi - tra gli altri, il presidente del consiglio e il Capo dello Stato - sono accusati di favorire occultamente un piano strisciante per l’islamizzazione progressiva del paese e delle istituzioni. Il piano mirerebbe a stabilire, avvicinando progressivamente il moderato Akp ad altri partiti confessionali, un sistema basato sulla sharia, la legge coranica. Recep Tayyp Erdogan, la cui consorte veste il velo islamico, si difende energicamente, portando a sua discolpa la politica moderata del governo, le sue benemerenze in politica estera, la positiva mediazione nei primi approcci tra Israele e la Siria, la lotta armata contro l ‘terroristi, ovvero i separatisti del partito comunista curdo (Pkk), la correttezza delle elezioni, l’abolizione della pena di morte, la riforma del codice penale, simile a quello di molti paesi della Ue, il progressivo controllo delle istituzioni civili su quelle militari, l’arresto di alcuni membri di associazioni laiciste, ma estreme, che riuniscono militari e poliziotti in pensione. Qui appunto, viene al pettine il primo nodo. Le forze armate, cui Ataturk aveva lasciato il compito costituzionale di garantire, oltre che la sicurezza, la laicità delle istituzioni, sinora non si sono mosse, confidando sul lavoro dei giudici della suprema Corte. E’ bene ricordare che, negli ultimi cinquant’anni, per motivi analoghi hanno destituito quattro governi, e non esiterebbero certo, elezioni o meno, a destituire anche il quinto. Per loro, ma anche per la componente elitaria della popolazione, il valore della laicità istituzionale, visto ciò che è successo in altre parti del mondo, evidentemente conta assai di più di una democrazia compiuta. Eforse, considerato ciò che la ‘fabbrica"islamica del consenso ha già dimostrato altrove, non hanno proprio tutti i torti. E l’ingresso nell’Unione? Può aspettare. Meglio, prima, essere certi della salvezza. Tanto, sempre che ancora lo vogliano, hanno capito che ci sarà da aspettare comunque.

sabato 26 luglio 2008

FIRENZE - La soprintendenza a don Aldo "Via i fumetti da Orsanmichele"

FIRENZE - La soprintendenza a don Aldo "Via i fumetti da Orsanmichele"
VENERDÌ, 25 LUGLIO 2008 la Repubblica - Firenze

Un richiamo alla preghiera e alla fede, con alcuni manifesti a fumetti affissi nelle bacheca di Orsanmichele. «Comunicazioni che è meglio affiggere nella vicina chiesa della parrocchia di San Carlo, poiché non sono compatibili con gli elevati caratteri storici e artistici di Oranmichele, sede demaniale aperta al culto ma non parrocchia» spiega il direttore del complesso monumentale Antonio Godoli, scrivendo al parroco don Aldo Raimondi, dopo avere staccato e consegnato i manifesti al sacrestano. E il parroco di arrabbia, e attacca «contro l´ingiusta ingerenza nei territori delle fede» da parte di un funzionario della soprintendenza.

mercoledì 23 luglio 2008

La vita ci appartiene!

Il dibattito vita/morte, testamento biologico, accanimento terapeutico e eutania diviene ogni giorno sempre più attuale.
Abbiamo sempre pensato che la vita appartenga alle persone, e che ogni persona possa disporre liberamente della sua esistenza. Le religioni monoteistiche, oltre ad aver inventato un dio creatore, follemente sostengono che la vita appartine al loro inventato dio. Noi non siamo dei burattini in loro mano. Per questo motivo, e per seguire il dibattito su a chi appartenga la vita è nato il blo:
http://lavitaciappartiene.blogspot.com
Il blog informerà su quanto viene scritto su questo tema.

Il ritorno del mormone: in soccorso di McCain

Il ritorno del mormone: in soccorso di McCain

Corriere della Sera del 23 luglio 2008, pag. 14

di Massimo Gaggi

«Mai accettare un match di wrestling con un maiale. Ci si sporca tutti e due. E al maiale la cosa piace». Fino a qualche mese fa John McCain dava risposte di questo tipo a chi gli chiedeva del suo rivale, Mitt Romney. Ma dai tempi della sfida per la «nomination» repubblicana molte cose sono cambiate. E tra qualche giorno McCain potrebbe scegliere proprio «il maiale», il mormone ex governatore del Massachusetts, come candidato alla vicepresidenza.



Romney, che durante la campagna per le primarie aveva contrattaccato con altrettanta durezza, da mesi lavora a testa bassa per questo obiettivo. E’ diventato il più attivo «fund raiser» della campagna del senatore repubblicano e attacca continuamente Obama su tutte le reti televisive. «E più efficace come mio "supporter" di quanto non fosse come sostenitore di sé stesso», ridacchia McCain, tra il divertito e l’incredulo.



Dì certo tra i due non c’è «feeling» e il giudizio umano di McCain su Romney non è cambiato in questi mesi. E’ rimasto lo stesso di quando rifiutava di replicare ai suoi attacchi spiegando ai giornalisti: «Non ce n’è motivo. Tanto cambia posizione di continuo. Basta aspettare un paio di settimane». Un disprezzo che, dice chi lo conosce bene, è sopravvissuto alle ragioni tattiche della campagna.



Ma in politica vale la regola del «mai dire mai». E i vicepresidenti si scelgono per convenienza, non in base alla simpatia. Quattro anni fa, ad esempio, John Kerry scelse come «numero due» John Edwards pur non avendo con lui alcun rapporto particolare. E, infatti, dopo la sconfitta democratica, i due non si sono più parlati.



Se dovesse scegliere d’istinto, McCain che potrebbe ufficializzare la sua decisione già nei prossimi giorni, anche per riguadagnare l’attenzione dei media, distratti dal giro del mondo di Obama - probabilmente punterebbe su veri amici come il governatore della Fiori da Charlie Crist o quello del Minnesota, Tim Pawlenty, che gli sono stati a fianco fin dalla prima ora. Crist, che si schierò con lui quando la battaglia in casa repubblicana era ancora molto incerta e fu decisivo perla vittoria di McCain in Florida, certamente spera di essere il prescelto: ha addirittura deciso di sposarsi per evitare di essere criticato dalla destra cristiana, «allergica» alle unioni di fatto. Anche Pawlenty ha fatto qualcosa per non irritare i conservatori: ha accorciato la zazzera.



Poi ci sono i «vecchi» Joe Lieberman e Toni Ridge e la pattuglia delle donne, guidata dall’ ex capo di Hewlett Packard, Carly Fiorina. E c’è Bobby Jindal, il nuovo governatore della Louisiana: giovanissimo, di origine indiana, dinamico e con l’immagine del moralizzatore, è il personaggio che, «a pelle», piace dì più a McCain. Ed è anche il più stimato dai consiglieri del candidato repubblicano che, invece, non fanno mistero di detestare Romney.



«Ma un vicepresidente non deve essere né simpatico né giovane. Deve solo essere la persona che meglio può sostituire il presidente in caso dì necessità» spiega l’ex governatore dello Stato di New York, Mario Cuomo: un democratico, ma soprattutto un politico assai navigato. Da questo punto di vista Jindal è letteralmente privo di curriculum, mentre anche gli altri due governatori hanno poca esperienza a livello federale e nessuna sul piano internazionale.



Si torna, così, a Mitt Romney che, pur essendo giovane, ha già fatto molte esperienze come imprenditore, da governatore di uno Stato importante come il Massachusetts e come gestore di un grande evento internazionale: le olimpiadi di Salt Lake City. E’ un personaggio che piace alle imprese e che è competente in campo economico, il fianco scoperto di McCain, per sua stessa ammissione. I principali osservatori politici oggi scommettono su dì lui. «E poi - sottolinea Cuomo - anche dati alla mano è il più titolato a sostituire McCain in caso di suo impedimento», visto che nelle primarie repubblicane è stato il più votato, dopo il senatore dell’Arizona.



Tutto chiaro, insomma: le ragioni del pragmatismo politico sono dalla parte di Romney. Che, da giovane vicepresidente, si preparerebbe a subentrare a McCain alla fine dei suo mandato. Giochi fatti allora? Meglio aspettare: la prospettiva di ritrovarsi con a fianco il bel mormone con la faccia da attore hollywoodiano che dopo pochi mesi di presidenza McCain si metterebbe a parlare come l’erede designato fa venire l’orticaria all’eroe del Vietnam: uno che più volte, in passato, ha fatto prevalere il temperamento sulle ragioni della convenienza politica.



Certo, con l’America che sprofonda nella crisi, McCain ha bisogno di una stampella economica Ma proprio lui aveva definito l’ex governatore uno «che in Massachusetts ha aumentato le spese e le tasse e ha gestito lo Stato da incompetente» perdendo un sacco di posti di lavoro. Mica male come biglietto da visita per il proprio vice.

I nuovi evangelici pro Obama, la Jesus machine si divide

I nuovi evangelici pro Obama, la Jesus machine si divide

Il Riformista del 23 luglio 2008, pag. 5

di Paolo Rodari

Fu Ronald Reagan che, alla ricerca dell’appoggio dei conservatori religiosi, arrivò a dire: «You can’t endorse me but I can endorse you». È, più o meno, la medesima cosa che sta dicendo Barack Obama, forse il più reaganiano degli ultimi candidati alla Casa Bianca.



Un passo significativo, in questo senso, è quello che il leader dei democrats farà il prossimo 16 agosto nella Contea di Orange (California meridionale). In quella che è la casa di Rick Warren, fondatore della Saddleback Church (22 mila membri), egli parteciperà assieme a McCain a un forum religioso. Lo stile sarà quello sobrio proprio di Rick Warren: si parla nel tentativo di creare ponti e non fossati, unità e non divisione. Obama sa bene che la Saddleback Church non ha visioni e prospettive distanti dalle sue. E, per lui, riuscire a confermarsi davanti a quella parte di evangelici che già naturalmente sembra preferirlo a McCain, è un obiettivo da non mancare anche perché, chiesa dopo chiesa, è tutto l’elettorato evangelico che sarà determinate alle elezioni del prossimo novembre.



È sempre la solita regola: a seconda di chi votano gli evangelici - la Jesus Machine», come li ha definiti Dan Gilgoff -, si può conoscere chi sarà il vincitore delle elezioni negli Usa. E, infatti, non è per sport che Obama sta lavorando sodo con gli evangelici. Li vuole convincere, come un tempo ci riuscì Jimmy Carter, che di lui, loro, si possono fidare. Che potrebbe essere lui ciò che nel 2004 fu, per loro, George W Bush.



Obama, infatti, sa bene che, alle ultime elezioni, furono anche "le preghiere" e i voti degli evangelici, i faith voters, che consacrarono per la seconda volta Bush alla Casa Bianca. Loro, gli evangelici, l’avevano già votato in massa nel 2000 proprio per i suoi valori, per i suoi programmi incentrati sulla difesa della vita. Bush era l’uomo benedetto dalla destra religiosa americana. Era, in sostanza, quello che John Kerry non poteva e non voleva essere. Per questo, e non soltanto per la famosa sentenza della Corte Suprema, Bush vinse. E Kerry perse.



Può un simile elettorato abbandonare i repubblicani e votare per i democratici alla fine del 2008?



Sembrerebbe di no. Ma la sfida di Obama è proprio quella di riuscire laddove l’impresa pare impossibile. Della cosa, ne ha parlato recentemente anche Amy Sullivan in The Party Faithful How and Why Democrats Are Closing the God Gap (Scribner). Per avere il voto degli evangelici Obama deve saper puntare sulla necessità di dare al paese un welfare più equo, dove i protagonisti siano i gruppi intermedi, anche religiosi, un welfare che avvantaggi tutti e non soltanto alcuni e, insieme, deve essere in grado di non spaventare sulle cosiddette ethical questions. E John McCain, in questo senso, potrebbe aiutarlo perché, agli occhi degli evangelici, si presenta meno intransigente sui valori di quanto non lo sia Bush.



Quanto al welfare, Obama viaggia su binari dritti e sicuri. Il suo social activism è in sintonia con la dottrina sociale della Chiesa. E fa niente se c’è chi, come James Dobson, il leader di Focus on the Family, lo accusa di predicare bene ma razzolare male. Obama, sostiene Dobson, si dice vicino alla destra religiosa sui temi sociali ma poi assume posizioni controverse su aborto e ethical questions.



Nonostante Dobson, Obama va avanti per la sua strada e il tentativo, dichiarato pubblicamente, di unire cattolici, protestanti, musulmani ed ebrei puntando sul lavoro delle rispettive organizzazioni non profit nel sociale, piace e trova consenso in questi stessi movimenti. Ed è questo consenso, più che le non confermate voci di una sua possibile conversione al cattolicesimo in stile Tony Blair, che nel prossimo novembre potrebbe fare la differenza.



A inizio giugno il senatore dell’Illinois si è recato in Ohio per presentare una proposta per aumentare i fondi federali destinati alle iniziative contro la povertà organizzate dai gruppi religiosi. Per gli analisti, un chiaro messaggio. «I gruppi religiosi sono in grado di influenzare le elezioni», ha detto John C. Green, professore universitario, animatore del Pew Forum on Religion & Pubblic Life.



E anche se Green, rispetto al 2004, vede Obama in grado di accaparrarsi diversi voti tra i cattolici ma meno tra gli evangelici, non mancano gli analisti che pensano, invece, il contrario. Per Green, Obama faticherà a sfondare tra i gruppi vicini alla destra religiosa: «Anche se - ammette qualche voto, anche lì, lo prenderà». «Su questioni come aborto, o sesso extra-matrimonio, le distanze tra gli evangelici e il liberal Obama sono siderali. Ma su temi come l’economia, o la politica estera, i punti di incontro sono maggiori». Non a caso, infatti, Obama è riuscito a portare a casa un importante riconoscimento. E cioè l’endorsement del reverendo Kirbyjon Caldwell, leader della megachurch metodista di Huston il quale aveva sempre supportato Bush e, tra l’altro, ne aveva celebrato il matrimonio della figlia Jenna.



In favore di Obama gioca anche, come detto, McCain e, in particolare, la sua debolezza. Cresciuto nella Chiesa episcopale, passato poi a quella battista per seguire le orme della moglie Cindy, l’ex eroe del Vietnam non ha mai convinto i settori cristiani più conservatori. Anzi. Dopo aver, in passato, definito «promotori dell’intolleranza» figure storiche degli evangelici come Jerry Falwell e Pat Roberton, McCain ne ha cercato l’appoggio pubblico, ma ha ottenuto soltanto un timida dichiarazione di apprezzamento. «La grande incognita è proprio questa - ha affermato ancora Green : i leader religiosi mobiliteranno i loro fedeli per far vincere il candidato repubblicano? Io, penso di no». Anzi. In molti sostengono che tra i cattolici e gli evangelici, se qualcuno si muoverà in vista delle elezioni, lo farà per far vincere Obama. Esistono, tra l’altro, anche diversi gruppi religiosi - ad esempio il Catholics inAlliance for the Common Good, o i We believe in Ohio - conservatori nelle questioni "morali" ma progressisti in quelli sociali, che si dicono pronti a votare Obama come fecero, anni fa, gruppi simili in favore di Jimmy Carter.



In fondo Obama è rassicurante, anche per loro. E poi, come ha sostenuto recentemente il sociologo delle religioni statunitense Rodney Stark (un non cattolico), oggi, più che mai, la marginalizzazione della religione appare come un’ipotesi remota. Anzi, per vincere le elezioni la religione conta. Eccome.

Pedofilia, le vittime contro il Papa: «Ci ha ignorato»

pubblicato dal Corriere canadese. link
Pedofilia, le vittime contro il Papa: «Ci ha ignorato»
Polemiche dopo l’incontro del Pontefice che ha chiuso la Gmg
Articolo pubblicato il: 2008-07-22

SYDNEY - Esponenti di primo piano delle vittime di abusi sessuali del clero si sono lamentati di essere stati esclusi dall’incontro di Benedetto XVI che, poco prima della partenza da Sydney a conclusione della Gmg, ha ricevuto con alcune vittime scelte dall’arcidiocesi di Sydney. Chris MacIsaacs,del gruppo Broken Rites (Riti spezzati), ha detto che i suoi membri sono offesi per non essere stati ricevuti. MacIsaacs ha descritto l’incontro di ieri mattina come «una mossa cinica disegnata da esperti di pubbliche relazioni». «Si trattava solo di gestire la crisi, è tipico, la Chiesa fa sempre così», ha detto. «Si può sempre scegliere qualcuno che si accontenta, ma se vogliono risolvere il problema debbono ascoltare chi ha motivi di risentimento». Durante la messa che ha celebrato nella cappella della Cathedral House, il Papa ha incontrato quattro vittime, due uomini e due donne, con i loro assistenti e con il sacerdote che segue il loro cammino spirituale. «Ha ascoltato le loro storie e li ha consolati» , rivolgendo loro «parole di partecipazione e di conforto», ha riferito il portavoce padre Federico Lombardi. Sabato scorso, nella messa davanti alla conferenza episcopale australiana, Benedetto XVI aveva espresso «vergogna» per i «misfatti» dei preti pedofili, chiedendo che siano consegnati alla giustizia e invitando i fedeli a collaborare con i vescovi per sradicare questo dramma. La coppia di Melbourne. Anthony e Christine Foster le cui due figlie furono ripetutamente stuprate da un prete, e una delle quali si è poi suicidata, accusano l’arcivescovo di Sydney card. George Pell, di aver ostruito a lungo le richieste di risarcimento. Avevano chiesto udienza al Papa, e lamentano di non essere stati invitati all’incontro di ieri, e che non fossero presenti nemmeno dei rappresentanti di Broken Rites. «Sembra assolutamente incredibile che la Chiesa cattolica ignori il parere di persone che hanno espresso in modo articolato i bisogni e le richieste di tutte le vittime, e che il Papa incontri solo quattro persone, che possono non essere in grado di esprimere i punti di vista di tutte le vittime», ha detto Anthony Foster.
l card. Pell ha difeso il criterio di scelta delle persone ricevute dal Pontefice, spiegando che la messa di ieri mattina era intesa come un incontro privato e ristretto. «Centinaia di persone mi hanno contattato per incontrare il Papa, e non potevo certo accontentarle tutte. Ovviamente era un incontro limitato, ma speriamo che mandi un messaggio sul dispiacere genuino del Papa, e naturalmente dei vescovi australiani». Il direttore dell’Ufficio per gli standard professionali della Chiesa cattolica, Michael Salmon, ha detto di aver scelto i quattro partecipanti perché grazie al suo lavoro aveva acquisito una conoscenza delle loro storie. «Cercavamo persone che avessero progredito nel viaggio della guarigione, che non fossero a disagio nel partecipare alla messa, perché la messa è il cuore della tradizione cattolica». L’incontro è stato «veramente un’esperienza di guarigione» per le vittime presenti, ha aggiunto. «Il Papa è stato meraviglioso; è molto sensibile e umile, credo che abbiano colto questo suo spirito». In Australia si registrano 107 casi di condanne di sacerdoti o religiosi per abusi e altri processi ancora in corso, ma secondo i gruppi di supporto, le vittime si contano a migliaia.

martedì 22 luglio 2008

Eluana, un po’ di silenzio, prego

Eluana, un po’ di silenzio, prego

Il Manifesto del 22 luglio 2008, pag. 12

di Maria Antonietta Farina Coscioni

«Invasione di campo». E’ l’accusa che molti hanno mosso ai giudici della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Milano per la loro sentenza sul caso di Eluana Englaro. Un’accusa che non ha fondamento. I magistrati al contrario ci hanno consentito di «conoscere» la volontà di Eluana: una volontà che va difesa e tutelata; troppi, in queste ore, in nome della «vita» parlano e straparlano.



Ecco un campionario parziale di questo bestiario: «Ogni fedele cristiano ed ebreo confida che Jhavé fermi la mano e salvi Eluana come fece con Isacco», «Radicali e Associazione Coscioni festeggiano la morte di stato, l’omicidio autorizzato dalla giustizia italiana», «la sentenza è tragicamente sbagliata in punto di diritto e molto pericolosa per il sud sostanziale relativismo giuridico, proprio perché affida un precedente al giudice ordinario», ecc..



Eluana si trova in stato di coma vegetativo. Ipotizzare che un giorno si possa «risvegliare» e sostenere - lei che non è cosciente di nulla - che risponde e reagisce alle sollecitazioni è solo una crudele speculazione. E’ il momento di dire basta, tacete, abbiate rispetto! Ha detto Beppino, il papà di Eluana: «Sono legittime le opinioni di tutti, ma quando le situazioni sono così intime ed estreme, il parere che conta è quello di chi le vive sulla sua pelle». Meglio non si poteva dire.



Eluana è il paradigma di tante altre persone che, come lei, sono vittime di decisioni imposte e non volute; e non è accettabile alcuna discriminazione per effetto dell’attuale incapacità a pronunciarsi e del mancato riconoscimento di volontà precedentemente espresso sulla base di prove. Per questo ho deciso di promuovere una mozione «a sostegno del rispetto della volontà di Eluana» che impegna il governo a fare in modo che siano adottate in tempi brevi misure volte al riconoscimento legale dello strumento della dichiarazione anticipata di volontà in ambito sanitario (il cosiddetto «testamento biologico») con la nomina di un rappresentante fiduciario, in caso di incapacità, a tutela della volontà e libertà di scelta della persona. Si impegna inoltre il governo ad attivarsi perché la sanità pubblica non frapponga ostacoli al rispetto della volontà di Eluana, come indicato dalla Corte di appello di Milano.



Ho inoltre depositato un progetto di legge in materia di «consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari». C’è chi non vuole pronunciarsi sulla propria morte, né scegliere, affidandosi a quello che sarà; una scelta rispettabile e che va rispettata, come quella di chi non accetta di dover continuare a vivere in stato di coma vegetativo. Penso che si debba consentire la possibilità di scegliere tra le due opzioni: non un obbligo, ma una facoltà.



Si tratta di questioni urgenti, certo dolorose e laceranti, da trattare con rispetto e senza strumentalizzazioni; di interesse collettivo, più frequenti di quanto si immagini. Dai risultati di un’indagine del 2005, svolta da una commissione dei Ministero della salute, emergeva che in Italia erano circa 2.500 i pazienti che, come Eluana, si trovano in coma vegetativo. Un’adeguata informazione può fare molto perché su queste vicende torni a calare il silenzio.

NOTE

Deputata radicale e co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica

Terry Schiavo, Welby, Eluana La morte che non finisce mai

Terry Schiavo, Welby, Eluana La morte che non finisce mai

Liberazione del 22 luglio 2008, pag. 10

di Mariella Immacolato
Oggi i riflettori sono puntati su Eluana Eglaro, 3 anni fa tutto il mondo parlava di un altro tragico caso, Terry Schiavo. In entrambe le vicende, i medici si sono pronunciati sulla irreversibilità dello stato vegetativo delle due donne, dato il lungo tempo trascorso. Infatti è proprio il tempo che passa che decreta la permanenza ovvero la irreversibilità di tale stato. Per tutte e due, la lunga battaglia condotta dai loro tutori, il padre nel caso di Eluana, il marito per Terry, è stata per fare sì che la loro volontà di non essere mantenute in vita in quello stato, fosse rispettata.
La richiesta di sospensione della nutrizione e della idratazione artificiale da parte dei tutori ha il significato di rendere compiuta le volontà di Terry ed Eluana che, se avessero potuto, avrebbero rifiutato di continuare qualsiasi terapia. In Italia, le vicende Welby ed Englaro hanno permesso a tutti gli utenti, anche a quelli divenuti incapaci, di esercitare il diritto all'autodeterminazione e di realizzare a pieno il consenso/rifiuto informato. Tale diritto è finalmente diventato irrinunciabile in ogni percorso sanitario, con l'unica eccezione dello stato di necessità, che consente ai medici di intervenire, quando non ci sono volontà manifestate in precedenza, senza consenso del paziente.
Questi due casi italiani hanno fatto chiarezza: i medici ora non possono più prescindere, nel costruire la relazione terapeutica, dalla tutela del diritto all'informazione e al consenso delle persone/utenti per realizzare, così, la partecipazione dei pazienti alle scelte che riguardano la loro salute. Rispettare la dignità delle persone, valore contenuto nella Costituzione e nel diritto positivo, in sanità e non solo, significa in concreto tutelare il diritto all'autodeterminazione delle persone. Nella sentenza dei giudici della Corte di Appello di Milano, che autorizza la richiesta di Beppino Englaro di sospendere l'alimentazione e idratazione artificiale affinché Eluana possa morire in pace, vi è la netta affermazione dell'inviolabilità della sfera personale da parte di chicchessia, compreso lo Stato.
Sono state scritte e dette tante cose sui casi Schiavo ed Englaro, ma tra le tante colpisce la confusione di pochi concetti e termini, che sono abbastanza codificati, e la strumentalizzazione che di questa confusione si fa. Nel trattare temi così drammatici il linguaggio deve essere rigoroso e servire come uno strumento per rappresentare la realtà complessa delle cose. In alcune occasioni le condizioni di Terry e di Eluana sono state assimilate a quelle dei disabili psichici e dei portatori di handicap, facendo inorridire al pensiero di sospendere forzatamente il nutrimento a tale categoria di soggetti. Niente è più ingannevole di un simile accostamento. Disabile significa "diversamente abile", locuzione che definisce meglio tale stato. Per portatore di handicap, secondo la legge (art. 3 legge 104/'92), si intende «colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale e di emarginazione». Da queste definizioni, valide a livello internazionale, risulta che i soggetti interessati conservano, se pur in misura diversa, un certo grado di "abilità", che consente loro di interagire in qualche modo con l'ambiente sociale, in cui la legge prevede appunto siano integrati. Nello stato vegetativo permanente (Svp) sono perse tutte le abilità e nessuna interazione e integrazione con l'ambiente è più possibile, perciò è scorretto e ingannevole definire un malato in queste condizioni disabile o portatore di handicap.
E' ingannevole lasciare intendere che la sospensione della nutrizione e idratazione artificiale, nel caso di Eluana, sia eutanasia e non sospensione di terapia.
La sospensione di un trattamento di sostegno vitale diventa atto eutanasico nel caso che non sia espressa la volontà del paziente che lo riceve e il trattamento sia appropriato e non futile. Questo vuole dire che quella terapia incide positivamente sulla quantità della vita come parametro non fine a se stesso, sulla qualità della vita, e che la persona trae da tali interventi tecnici di sostegno vitale un beneficio complessivo. In questo caso l'interruzione, nel caso non risultasse il rifiuto del paziente, potrebbe configurare un atto eutanasico, in quanto la motivazione della sospensione ricadrebbe nell'ambito del giudizio sul valore di quella vita, ovvero sarebbe basata sulla valutazione di terzi che la vita di quel paziente, globalmente intesa, non sia più degna di essere vissuta. Se invece il trattamento, qualunque esso sia, non incide né sulla patologia di base, né sulla qualità della vita, ma ha solo il significato di mero prolungamento della vita biologica, allora il sospenderlo ha il significato di una legittima e doverosa interruzione di un trattamento non appropriato in quanto futile. Continuarlo potrebbe assumere il significato di accanimento terapeutico.
In ultima analisi, le chances di successo e l'appropriatezza, intesa in termini di efficacia, sono componenti importanti e ineludibili del giudizio di proporzionalità di una cura. La nutrizione e idratazione artificiale e tutti gli altri trattamenti di sostegno vitale hanno come obiettivo di sostenere il prolungamento cronologico della vita non in quanto tale, quindi fine a se stesso, ma finalizzato alla guarigione o a un miglioramento della patologia di base o a un recupero, piccolo o grande che sia, della qualità di vita, ovvero, in ultima analisi, al mantenimento di una vita, anche minima, biografica. Se non vi è alcuna chanche di raggiungere uno di questi obiettivi, viene a mancare il presupposto che rende questi mezzi appropriati e quindi il dovere di attuarli e l'obbligo di continuarli. Anzi, il mantenerli contro la volontà di chi li subisce, configura accanimento terapeutico. Nel caso poi dello stato vegetativo permanente, cioè di Eluana Englaro, la nutrizione e l'idratazione artificiale non hanno il fine di conservare la vita, ma quello di prolungare il "processo del morire", che le tecniche e i trattamenti rianimatori, tra i quali vanno comprese nutrizione e idratazione artificiale, hanno sospeso e forzatamente prolungato all'infinito.
Il progresso scientifico nel campo della rianimazione e della tecnologia ad essa applicata ha portato alla possibilità di intervenire nel "processo del morire", arrestandolo, in alcuni casi, con il ritorno alla vita, prolugandolo, purtroppo anche indefinitamente, in altri, ma mai invertendolo verso la vita, quando ha superato una certa soglia, come nel caso dello stato vegetativo permanente.
E' del tutto inopportuno scandalizzarsi e inorridire per il fatto che la vicenda umana di Eluana si concluda grazie alla sentenza della Corte di Appello di Milano. Tale vicenda è diventata giudiziaria nel momento in cui il padre Beppino ha visto violato il diritto all'autodeterminazione della figlia, che aveva espresso prima del fatale incidente il rifiuto delle cure che la mantengono oggi in stato vegetativo permanente, ed è ricorso ai giudici affinché tale diritto venisse ripristinato. Sono proprio i giudici che devono essere chiamati in causa quando ci sono controversie da dirimere in materia di tutela dei diritti umani previsti dall'ordinamento giuridico. Così succede in tutti i paesi civili dove, alla base della Costituzione, ci sono i diritti civili. In questi paesi, quando qualcuno ritiene che la loro tutela venga meno, si rivolge al giudice per avere giustizia. Così ha fatto per ben 9 volte Beppino Englaro. Così fu per i famosi casi americani di Karen Ann Quilan del 1975 e di Nancy Cruzan del 1983. Così, nel 1986, nel Massachusets, i giudici imposero ai medici di sospendere la nutrizione e idratazione artificiale a Paul Brophy, che aveva espresso un rifiuto anticipato. E sempre per questo motivo, nel 1987, nel New Jersey, fu la Corte, per la prima volta, ad autorizzare la sospensione anche in assenza di un rifiuto anticipato, riconoscendo al medico la responsabilità di decidere ricostruendo, caso per caso, il migliore interesse del singolo paziente. Nel 1991 furono i giudici a decidere, nel caso di Helga Wanglie, che vedeva medici e famigliari schierati su posizioni contrapposte, di autorizzare la decisione dei medici di sospendere le misure di sostegno vitale. Sono alcuni esempi di vicende in parte simili a quella di Eluana. La sospensione della nutrizione e idratazione nei casi di stato vegetativo permanente non è praticare l'eutanasia, ma consentire che il processo di morte, interrotto dai medici, possa riprendere e concludersi. E' un atto rispettoso sia di chi crede in Dio e ritiene il processo vitale legato alla sua volontà, sia dei laici per cui vale il principio irrinunciabile del rispetto della dignità umana. E' un atto che vale per l'umanità intera. Per chi crede nel sentimento della pìetas e della compassione verso il prossimo.

NOTE

Medico legale, Consulta di Bioetica

Eluana, quando staccare la spina può essere un atto non ingiusto

Eluana, quando staccare la spina può essere un atto non ingiusto

Il Gazzettino del 22 luglio 2008, pag. 12

di Giuseppe Sarti

La recentissima decisione della Corte d’Appello di Milano, che ha stabilito come ad Eluana possa essere consentito di morire, ha riacceso i riflettori su un tema oltremodo inquietante, tutt’altro che sopito dopo il non remoto caso di Piergiorgio Welby. E questo, in verità, un nodo assai complesso, e non solo per la incontestabile lacuna normativa che attualmente lo connota, ma perché in esso si intersecano componenti essenziali quali una ancora irrisolta possibilità di convivenza tra etica, religione e diritto. Cerchiamo quindi, e nel tentativo di fare un po’ d’ordine, di identificare la materia del contendere. Si tratta,. staccando la fatidica spina, di omicidio del consenziente, di eutanasia, di suicidio assistito, o di compimento d’un atto dovuto? Proviamo a rispondere. Non può essere certo uccidere chi sia d’accordo, e ciò per la doppia evidenza che la persona non è al momento in condizione di decidere, e che l’agente non ha di sicuro intenzione di privarla ingiustamente della vita.



Potrebbe allora essere eutanasia? Il concetto non differisce, nella sostanza, dalla prima ipotesi, salva la determinazione pietistica di porre fine, attraverso la morte, ad un insopportabile, quanto gravissimo e irreversibile stato di sofferenza dell’ammalato. Ma sempre obbedendo ad una precisa richiesta del paziente, e sul presupposto che egli sia (il che è tutto da discutere) padrone assoluto della propria vita.



Ecco, qui interviene l’aspetto religioso, quello cioè intimamente connesso al dono della vita, che se dono proprio è, da solo esclude che chiunque ne possa autonomamente disporre. In altri termini, vivere o morire, rientra nel novero dei patrimoni disponibili d’ogni individuo? Se sì, allora potrebbe argomentarsi di suicidio assistito, una pratica cioè di accompagnamento indolore attraverso il valico che separa la vita dalla morte. Ma ancora una volta, pure qui si assiste alla necessità d’una componente indispensabile, che è sempre rappresentata dalla volontà del richiedente.



II consenso (e la sua pratica attuazione) alla domanda di chi non intenda più vivere, si collocherebbe perciò come attività priva d’alcun riflesso di responsabilità, poiché quand’anche ad uccisione si dovesse pensare, essa sarebbe comunque un evento addebitabile in via esclusiva al suicida, che, come tale, non potrebbe però, proprio perché defunto, essere più punibile. Rimane dunque l’ultima ipotesi, quella cioè del compimento d’un atto dovuto, in ordine al quale la magistratura sembra convincentemente essersi orientata. Già lo scorso anno la Cassazione, con la sentenza del 16/10/2007, aveva posto alla legittimazione di interrompere un’esistenza, un paio di condizioni assai precise:

- che ci si fosse trovati in presenza di persona oggettivamente in condizioni di piena incoscienza per causa di una malattia giunta a livello di irreversibilità ed immutabilità, non suscettibili di alcun miglioramento, ancorché modesto o minimale;

- che la volontà espressa dal paziente, al tempo in cui era in condizione di manifestarla, fosse stata raccolta in termini di assoluta certezza, al di là d’ogni possibile o ragionevole dubbio.



In quest’ipotesi, hanno detto i supremi giudici, separare il paziente dalle macchine che lo trattengono in vita è, in quanto rispetto dovuto da parte del sanitario alla volontà dell’avente diritto, un comportamento consentito, e privo di responsabilità. Ora sembra che anche la Corte d’Appello’ di Milano abbia ripercorso il medesimo iter logico: laddove ci si trovi in presenza d’uno stato immutabile della malattia, e la persona abbia espresso in maniera chiara ed inequivoca la propria ferma determinazione di non seguitare a vivere, è lecito, cioè non ingiusto, interrompere l’efficacia che le macchine a presidio del mantenimento di nutrizione e respiro offrono. Ma con il limite d’una decisione adottata in ambito stretto di diritto positivo, a prescindere quindi da aspetti d’ordine etico o morale per chi possa essere chiamato a sostituirsi, con la propria opera manuale, al sempre ignoto naturale momento dell’ultimo respiro. E ciò, con buona pace di tutti i meccanismi, se così li vogliamo chiamare, previsti in alcuni ben precisi articoli del codice di deontologia medica.



Ma su questo punto, siamo fermamente convinti, nessuna legge degli uomini sarà mai in condizione di acquietare del tutto la coscienza di ognuno.

NOTE

avvocato Venezia

Firmati 7.000 testamenti biologici

Firmati 7.000 testamenti biologici

Corriere della Sera del 22 luglio 2008, pag. 15

di Grazia Maria Mottola

Sono circa settemila i testamenti biologici in Italia. Almeno quelli che hanno lasciato una traccia. Forse sull’onda emotiva dei casi Englaro, Welby, Schiavo, forse in virtù di un consapevole diritto alla libertà delle cure, certo è che gli italiani che lasciano per iscritto indicazioni ai medici su come comportarsi se colpiti da gravi cerebrolesioni aumentano da un anno all’altro, in attesa di una legge che regoli la materia.



Sono passati da mille a cinquemila i casi monitorati dalla Fondazione Veronesi, sul cui sito è possibile scaricare un modello standard. E sulle orme dell’ente che per primo ha lanciato una campagna a favore dei testamenti biologici, si muovono altre organizzazioni che su Internet diffondono moduli e consigli.



Ne ha fatto una missione «Exit Italia», associazione torinese fondata da Emilio Coveri, 57 anni, ex manager Iveco, oggi votato a raccogliere adesioni su come «non fare una fine tremenda». Quasi 1.400 soci, e altrettanti «moduli» compilati: «Ne teniamo una copia in associazione così ci resta memoria di chi viene nominato fiduciario (la persona incaricata di eseguire le volontà dell’ammalato, ndr). Ma ci aspettiamo che presto arrivi una legge perché sappiamo bene che queste disposizioni non sono vincolanti per i medici».



Coveri una soluzione, per sé, l’ha già trovata: «Ho lasciato un testamento biologico, ma mi sono iscritto anche alla Dignitas di Zurigo: se dovessi perdere la coscienza, è tutto previsto, mi porteranno in Svizzera dove mi è assicurata una morte dignitosa». In Exit Italia sono 74 quelli che lo hanno imitato. Numeri in crescita anche tra gli atti ricevuti dai notai, dopo l’iniziativa in Veneto di stipularli in cambio di una parcella simbolica di un euro.



Un’idea proposta nel contesto della vicenda di Eluana Englaro, di fatto, però, apice di un impegno che il notariato si è assunto già da alcuni anni: «Siamo andati incontro alle esigenze della gente che entrava, come tuttora entra, negli studi per chiedere informazioni - spiega Ernesto Marciano, presidente dei consigli notarili del Triveneto così abbiamo studiato gli strumenti giuridici che, in assenza della legge, potevano in qualche modo raggiungere lo scopo».



Oggi sono oltre cento i casi affidati ai notai, quasi tutti provenienti da persone sane. «La prospettiva è che aumentino» spiega Ernesto Quintobassi, studio a Cagliari, presidente della Commissione «propositiva» del Consiglio nazionale del notariato. In pratica segue il «diritto vivente», «una specie di onda che man mano cresce - spiega il giurista - che potrebbe poi portare a una legge».



Come appunto il «testamento di vita», la definizione preferita dal notariato, perché il vero testamento ha effetto solo dopo la morte dell’interessato: «Qui, invece, si tratta disposizioni fatte in vita da attuare quando la persona sarà in determinate condizioni di malattia - sottolinea Quintobassi -: il punto è che finché non ci sarà una legge l’ultima parola spetterà sempre ai medici».



Se e quando arriverà la normativa (sono una decina le proposte di legge), i notai sono già pronti: un registro telematico raccoglierà i testamenti di vita, così ogni medico potrà consultarlo per verificare eventuali disposizioni stabilite dal paziente quando era cosciente.

«Niente cure se non potrò più mangiare e bere»

«Niente cure se non potrò più mangiare e bere»

Il Messaggero del 22 luglio 2008, pag. 13

di Sandro Ianni
Rifiuta cure invasive e afferma il diritto a scegliere come e quando morire. Mentre ancora si discute del caso di Eluana Englaro, emerge il caso di un uomo di 48 anni immobilizzato da tempo in un letto di una casa di cura a Monastier, nel Trevigiano, perché affetto da sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Paolo Ravasin, che è anche presidente della Cellula Luca Coscioni di Treviso, ha deciso di affidare a un video pubblicato su internet il proprio testamento biologico. «Ha espresso le sue dichiarazioni anticipate di trattamento» fa sapere l'associazione, che ha messo in rete il filmato, così come il sito di Radio Radicale. Davanti a una telecamera, nel pieno possesso delle proprie facoltà, Paolo Ravasin ha espresso la sua volontà: nel caso le sue condizioni peggiorassero da non consentirgli più di nutrirsi ha scelto di rifiutare l' “accanimento terapeutico”. «Nel momento in cui non fossi più in grado di mangiare o di bere attraverso la mia bocca - ha spiegato - oppongo il mio rifiuto ad ogni forma di alimentazione e di idratazione artificiali sostitutive della modalità naturale. Tale rifiuto è da ritenersi efficace anche nella circostanza in cui perdessi qualsivoglia capacità di esprime e ribadire la mia volontà».
Il quarantottenne, ricoverato una stanza della casa di soggiorno «Villa delle Magnolie» di Monastier, ha ripetuto in voce ciò che aveva già detto e reso pubblico in forma scritta mesi fa. Ha aggiunto di rifiutare terapie mediche volte a trattare la malattia e le sue complicazioni, accettando unicamente «i farmaci necessari ad alleviare i sintomi dolorosi derivanti, in particolar modo, dalla disidratazione». Rifiuta, inoltre, il ricovero in strutture ospedaliere. «Spero che il mio caso sia da stimolo alla politica - ha concluso Ravasin - affinché si legiferi al più presto sul tema della libertà di chiunque di accettare o meno le cure mediche e perché siano realizzate strutture adeguate a ospitare casi come il mio, i quali oggi possono ricorrere soltanto alle case di riposo per anziani». In Veneto i notai hanno cominciato a registrare i primi testamenti «di vita» al costo simbolico di un euro. Ed è la vicepresidente del Senato Emma Bonino, in un'intervento su Radio Radicale, ad accogliere l'invito commentando il caso di Eluana Englaro e ribadendo la necessità di arrivare presto a una legge sul testamento biologico. «Spero che tutto questo porti a un'accelerazione della discussione del progetto di legge almeno sul testamento biologico in un modo rigoroso Come sempre la bussola da tenere è la determinazione e la volontà dell'interessato, magari espresse in altri tempi, e pare invece che questo venga considerato un dettaglio marginale».
«Paolo Ravasin lotta per sé e per gli altri» ha dichiarato Marco Cappato, europarlamentare radicale e segretario dell'Associazione Luca Coscioni, aggiungendo che il testamento biologico di Ravasin rappresenta, come fu per Welby, «manifestamente la volontà di una persona di decidere per se stessa senza l'imposizione della volontà di un medico o di altri». Cappato si rivolge a coloro che «continuano il gioco sporco di mettere in contrasto quei malati che «vogliono vivere» e quei genitori che «non vogliono far vivere»». «È bene - spiega - che si sappia qualcosa in più di Paolo Ravasin. Nella casa di riposo di Ponte di Piave ha dovuto sopportare sofferenze, incredibili: la macchina che gli consentiva di respirare si è spenta 18 volte in due anni. E per questo ha lottato in prima persona per il diritto alle cure, insieme all'Associazione Luca Coscioni, ed ha ottenuto cosìil trasferimento in una sede più congrua alle sue cure. Proprio perchè ha fatto questa lotta, per se e per gli altri, per evitare di essere trattato come un oggetto in questi mesi, si rifiuta oggi di rischiare di essere trattato di nuovo come un oggetto nel caso in cui perdesse coscienza.

La sfida di Ravasin, che mette in Rete il testamento biologico

La sfida di Ravasin, che mette in Rete il testamento biologico

Il Riformista del 22 luglio 2008, pag. 4

di Alessandro Calvi

«Nel momento in cui non fossi più in grado di mangiare o di bere attraverso la mia bocca, oppongo il mio rifiuto ad ogni forma di alimentazione e di idratazione artificiale». E evidente lo sforzo con il quale viene pronunciata ogni singola parola. Lui si chiama Paolo Ravasin, è affetto dalla Sla. E ieri ha reso note le sue volontà pubblicando il testamento biologico sul web proprio mentre al Senato andava in scena la battaglia sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato per la vicenda di Eluana Englaro.



Per 20 anni ha lavorato come operaio in una fabbrica di mobili, Ravasin ha 48 anni, una moglie e due figli. Da giovane, racconta il fratello Alberto, «giocava a pallone. Era un buon giocatore, poteva sfondare». Poi, alla fine degli anni ‘90, la sclerosi laterale amiotrofica; una malattia degenerativa che progressivamente toglie la possibilità di controllare i proprio muscoli. Si finisce immobilizzati in un letto, incapaci di respirare autonomamente. Una condanna senza appello a una morte atroce. Anche perché le capacità intellettuali rimangono pressoché intatte. Di tutto ciò Ravasin era consapevole. «E deciso fino in fondo», dice il fratello, «eravamo d’accordo fin da quando è stato ricoverato». Poi fu convinto a farsi tracheotomizzare ma, riprende il racconto di Alberto, oggi «si vede consumare, ha capito che sta arrivando la fine. E quindi ha fatto una scelta». I figli, spiega Alberto, soprattutto il più grande, conoscono la situazione. La moglie, racconta però Raffaele Ferraro, segretario di Veneto Radicale, che la vicenda di Paolo Ravasin la segue da tempo, «non l’ho mai vista». Ieri Paolo la sua scelta l’ha voluta comunicare nel modo più diretto: davanti a una telecamera. Dunque, stop all’alimentazione artificiale. Ma anche rifiuto delle terapie e rifiuto del ricovero in strutture ospedaliere.



«Più le sue volontà sono conosciute, minore è il rischio che non siano rispettate», spiega Ferraro che racconta che Ravasin si era rivolto a diverse associazioni di malati e che soltanto la Luca Coscioni ha risposto. «Era marzo - racconta Ferraro - e Ravasin denunciava una condizione di vita precaria nella struttura in cui allora era ricoverato». Mancava ad esempio un supporto psicologico. Ravasin chiese subito di fare testamento biologico. Il primo passo fu invece di ottenere un miglioramento delle condizioni di vita anche per dimostrare quella che poteva essere la reale qualità della vita - superiore a quella che sinora aveva avuto. Soltanto dopo si è parlato di testamento biologico.



Fu visitato da Mina Welby, Maria Antonietta Coscioni e Marco Pannella. Ravasin - che è diventato segretario della cellula di Treviso dell’associazione Coscioni - si candidò anche alle comunali di Treviso, in una lista di ispirazione socialista e radicale. Una storia simile a quella di Welby, anche se la malattia che colpì Welby era diversa così come è diverso, al di là della battaglia per ottenere il riconoscimento di un diritto, l’obiettivo concreto: il distacco del respiratore nel secondo caso, il rifiuto delle terapie nel primo.



Insomma, si tratta nei fatti di un vero e proprio testamento biologico. Proprio ciò di cui si ricomincia ora a parlare, dopo che nella scorsa legislatura non si riuscì ad approvare nessuna legge. I; allora maggioranza di centrosinistra non aveva i numeri essendo divisa al proprio interno, non solo tra Ds e Margherita ma anche all’interno degli stessi Ds, tanto che l’opposizione si limitò quasi a lasciar fare tutto il lavoro alla stessa maggioranza. Ora, però, il centrodestra ha i numeri per approvare una legge a propria immagine e somiglianza. Il fatto che si sia sollevato contro la sentenza della Corte di Appello di Milano sul caso di Eluana Englaro, d’altra parte, non lascia molti dubbi sulla strategia del Pdl. Quanto al Pd, invece, Ignazio Marino,che nella scorsa legislatura era in prima fila per l’approvazione di una legge, spiega di aver presentato un ddl «che di fatto rappresenta una riflessione profonda fatta sugli 11 ddl presentati nella passata legislatura e sulle 49 audizioni che abbiamo avuto. Per questo - conclude - ho eliminato l’obbligatorietà del testamento biologico che diventa davvero una indicazione terapeutica: non una legge per staccare la spina ma per una libera scelta». Si vedrà se - e come - questa volta si arriverà o meno a una legge.

Ravasin come Welby: testamento biologico in video

Ravasin come Welby: testamento biologico in video

Il Sole 24 Ore del 22 luglio 2008, pag. 13

di L. Sq.

Il testamento biologico in un video. Paolo Ravasin, presidente onorario dell’associazione Luca Coscioni di Treviso, malato di sclerosi laterale amiotrofica ha scelto un filmato per esprimere il proprio dissenso all’accanimento terapeutico. «Nel momento in cui non fossi più in grado di mangiare o di bere, oppongo il mio rifiuto ad ogni forma di alimentazione e di idratazione artificiale» ha dichiarato Ravasin. Costretto a sottoscrivere tramite un video il proprio testamento biologico poiché una firma sarebbe stata materialmente impossibile a causa della sua infermità. Un messaggio, il suo, che riporta al caso di Piergiorgio Welby. E alla scelta di destinare ad un video, indirizzato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la richiesta dell’eutanasia dopo anni di immobilità per distrofia muscolare. E ora Paolo Ravasin rivendica lo stesso diritto di morire e il rifiuto all’accanimento terapeutico «da ritenersi efficace - ha aggiunto il malato anche nella circostanza in cui perdessi qualsivoglia capacità di esprimere e ribadire la mia volontà». A intervenire sulla questione è l’europarlamentare radicale Marco Cappato che ha anche denunciato le condizioni «al limite della decenza» in cui, tempo fa, era costretto Ravasin. «Nella casa di riposo dove abitava ha dovuto sopportare sofferenze incredibili: la macchina che gli consentiva di respirare si è spenta i8 volte in due anni». Cappato ha sottolineato come il video voglia essere un modo per «evitare di essere trattato come un oggetto nel caso in cui perdesse coscienza».

Paolo, un altro caso Welby: «No all’alimentazione artificiale»

Paolo, un altro caso Welby: «No all’alimentazione artificiale»

L'Unità del 22 luglio 2008, pag. 10

di Massimo Solani

«Nel momento in cui non fossi più in grado di mangiare o di bere attraverso la mia bocca oppongo il mio rifiuto ad ogni forma di alimentazione e di idratazione artificiale sostitutive della modalità naturale». E’ il testamento biologico che Paolo Ravasin, quarantottenne presidente della Cellula Luca Coscioni di Treviso con due figli di 19 e 10 anni, ha diffuso ieri in un video per "fissare" le sue volontà nel caso la Sclerosi Laterale Amiotrofica che ad anni lo ha inchiodato in un letto peggiorasse fino a fargli perdere i sensi e ridurlo in coma. Un nuovo caso Welby che in queste settimane di polemica drammatica sulla sorte di Eluana Englaro riaccende i riflettori sul tema della autodeterminazione dei malati terminali e del testamento biologico. «Tale rifiuto - prosegue Ravasin con un filo di voce respirando a fatica dopo la tracheotomia a cui è stato sottoposto nel 2005 - è da ritenersi efficace anche nella circostanza in cui perdessi qualsivoglia capacità di esprimere e ribadire la mia volontà. Inoltre, a partire dal momento in cui non fossi più in grado di nutrirmi e idratarmi attraverso la mia bocca rifiuto la somministrazione di qualsiasi terapia medica destinata a trattare la malattia di cui sono affetto e altre patologie sopravvenienti intese come complicazioni». Ravasin scandisce le parole con fatica, ma il senso di quelle frasi è un drammatico appello per vedersi riconosciuto il diritto di scegliere una morte dignitosa, più di quanto non possa essere la vita di un malato abbandonato dalle strutture pubbliche. «Accetto unicamente - prosegue nel video il presidente della cellula Luca Coscioni di Treviso - i farmaci necessari a trattare i sintomi dolorosi derivanti, in particolar modo, dalla disidratazione nella modalità di somministrazione che il mio medico riterrà appropriata. Affermo di essere stato informato e quindi sono pienamente consapevole delle conseguenze a cui mi espongo mediante tale rifiuto che tuttavia considero quale mia insuperabile manifestazione di volontà. Oppongo il mio rifiuto ad ogni trasferimento in strutture ospedaliere».



Esce oggi «Bavaglio», il nuovo libro di Peter Gomez, Marco Lillo e Marco Travaglio, con introduzione di Pino Corrias (Chiarelettere, pagg. 240, 12 giuro). Sottotitolo: «Bloccare i processi, cancellare l’informazione, difendersi con l’impunità. Ecco perché Berlusconi sta preparando il bavaglio». Alla vigilia dell’approvazione del Lodo Alfano, che regala l’impunità al premier e alle altre tre cariche dello Stato, anticipiamo brani del capitolo che racconta quel che accade all’estero in materia di immunità. La spericolata bugia che ritorna uguale a se stessa come nel 2003, è che «nelle altre democrazie», o in «molte» di esse, sia già prevista l’immunità per le alte cariche o almeno per il premier. La realtà è opposta: «In nessun Paese d’Europa - come ha ricordato Leopoldo Elia, già presidente della Corte costituzionale, l’Unità il 7 giugno 2003 esiste nulla di simile. La Legge Berlusconi è un unicum nel mondo democratico. La sospensione dei processi per fatti estranei all’esercizio dei poteri della carica vale solo per tre capi di Stato: Grecia, Portogallo e Israele. Il presidente del Consiglio, invece, non ha alcuna protezione particolare da nessuna parte». In tutti i Paesi europei i parlamentari non sono perseguibili per opinioni e dichiarazioni espresse all’interno del Parlamento. L’immunità per le frasi calunniose e diffamatorie pronunciate extra moenia è invece una Una storia già nota quella di Paolo Ravasin. La cui vita, già segnata dal male terribile da cui è affetto dal 1998, è cambiata da quando, nel 2007, Maria Antonietta Coscioni è entrata nella stanza della struttura comunale di Ponte di Piave, in provincia di Treviso, dove Ravasin era costretto da quasi due anni. Una degenza resa intollerabile dalle condizioni della clinica gestita da una cooperativa sociale. «Il personale cambiava di continuo, e quasi nessuno aveva la preparazione e la qualifica adatta per prestarmi assistenza - raccontava nel novembre 2007 in una intervista concessa a Radio radicale, che ne aveva seguito le terribili vicende - La corrente saltava continuamente e la macchina che mi ossigena si spegneva: è successo per 18 volte in due anni e ogni volta erano minuti lunghissimi di agonia in apnea, mentre cercavo di spiegare alle infermiere come riattivarla. Una volta - spiegava - una di loro si rifiutò persino di intervenire dicendomi che non era compito suo. Nemmeno ad un animale potrei augurare una simile sofferenza». Ma Ravasin non si arrende, protesta e chiede attenzione. Gliela concedono i Radicali e l’associazione Luca Coscioni. Fino all’incontro con Maria Antonietta, la vedova di Luca.



«Nella casa di riposo di Ponte di Piave Paolo ha dovuto sopportare sofferenze, incredibili - spiega oggi Marco Cappato, europarlamentare Radicale e segretario dell’Associazione Luca Coscioni - e per questo ha lottato in prima persona per il diritto alle cure, insieme all’Associazione, ed ha ottenuto così il trasferimento in una sede più congrua alle sue cure. Proprio perché ha fatto questa lotta, per se e per gli altri, per evitare di essere trattato come un oggetto in questi mesi, si rifiuta oggi di rischiare di essere trattato di nuovo come un oggetto nel caso in cui perdesse coscienza. La sua testimonianza - ha concluso Cappato - dimostra anche come siano senza senso le disquisizioni sul fatto se l’idratazione e l’alimentazione artificiali siano o no delle terapie. Per Ravasin quello che conta che non si trasformino in una violenza».

Paolo Ravasin, 48 anni «lasciatemi morire»

Paolo Ravasin, 48 anni «lasciatemi morire»

Liberazione del 22 luglio 2008, pag. 4

di Maurizio Mequio
«La mia ferma, convinta e documentata volontà è la seguente: nel momento in cui non fossi più in grado di mangiare o di bere attraverso la mia bocca, oppongo il mio rifiuto ad ogni forma di alimentazione e di idratazione artificiale sostitutive della modalità naturale. Tale rifiuto è da ritenersi efficace anche nella circostanza in cui perdessi qualsivoglia capacità di esprimere e ribadire la mia volontà. Inoltre, a partire dal momento in cui non fossi più in grado di nutrirmi e idratarmi attraverso la mia bocca, rifiuto la somministrazione di qualsiasi terapia medica destinata a trattare la malattia da cui sono affetto e, oltre altre patologie sopravvenienti intese come complicazioni. Accetto unicamente i farmaci necessari a trattare i sintomi dolorosi derivanti, in particolar modo dalla disidratazione nella modalità di somministrazione che il mio medico - Guido Zerbinati o i suoi sostituti - riterrà appropriata». Questa la coraggiosa risposta di Paolo Ravasin alla sua malattia, la sclerosi laterale amiotrofica, e a tutti coloro sentissero il bisogno di non rispettarlo. Dal letto della casa di cura di Monastier, dove da tempo è immobilizzato, il quarantottenne veneziano ha affidato il suo testamento biologico all'Associazione Luca Coscioni. Un videomessaggio che da ieri è su internet, accessibile per tutti. Occhi lucidi, deciso, in pieno possesso delle facoltà mentali, dice di essere «stato informato dai medici curanti dell'evoluzione della sua malattia e dei trattamenti conseguenti». Rifiuta il ricovero in strutture ospedaliere e segna il suo confine tra la vita e la morte. Traduce la sua sofferenza in un esempio. «Spero - ha detto ai cronisti - che il mio caso sia da stimolo alla politica affinché si legiferi sul tema della libertà di chiunque di accettare o meno le cure mediche, e perché siano realizzate strutture adeguate ad ospitare casi come il mio, che oggi possono ricorrere solo alle case di riposo per anziani».
Di persone che rischiano di entrare in uno stato di apparente equilibrio, tra il sonno incosciente e la morte, in Italia ce ne sono circa 5mila, ma nessuna legge in materia tutela la loro volontà. Anche se la Costituzione afferma che «nessuno» può «essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina di Oviedo - ratificata dall'Italia con la Legge 145 del 2001 - stabilisce che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento non è in grado di esprimere la propria volontà, saranno tenuti in considerazione», ancora non sono stati messi in atto provvedimenti che traducano il dettato della Costituzione in un testo di legge applicabile.
La sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Eluana Englaro - resa attuativa da un decreto della Corte d'Appello secondo il quale il padre potrà sospendere ogni trattamento e favorire così la morte della figlia - ha monopolizzato le giornate estive di Parlamento e Chiesa cattolica, rischiando di soffocare la dignità dei malati con il proliferare di violente prese di posizione e con minacce di interventi burocratico-istituzionali. Ieri, ad esempio, il presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini (Pdl), è arrivato ad affermare che la Cassazione avrebbe invaso il potere delle Camere. «Il potere giudiziario - ha dichiarato Vizzini - sembra essersi sostituito materialmente al potere legislativo, al quale solo spetta la funzione di produzione delle norme». La senatrice Laura Bianconi ha contestato ai giudici «di voler permettere che una ragazza in uno stato vegetativo permanente venga fatta morire perché privata della forma minima di sostentamento, quello appunto fornito tramite l'alimentazione e l'idratazione». Domenica scorsa, durante la messa, i parroci romani hanno invitato i fedeli a «invocare il Signore perché illumini le coscienze sul valore intangibile di ogni vita umana», Il quotidiano Avvenire si è appellato a "Le ragioni del cuore" e le suore Misericordine hanno chiesto che la ragazza sia lasciata a loro. Voci che aumentano le sofferenze dei malati e dei familiari e confondono ancora di più la posizione dell'opinione pubblica italiana sull'argomento. Significativo è invece il successo che iniziative come quella di Paolo Ravasin stanno ottenendo in questi giorni. In Veneto, ad esempio, dal 18 luglio alcuni notai stanno registrando testamenti biologici al costo simbolico di un euro. Vogliono far valere - almeno loro - le volontà di questi cittadini.

lunedì 21 luglio 2008

Lettere / Per tutte le Eluane di questo Paese

Lettere / Per tutte le Eluane di questo Paese

La Stampa del 21 luglio 2008, pag. 28

di Maria Antonietta Farina Coscioni
Con la sua bella lettera Marina Garaventa ha trovato le giuste parole e ha inquadrato i termini della questione a cui noi, presenti nelle istituzioni, dobbiamo trovare il modo di rispondere. C’è chi sostiene che la Corte di Cassazione prima, la Corte d’Appello di Milano poi, abbiano fatto «un’invasione di campo». Al contrario penso che abbiano consentito a noi tutti di conoscere la volontà di Eluana: volontà che dev’essere difesa. «Lasciate decidere a noi malati», dice in sostanza Marina.
È con questo spirito che ho presentato una mozione a sostegno delle tante Eluane di questo paese (almeno 2500 casi). La mozione si richiama all’art. 32 della Costituzione, all’art. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e all’art. 9 della Convenzione di Oviedo, e impegna il governo a adottare in tempi brevi misure volte al riconoscimento legale dello strumento della dichiarazione anticipata di volontà in ambito sanitario (il testamento biologico), anche con la nomina di un rappresentante fiduciario in caso di incapacità, a tutela della volontà della persona. Contestualmente impegna il governo ad attivarsi affinché la sanità pubblica non frapponga ostacoli al rispetto della volontà di Eluana come indicato nella sentenza di Milano.

NOTE

deputata radicale co-presidente dell’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica

Una legge per rispettare la volontà di tante Eluana

Una legge per rispettare la volontà di tante Eluana

Il Secolo XIX del 21 luglio 2008, pag. 17

di Maria Antonietta Farina Coscioni

Alle provocazioni dell’onorevole Luca Volontè, peraltro ripetitive e monotone, non mette conto rispondere. Riassumere le sentenze della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Milano in "affidano un precedente al giudice ordinario: fai quello che ritieni più giusto indipendentemente dalla legge in vigore", è una rozza semplificazione; e dire che siamo «allo scempio della funzione del magistrato da parte dei rasta» è semplicemente un insulto che qualifica chi lo dà, non chi lo riceve. Stesso discorso si può fare quando Volontè si abbandona ad affermazioni del tipo: «...l’Associazione Coscioni e i radicali sono certi dell’incerto e festeggiano per la morte di stato, l’omicidio autorizzato della giustizia italiana. Nell’incertezza, scelgono la morte e non la vita».



Non ho alcuna intenzione di dare la benché minima soddisfazione all’onorevole Volonté e ai suoi toni da rissa. È un piano di discussione (si fa per dire) che non mi interessa. Mi interessa, al contrario, cercare di fissare alcuni punti che, mi sembra, siano elusi dal pur importante e ricco dibattito e confronto che la sentenza milanese ha provocato.



Molti ritengono che i magistrati milanesi con la loro sentenza abbiano effettuato una sorta di "invasione di campo". Al contrario sono convinta che ci abbiano consentito di conoscere la volontà di Eluana, una volontà che va difesa e tutelata: perché troppi sono gli anatemi che in queste ore vengono scagliati contro la "persona" e proprio da chi si erge a difesa della "vita". È questo il senso di una mozione alla Camera dei deputati di cui sono prima firmataria: perché Eluana è il paradigma di tante altre persone che, come lei, sono vittime di decisioni imposte e non volute; e penso che non sia accettabile alcuna discriminazione per effetto della attuale incapacità a pronunciarsi e del mancato riconoscimento di volontà precedentemente espresso sulla base di prove.



La mozione, in sostanza, intende impegnare il governo a fare in modo che siano adottate in tempi brevi misure volte al riconoscimento legale dello strumento della dichiarazione anticipata di volontà in ambito sanitario (il cosiddetto "testamento biologico") con la nomina di un rappresentante fiduciario, in caso di incapacità, a tutela volontà e della libertà di scelta della persona. Inoltre si chiede di attivarsi perché la sanità pubblica non frapponga ostacoli al rispetto della volontà di Eluana, come indicato nella sentenza della Corte di Appello di Milano.



Ho inoltre depositato un progetto di legge in materia di "consenso informato e dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari". La scelta di chi non vuole pronunciarsi sulla propria morte, e si affida a quello che sarà va certo tutelata e rispettata; ma va rispettata anche la volontà di chi, invece, non accetta di dover continuare a vivere in situazioni di coma vegetativo. Penso che si debba consentire la possibilità di scegliere tra le due opzioni: non è un obbligo, è una facoltà.



Si tratta di questioni urgenti e importanti, certo dolorose e laceranti, da trattare con rispetto e senza strumentalizzazioni; di interesse collettivo, più diffuse e frequenti di quanto si possa immaginare: fin dal 2005 una commissione istituita dal ministero della Salute ha reso noti i risultati di un’indagine dalla quale emergeva che "nel nostro paese erano circa 2000-2500 i pazienti che, come nel caso di Eluana, si trovano in una condizione di coma vegetativo.



In questi giorni, in queste ore, la famiglia Englaro sta dando a tutti noi una grande lezione di dignità e compostezza; una lezione che dura dal 1992, da quando Eluana è rimasta vittima dell’incidente che l’ha resa nelle condizioni in cui si trova: «Non voglio entrare in polemica con la Chiesa che è libera di esprimere le proprie convinzioni», ha detto papà Beppino. «Dopodiché, staccando il sondino a Eluana si permette alla natura di riprendere il suo corso, rispettando il diritto alla morte. Un diritto interrotto quando dopo l’incidente furono adottati i protocolli di rianimazione che l’hanno portata in questo stato di come vegetativo».



Quel corso di natura che invocò - e non venne ostacolato - Giovanni Paolo II quando chiese di lasciarlo libero di raggiungere il Padre.

NOTE

Maria Antonietta Farina Coscioni è deputata radicale e copresidente dell’Associazione Luca Coscioni perla libertà di ricerca scientifica.

Il diritto di morire nel nostro Medioevo

La Repubblica 21.7.08
Il diritto di morire nel nostro Medioevo
di Adriano Prosperi

Una antica rissa cristiana sembra essersi riaccesa in Italia intorno al più cupo dei diritti, quello di morire: suore uscite per un attimo dall´ombra di una vita di carità, prelati e dotti teologi offrono gli argomenti della religione a un movimento assai composito di gente comune e di affannati politicanti. Ed è un dolce nome di donna quello a cui tocca ancora una volta il compito di portare il simbolo dell´offesa e della violenza patita. Ma la schiuma della cronaca talvolta nasconde piuttosto che rivelare le correnti profonde. Per questo non faremo quel nome. Per una volta almeno non sarà pronunziato il nome di donna a cui tocca oggi – in attesa di altri candidati che non mancheranno – il compito di rappresentare nella piazza mediatica il dramma della nostra impotenza davanti alle crudeltà della natura e di offrire il suo volto indifeso alle bandiere di un "partito" contro un altro – un sedicente partito della vita in lotta contro un improbabile partito della morte. Tacerlo è la sola cosa che resta da fare, non solo per pudore e per pietà, ma anche perché tutto il necessario è stato detto e tutte le risorse e i saperi delle istituzioni sono stati messi a frutto.
Qui si tratta piuttosto di capire la sostanza dei problemi che agitano la società e che muovono ciascuno di noi a partecipare intensamente, coi sentimenti e con le idee, alla tempesta che ogni volta si scatena intorno a questi casi. Ogni volta questa speciale forma di morte chiama in gioco la medicina e il diritto, la religione e la politica. È la moderna danza macabra di un nuovo Medioevo, ossessionato come l´antico dalla paura di un nemico terribile: che non è più la morte improvvisa e senza sacramenti della peste, ma è la minaccia congiunta di una vita che non è vita e di una morte debole, inavvertita e sfuggente.
Le ragioni del diritto le ha esposte ieri con la solita inappuntabile precisione Stefano Rodotà. Ma è la medicina che viene prima di tutto. A lei, in una celebre intervista del 1957, un lungimirante Pio XII lasciò il compito e la responsabilità di individuare il segno del confine tra la vita e la morte. E ben prima di allora i medici hanno cercato di fare propria l´antica certezza di Re Lear: «Io so ben riconoscere quando uno è morto e quando vive». Ci sono riusciti? non sembra. Oggi negli Stati Uniti d´America può accadere che una persona - la stessa persona - sia ritenuta legalmente morta in California e ancora in vita nel Missouri. Il caso (reale) è raccontato dal professor Carlo Alberto Defanti, nella prima pagina di un libro che sembra scritto apposta per guidare con l´aiuto della scienza medica i lettori dei nostri tempi, in sosta angosciati davanti al passaggio estremo: Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.270).
Quali le soglie su cui si è attestato nel nostro provvisorio presente il limite estremo della vita umana? sono ancora quelle antiche, in contrasto da secoli: il battito del cuore, la scintilla del cervello. La medicina si è impadronita della questione quando, col ritorno alla pratica anatomica alla fine del Medioevo, la foresta degli organi è cominciata ad emergere dietro l´unità della pianta umana. E fin da allora la pratica medica concepì quella fame di corpi che non doveva più lasciarla: la "fabbrica del corpo umano" (il titolo fu di Andrea Vesalio) doveva essere chiamata nel ‘900 - dopo la celebre operazione di Christian Barnard - a fornire tanti pezzi di ricambio. Questo non è un dettaglio ma un punto nodale dei problemi attuali. L´offerta di corpi umani, possibilmente ancora palpitanti di una vita residua, ha alimentato i progressi della medicina.
Ma per ottenerli è stata necessaria una alleanza coi poteri della religione e dello Stato: fin dagli inizi. Come si racconta in un libro collettivo, uscito contemporaneamente a quello di Defanti (Misericordie, Confessioni sotto il patibolo, Edizioni della Normale 2007) si ricorse per secoli alle forniture dei patiboli e alle membra più "vili", quelle dei condannati a morte. E ci volle uno speciale investimento di pratiche e di rituali per saldare il necessario circuito tra potere e religione, tra erogazione della morte e promessa di vita - quella dell´aldilà ai condannati e quella di questo mondo agli ammirati spettatori delle meravigliose operazioni della scienza medica. Da allora in poi quel circuito doveva ripresentarsi costantemente, sia pure sotto altre forme.
Le tappe successive della storia scientifica della questione ci portano ancora alla diarchia cuore-cervello. Il "miracolo" della rianimazione (dall´inglese "resuscitation") aprì la strada alle moderne cure intensive con le tecniche per far ripartire un cuore arrestato e ventilare chi non era in grado di respirare autonomamente (il polmone d´acciaio è del 1927). Ma quando si scoprì nel 1959 che in determinati stati di coma l´elettroencefalogramma non rilevava più onde elettriche cerebrali, si pose il problema se valesse la pena proseguire l´assistenza ventilatoria. Dalla scoperta del coma irreversibile derivò la proposta del comitato della Harvard Medical School di considerare questo stato come "sindrome della morte cerebrale" e di fissarlo come nuovo criterio di morte. La data del documento (1968) segna una svolta storica importante, come mostra Defanti che ne analizza il contesto e le ragioni, scientifiche ed economiche, e segnala la cautela con cui fu cercato l´avallo delle autorità religiose. È su questa base che fu definita la procedura per ottenere organi utilizzabili per trapianti, pezzi per l´officina delle riparazioni chirurgiche. Ma, come sanno o dovrebbero sapere tutti coloro che hanno nel portafoglio l´autorizzazione all´espianto dei propri organi, quel criterio fu scelto per ragioni pratiche da chi sapeva quanto fosse difficile fissare l´attimo decisivo su di un orologio della morte che è capace di misurare solo un processo graduale e differenziato. Così anche il documento di Harvard non segnò la fine della questione. Da un lato la diffusione clamorosa con Barnard del trapianto di cuore spinse potentemente in direzione dell´eutanasia attiva e dell´espianto di cuori funzionanti; dall´altro l´esplorazione del cervello ha dissolto l´unità di questo organo in entità diverse, ognuna con una vita e una morte propria.
Se lasciamo l´ancoraggio delle ricerche mediche, ci si apre davanti l´universo dei sentimenti: specialmente di quella paura della morte di sé che in ciascuno si scatena davanti alla morte degli altri. E qui la realtà del nostro tempo rivela la sua irrecuperabile lontananza dall´antica religione che oggi lotta con tutte le sue forze contro i suoi nemici di sempre. Eutanasia, questa è la parola: parola ambigua, odiata e ripudiata quando si presenta con l´orrendo volto nazista della soppressione forzata di un´umanità difettiva, ma che cela nel suo benevolo suono la voce di una sirena antica: il desiderio e l´augurio - per sé e per i propri cari - di una morte rapida e totale, senza sofferenze; ma anche la convinzione ormai acquisita che disporre della sorte del proprio corpo rientra fra i diritti dell´individuo. Qui si incontrano i bisogni profondi del nostro tempo. E si capisce perché ci colpisce tanto la storia di quella dolce figura femminile, che appare oggi ancora viva almeno nella cronaca lacerata del paese: è la nostra storia, una possibile, sempre più probabile storia della fine che aspetta ciascuno di noi. Qui si misura l´arretramento drammatico del senso cristiano della morte, di quella morte gioiosa del credente che dettò a Martin Lutero uno dei suoi scritti più belli e che doveva animare la fede dei martiri della Riforma mentre salivano lietamente sui patiboli dell´Inquisizione. Oggi solo la deliberata ambiguità della scelta di una parola, la vita - termine che i credenti possono intendere nel senso di vita dell´aldilà e tutti gli altri sono liberi di applicare alla vita che abbiamo qui - sostiene le incongrue alleanze costruite per battere le leggi sull´aborto e le proposte di testamento biologico.
Il filo che ci porta al presente cominciò quando nella cultura europea del ‘700 razionalista prese corpo il rischio della morte apparente. Come ha raccontato anni fa Claudio Milanesi furono allora elaborate norme precise tuttora valide per scongiurare il pericolo della sepoltura di persone in stato di catalessi; e tutti conoscono in che modo la fantasia romantica di Edgar Allan Poe desse poi corpo a quei fantasmi dei morti viventi che abitano oggi negli incubi del nostro presente e ci vengono incontro nelle corsie delle cliniche.
Dunque, una conclusione si impone. La storia ci ha condotti a questo punto, per molte e complicate vie che fanno parte incancellabile della realtà di un paese moderno. Pertanto non ci sono alternative alla messa in opera delle regole faticosamente elaborate per conciliare il diritto individuale a disporre del proprio corpo con l´obbligo istituzionale a fornire tutte le cure necessarie alla persona malata: obbligo che non si deve tuttavia spingere alla "tortura inutile" di cui scriveva Paolo VI nella lettera del 1970 citata da Rodotà. E se le attuali gerarchie cattoliche farebbero bene a meditare quelle parole, spetta invece allo Stato italiano affrontare sia il gravissimo problema delle carenze delle strutture sanitarie che oggi obbligano le famiglie a sostenere il peso anche morale di situazioni dolorosissime, sia introdurre finalmente una regolamentazione adeguata del testamento biologico. Nell´immediato, spetta a noi tutti fare un passo indietro, recedere dal clamore indecente che oggi assedia chi ha diritto al rispetto e al silenzio.

domenica 20 luglio 2008

LA 'FUGA'DALL'OPUS DEI

LA 'FUGA'DALL'OPUS DEI

Roma, 19 lug. - (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - Scappare dall'Opus Dei. Liberarsi da un'organizzazione oppressiva, capace soltanto di imporre la sua legge ferrea e inderogabile. Tornare ad essere consapevoli delle proprie azioni e dei propri pensieri. Ecco cio' che ha fatto, a costo di tanti sacrifici, l'insegnante elementare francese Ve'ronique Duborgel che racconta la sua esperienza nel libro ''In fuga dall'Opus Dei'', pubblicato dalla Piemme.

Ve'ronique e' una donna come tante altre. Nel 1982, quando comincia la sua tragica avventura, ha appena venti anni. Le sue passioni sono simili a quelle dei giovani della sua eta'. Le piace andare al cinema e trascorre il suo tempo libero facendo acquisti insieme alle sue amiche. La sua vita, pero', cambia non appena si invaghisce di un insegnante di alcuni anni piu' grande. E' un membro dell'Opus Dei ma Ve'ronique non ne e' al corrente. La loro relazione si fa sempre piu' intensa tanto che i due decidono di sposarsi. Ve'ronique entra subito in contatto con l'Opus Dei, un mondo ostile di cui ignora quasi tutto.

''Negli anni della spensieratezza - spiega infatti - ero molto lontana dalle idee e dalle pratiche di quell'organizzazione dalla fama oscura. All'epoca del mio incontro con l'Opus Dei avevo solo 19 anni ed ero fidanzata''. Ve'ronique viene schiacciata dalle regole inflessibili che i membri dell'Opus Dei devono applicare senza discutere. Le viene chiesto di assumere un atteggiamento rispettoso segnato dalle rinunce e dalle penitenze. Spesso le viene ordinato di non leggere libri 'proibiti'. I suoi comportamenti vengono 'corretti' con fermezza. La sua adesione all'Opus Dei, determinata dal matrimonio, ha portato con se' obblighi estenuanti, plagi costanti ed intimidazioni sottili e terribili. Per tredici anni ha dovuto subire limitazioni di ogni genere. Il marito, preoccupato molto di piu' dal suo lavoro nell'Opera anziche' dai suoi impegni familiari, non le e' mai stato vicino. I suoi maltrattamenti, i suoi insulti e le sue botte hanno costellato la vita di Ve'ronique. Di piu': il senso di colpa e l'annientamento psicologico hanno condizionato il suo destino umiliando la sua identita' femminile. Dopo 13 anni, pero', Ve'ronique ha avuto la forza di ribellarsi e di abbandonare il marito. Ha lasciato, finalmente, l'Opus Dei tornando ad essere libera.

«Le scuse non bastano, vogliamo i fatti. Una cosa è quello che dice il Papa, un'altra è ciò che fa»

Il Giornale, domenica 20 luglio 2008, 07:00
«Non ci bastano le scuse, vogliamo i fatti»
Sydney. «Le scuse non bastano, vogliamo i fatti. Una cosa è quello che dice il Papa, un'altra è ciò che fa». Parole forti quelle di Chris Mac Isaac, presidente dell'associazione vittime di preti pedofili Broken Rites Australia, che ieri mattina, a Taylor square a Sydney, ha partecipato alla manifestazione pacifica promossa dalla NoToPope Coalition, contro la visita di Benedetto XVI, contro la morale della Chiesa, e come segno di protesta ai casi di abusi sessuali commessi da religiosi. Abbiamo chiesto diverse volte di incontrare il Papa - ha spiegato la donna, che racconta di essere stata anch'essa oggetto di abusi, anche se preferisce non parlarne - e questa mattina siamo stati anche davanti alla Cattedrale di St. Mary per avanzare ancora una volta la richiesta. Dal Vaticano non è arrivata nessuna risposta», riferisce. «Non accettiamo le scuse del Papa. Non ci bastano - insiste Chris -, abbiamo centinaia di vittime che chiedono giustizia: "Sorry" non è abbastanza».

PEDOFILIA/ PRETE ARRESTATO, RAGAZZO: PORTAI LETTERA A... -2-

PEDOFILIA/ PRETE ARRESTATO, RAGAZZO: PORTAI LETTERA A... -2-
"Don Ruggero era persona affabile e carismatica"

Roma, 19 lug. (Apcom) - "Io tuttora credo, credo a Gesù Cristo e tutto quanto, però dei preti non ne voglio sapere niente. Questo pareva buono. Questo pareva il top! E allora se questo è così, pensa gli altri". E' un racconto drammatico quello offerto da un un altro dei giovani che sarebbe stato oggetto delle attenzioni di don Ruggero Conti, 55 anni, già parroco della chiesa della Natività di Maria Santissima.

Stando a quanto accertato dagli investigatori sarebbero sette al momento gli episodi di abuso ai danni di minori che frequentavano la parrocchia della Natività, mentre altri due risulterebbero avvenuti nei confronti di ragazzi della chiesa Beata Vergine Immacolata, nella zona della Giustiniana, dove Conti era stato in precedenza. Ma in seguito agli ultimi accertamenti starebbero emergendo ulteriori casi, alcuni dei quali avvenuti più di dieci anni fa e non a Roma.

Il sentimento di malcontento nei confronti della chiesa è comune tra la maggior parte dei ragazzi che avrebbero subito gli abusi: "Quello che è successo m'ha staccato radicalmente dalla chiesa", afferma anche un altro. "Io ho perso totalmente fiducia nel corpo clericale e ho deciso di parlare con Dio da me stesso", racconta un terzo giovane". E più avanti aggiunge: "Ed inoltre - dice rivolgendosi al pm - se lei è cristiano sa che non frequentare la messa settimanale è una sofferenza unica. Immagini io a stare dieci senza la comunione, senza stare in pace con me stesso, senza una confessione di niente".

Il giudizio di don Ruggero, offerto da un altro giovane, è chiaro. Per qualcuno è "Un tipo molto carismatico e sensibile, uno di cui fidarsi". Per un altro il sacerdote "era con tutti quanti una persona affabile, si ricordava subito i nomi di tutti quanti". Ma anche una persona che "ti metteva subito a tuo agio, come se fosse una persona che conoscevi da tanto tempo".

Nonostante il sacerdote avesse questo carattere, i ragazzi raccontano che prestava loro particolari 'attenzioni'. Ciò sarebbe avvenuto al termine della visione di film nella casa del sacerdote o durante i campi estivi: mentre i ragazzi dormivano nelle camerate con letti a castello, don Ruggero, incurante della presenza degli altri e aiutato dal buio, avrebbe toccato e accarezzato alcuni piccoli ospiti, ad alcuni quali faceva anche diversi regali. In alcuni casi anche il rito della confessione non avrebbe seguito la prassi prevista: "La prima domanda della confessione, dove poi si svolgeva tutta la predica, era 'ti masturbi?', riferisce un ragazzo.

Un altro spiega che il sacerdote l'avrebbe attirato nella sua dimora, all'interno della canonica, dietro la promessa di soldi, cd, dvd, capi d'abbigliamento. Poi, però la scelta, di raccontare la loro verità su quanto accaduto negli anni passati: "Se fossi stato solo io colpito da questa persona, da buon cristiano avrei anche perdonato - racconta - ma visto che non sono solo io, lo faccio per tutti i bambini che stanno lì o si avvicineranno a stare lì con lui. Se vuole sapere il motivo per cui io sto qua, è perché io voglio la vera giustizia: quella divina. Lo so che lei purtroppo i miracoli non ne fa, però - dice il ragazzo rivolgendosi al pm Scavo - Non lo so, cercate, provate; i miracoli non stanno lì, stanno qua, da quanto mi è stato insegnato, perché lì c'è la giustizia, ma qua ci stanno i miracoli, e li fanno le persone".

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PEDOFILIA/ PRETE ARRESTATO, RAGAZZO: PORTAI LETTERA A VESCOVO ROMA

PEDOFILIA/ PRETE ARRESTATO, RAGAZZO: PORTAI LETTERA A VESCOVO ROMA
Un'altro ragazzo: anni fa anche murales denunciarono abusi

Roma, 19 lug. (Apcom) - "La mia ragazza mi fece fare una lettera: portala al vescovo, mi disse, in modo che poi ci pensano loro; l'ho fatto, ma non accadde nulla". Così spiega uno dei ragazzi che sarebbe stato oggetto delle attenzioni morbose di don Ruggero Conti, il sacerdote arrestato per l'accusa di violenza sessuale, e per cui il riesame, oggi, ha confermato la detenzione in carcere.

Il ragazzo, sentito nelle scorse settimane dal pm Francesco Scavo, riferisce di aver scritto la lettera un anno fa, d'estate, al rientro dalle vacanze, e di averla consegnata direttamente all'alto prelato. Sulla cui identità, però, non è sicuro. "Ho preso il motorino e gliel'ho portata. La prima volta c'era il segretario, diciamo, e non mi fidavo a dargliela in mano la lettera, e ci sono ritornato. Gli ho detto 'Mi fissi un appuntamento quando ci posso andare di persona, a quattr'occhi, e gliela do in mano. Quando lui mi ha ricevuto l'ha letta. Mi ha detto che quelle sono accuse pesanti. 'Sei sicuro veramente di quello che è scritto qui nella lettera?' ha chiesto. Gli ho detto sono sicuro sì". Il sacerdote ha risposto, secondo la ricostruzione offerta dal giovane, 'Va bene, poi ti faremo sapere noi".

Dopo un paio di mesi, il ragazzo sarebbe stato richiamato. "C'era il segretario e mi ha detto 'Qui la situazione è diventata pesante, dobbiamo procedere con le autorità'". Dopo un po' di tempo però il giovane è deluso, visto che non vengono presi provvedimenti. Un altro ragazzo poi riferisce che di pedofilia legata alla parrocchia della Natività si era già parlato in passato: "Un po' come eco. Praticamente su alcuni muri della nostra parrocchia, chissà perché è apparsa la scritta 'pedofilo', circa tre o quattro anni fa. Alcuni murales. Poi sono spariti magicamente, nel senso che una settimana dopo che c'erano queste scritte, non c'erano più. Voci di una presunta pedofilia, che anche un altro ragazzo racconta 'giravanoì: sapevamo - ha raccontato a chi indaga - che c'erano state tipo delle cose quando lui stava alla Giustiniana (alla parrocchia della Beata Vergine Immacolata, ndr) però erano tutte voci".

(Segue)
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Cosa Nostra e il controverso legame tra uomini d'onore e Chiesa

Corriere della Sera 20.7.08
Il saggio di Alessandra Dino
Quando la mafia è troppo devota
Cosa Nostra e il controverso legame tra uomini d'onore e Chiesa
di Vittorio Grevi

A 15 anni dall'assassinio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio a Palermo, di fronte ad una Chiesa siciliana ancora divisa nella valutazione della figura del sacerdote ucciso dai sicari, per il suo impegno contro i soprusi delle cosche, la sociologa Alessandra Dino torna ad occuparsi di un tema cruciale sul terreno della criminalità organizzata siciliana, analizzando i rapporti tra «Chiesa, religione e Cosa nostra ». Ne è scaturito un volume di taglio insolito, e pressoché unico nella pubblicistica corrente ( La mafia devota, Laterza, pp. 304, e 16), che non solo affronta alcuni interrogativi suscitati anche da recenti fatti di cronaca (esiste un Dio dei mafiosi? qual è il rapporto tra gli uomini d'onore e la religione?), ma si pone altresì il problema più generale dell'atteggiamento della Chiesa siciliana rispetto al fenomeno mafioso.
Circa il primo versante, il volume si sofferma sulle forme di devozione, non sempre propriamente evangelica, diffuse presso molti esponenti della mafia, dai capi alle manovalanze. Ne emerge che sovente l'immagine di Dio coltivata dai primi è diversa da quella dei secondi, distinguendosi per un maggior grado di strumentalità rispetto ai fini del sodalizio criminoso: insomma, un Dio «conveniente», funzionale agli obiettivi delle classi dirigenti affiliate alla mafia. Ma le manifestazioni di religiosità sono per molti aspetti analoghe. Sia quelle private (dai santini di Bernardo Provenzano agli altari domestici di Pietro Aglieri, fino all'uso frequente della Bibbia, e non soltanto per letture edificanti), sia quelle pubbliche, di solito caratterizzate da una forte ricerca della ritualità esterna, ricca di significati simbolici (tipico il caso delle feste e delle processioni, ad esempio quelle in onore di San Gaetano a Palermo o di Sant'Agata a Catania, non di rado promosse o controllate da potenti famiglie mafiose del luogo). E questo senza dire del linguaggio impiegato nell'universo mafioso, grondante di frequenti invocazioni al nome di Dio, talora evocato anche nel momento dei più brutali omicidi, quasi a giustificarli all'insegna di una morale superiore.
Quanto alla linea pastorale seguita dalla Chiesa siciliana nei rapporti con la «questione mafia», l'analisi contenuta nel volume si avvantaggia dei risultati di una apposita indagine svolta dall'autrice, anche mediante un particolare questionario, presso un significativo campione di sacerdoti isolani. Si tratta di risultati sconcertanti, che meritano una attenta riflessione da parte dei responsabili della Chiesa locale, poiché fotografano una realtà ecclesiale fortemente divaricata, e spesso ignara della gravità del problema rappresentato dalla mafia, dai suoi metodi e dalle sue ideologie pagane, rispetto al popolo dei fedeli. Basti pensare che solo il 15% degli intervistati dimostrava di avere piena consapevolezza della necessità di riservare una pastorale specifica al recupero del senso della legalità, mentre un altro 20% si limitava ad una «conoscenza stereotipica» del fenomeno mafioso (non priva di atteggiamenti critici anche nei confronti della magistratura), e il restante 65% si rifugiava in una posizione ambigua e pilatesca, ritenendo che la presenza mafiosa sul territorio non costituisse «una questione di diretta competenza della Chiesa».
Una Chiesa per buona parte senza coraggio e senza memoria (nemmeno delle severe invettive lanciate da Papa Giovanni Paolo II e dal Cardinale Pappalardo), dinnanzi alla quale Alessandra Dino, pur non disconoscendo i progressi compiuti negli anni sul piano delle posizioni ufficiali delle gerarchie, non può che registrare la fisionomia di una istituzione «dalle molte anime e dalle molte contraddizioni», poiché «come non esiste una sola mafia, non esiste una sola Chiesa». Una realtà preoccupante, che suscita «profondo disgusto» in un uomo di fede come don Luigi Ciotti, ma che lo induce «ad amare ancora di più» quella parte della Chiesa siciliana che è «capace di vivere fino in fondo il suo ruolo profetico», talora anche a rischio della vita dei suoi preti più coraggiosi.

Il tirapugni di Padre Pio

Corriere della Sera 20.7.08
Il tirapugni di Padre Pio
di Sergio Luzzatto

Hanno perso un'ottima occasione per tacere certi amministratori di sinistra del comune di San Giuliano Terme (Pisa), denunciando il rigoroso studio di Antonio Carioti sugli Orfani di Salò (Mursia) come un insidioso libello neofascista. Se appena si fossero degnati di leggerlo, ne avrebbero imparate delle belle sul variopinto demi-monde missino dei tardi anni Quaranta, e anche su certi suoi sorprendenti fiancheggiatori. Uno di questi era Padre Pio, il cappuccino con le stigmate. Che fin dagli anni Venti aveva contato fra i suoi protetti un caporione squadrista, il «ras» di Foggia Giuseppe Caradonna. E che nell'Italia del 1949 — si apprende dal libro di Carioti — conferì una specie di benedizione al tirapugni di Caradonna junior: il neofascista Giulio, che lo usava per scazzottarsi con i comunisti nelle vie di Roma. Benedetto (o quasi) da Padre Pio, quel tirapugni veniva trattato dalla madre di Giulio, devotissima terziaria francescana, come una metallica reliquia.

Dossier abusi Sono 4.392 i sacerdoti statunitensi accusati dal 1950 al 2002

Corriere della Sera 20.7.08
Dossier abusi Sono 4.392 i sacerdoti statunitensi accusati dal 1950 al 2002
Il record americano e i diciassette casi italiani
Dai primi scandali negli Usa alle denunce in Europa
In Brasile 1.700 imputazioni in un anno, ma negli Stati Uniti i casi sono decisamente in calo dopo il Duemila
di M.Antonietta Calabrò

Le deviazioni sessuali nei rappresentanti della Chiesa si manifestano soprattutto negli Usa: a Los Angeles sono 660 i milioni di dollari versati alle circa 500 vittime accertate Ma anche in 24 città italiane ci sono casi di violenze

Europa. In Inghilterra, Francia, Croazia e Irlanda sono quasi 150 i preti cattolici coinvolti in violenze
I costi. Tra spese legali e indennizzi il costo delle cause in Europa è stato di 7,8 milioni di euro

L'ultimo maxirisarcimento per le vittime dei preti pedofili americani lo ha deciso l'arcivescovado di Denver (Colorado) il 2 luglio 2008 versando 5,5 milioni di dollari per risolvere in via amichevole 18 denunce presentate contro tre preti, ormai morti. È di venerdì, 18 luglio, invece, l'ultima denuncia per un prete americano accusato di aver molestato una minorenne a bordo di un aereo partito da New York. Il prete è tornato in libertà su cauzione (10mila dollari), ma non può avvicinare minorenni per ordine del Tribunale.
Due casi che da soli illustrano il dramma della Chiesa americana dove per prima è esploso lo scandalo pedofilia che ha contagiato la Chiesa cattolica fino in Australia. Ma anche in Italia l'ultimo arresto clamoroso risale a non più di venti giorni fa, il primo luglio, quando in carcere finisce un prete romano di 55 anni, Ruggero Conti, parroco della Natività di Maria Santissima: è accusato di aver ripetutamente abusato di minorenni negli ultimi dieci anni. Sette, al momento, le sue vittime accertate (tutti maschi). Durante l'ultima campagna elettorale, il prete era stato uno dei cinque testimonial («garante per la famiglia») per il candidato, e poi sindaco, Gianni Alemanno che ha chiesto «ai magistrati e agli inquirenti tutta la chiarezza possibile e di non fare sconti a nessuno ».
Nel nostro Paese nel 2000 si segnalano casi di arresti o di condanne di sacerdoti a Foggia, Ferrara, Napoli, Torino, Modena, Milano. Nel 2001 a Genova e a Milano, nel 2002 ancora a Napoli e Milano. Nel 2003 a Bergamo, Milano, Teramo, Palermo, Cuneo, Oristano. Nel 2004 la lista delle città colpite si allunga: Forlì, Torino, Roma, Varese, Grosseto, Nuoro, Agrigento Alessandria, Bari, Savona. Nel 2005 Como, Cuneo, Arezzo e ancora Napoli. Nel 2006 di nuovo Roma, Ferrara e Lecce. In tutto 17 condanne (dal 1991 al 2006) e 22 incriminazioni. Ma per avere un termine di confronto va tenuto presente che in Italia i sacerdoti diocesani nel 2003 erano in tutto 35.019.
Negli Stati Uniti la Conferenza episcopale nel 2004 ha pubblicato un documento ufficiale che si è avvalso di uno studio statistico del John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, che è unanimemente riconosciuta come la più autorevole istituzione americana di criminologia. Queste statistiche dicono che dal 1950 al 2002 4.392 sacerdoti americani (su oltre 109.000) sono stati accusati di relazioni sessuali con minorenni. L'81% dei sacerdoti accusati erano omosessuali. Il record assoluto dei risarcimenti si è verificato nella diocesi di Los Angeles (660 milioni di dollari alle circa 500 vittime accertate a partire dagli anni Quaranta) e di Boston. Già lo studio del John Jay College notava però il «declino notevolissimo » dei casi negli anni 2000: le nuove inchieste sono state poche, e le condanne pochissime (un effetto delle politiche di «tolleranza zero» dei vescovi seguite alle direttive del cardinale Ratzinger prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede).
In Brasile a cavallo tra il 2005 e il 2006 sono stati denunciati 1.700 preti per violenze, orge e uso di droga nei confronti di bambini piccoli, per lo più estremamente poveri. In almeno due casi a testimoniare la veridicità dei racconti delle vittime sono stati gli stessi violentatori che hanno riportato le loro esperienze su un inquietante diario.
Il quadro mondiale, insomma, è allarmante. Numerosi casi anche in Inghilterra, Francia, Croazia e Irlanda.
Quasi 150 preti cattolici e religiosi di Dublino sono stati coinvolti negli ultimi 67 anni. Tra spese legali e indennizzi il costo è stato di 7,8 milioni di euro.