mercoledì 23 gennaio 2008

Chi ha paura della polemica con la Chiesa?

Chi ha paura della polemica con la Chiesa?

di Walter Tocci *

Il Manifesto del 22/01/2008

La tempesta mediatica sulla Sapienza dovrebbe essere l'occasione per un dibattito di merito sui rapporti tra scienza e religione. Finora ha prevalso il metodo. Non si trattava di organizzare un dibattito col papa, questo sì sarebbe stato grave impedirlo, ma di decidere l'opportunità che la Sapienza scegliesse il papa per rappresentare l'inizio dell'anno accademico, cosa che si può condividere o meno. E a chi avrebbero dovuto rivolgersi i critici, se non al proprio rettore? Del tutto risibile poi è la lamentela sulla libertà di parola del Vaticano, quando è risaputo che da noi gode di una presenza esuberante in tutti i media.
C'è un problema tra scienza e religione? Fanno torto a papa Ratzinger gli apologeti sia di destra sia di sinistra nel non vedere la novità, non solo rispetto al Concilio, ma anche rispetto a Giovanni Paolo II, che arrivò a chiedere perdono per il processo a Galileo, atto complementare alla richiesta di riconoscimento nella Costituzione europea delle radici cristiane. Si può condividere o meno quella tesi, comunque in essa Ratzinger introduce uno squilibrio, quando chiede a gran voce il riconoscimento del primato della Chiesa, ma senza ammetterne i peccati, riprendendo anzi l'argomento di Bellarmino sull'accordo tra ragione e fede.
Quando fede e ragione si identificano diventano entrambe più povere. La stessa religione cristiana viene subordinata in tal modo ad un'esigenza ellenizzante di coerenza conoscitiva, col rischio di perdere un filone irrazionale certo non secondario nella sua storia, a cominciare da San Paolo che annuncia Cristo come scandalo per i giudei e follia per i pagani. La questione non è solo teologica, poiché in una società secolarizzata la rinnovata voglia di ortodossia porta la Chiesa a svolgere un ruolo di divisione della comunità civile, proprio oggi, quando siamo diventati tutti liberali, quando non ci sono più le divisioni ideologiche novecentesche, né la guerra fredda.
Il conflitto tra Bellarmino e Galilei verteva su ciò che è esterno all'uomo fino alle sconfinate dimensioni dell'universo. Ma domani il conflitto riguarderà come siamo fatti in quanto uomini e donne, la natura vivente che ci costituisce. E sarà lacerante la discussione.
Già oggi è diventato difficile dare una definizione condivisa della natura umana, già se ne danno diverse e inconciliabili, eppure è molto probabile che di tutte queste sorrideranno i nostri pronipoti. La Chiesa cattolica pretende di darne una definizione fissata una volta per tutte e in questo curiosamente sposa un certo illuminismo di tradizione giusnaturalista e nel contempo rinnova una vecchia radice intollerante. Ma è lo stesso sviluppo della teologia a smentire questa fissità, se solo mezzo secolo fa la concezione cattolica della vita era centrata sulla persona piuttosto che sull'embrione. La confusione del Vangelo con la biotecnologia è ovviamente un prodotto molto recente e non tra i più solidi dell'esegesi cristiana.
Ciò nonostante cambierà di molto la nostra concezione della natura umana durante il secolo. Questo sarà forse il banco di prova più impegnativo della democrazia, come regola di decisione tra diversi, come risultato di conflitti che generano riconoscimenti.
Con il suo fiuto millenario la Chiesa ha capito che la sfida decisiva è sulla scienza del XXI secolo. Tra le organizzazioni non scientifiche essa è quella che spende maggiori energie organizzative, ideologiche e comunicative per gestire i risultati della ricerca scientifica, come già abbiamo sperimentato nel referendum sulla legge sulla procreazione assistita, vinto dalla semplicità della propaganda cattolica contro l'afasia della comunicazione laica.
Ma lo squilibrio di forze è molto più profondo. E' ormai pienamente sviluppato un grappolo di rivoluzioni scientifiche che minano alle fondamenta le basi epistemologiche della modernità seicentesca. Il mondo di Galileo è oggi superato non dalle frasi di Ratzinger, ma dai nuovi paradigmi delle scienze della vita, della mente, dell'informazione e della materia, i cui maggiori successi non sono riconducibili al concetto e al ruolo della legge scientifica della fisica classica.
All'epoca, la rivoluzione galileiana non rimase confinata alla descrizione della natura, ma ebbe impatti in tanti altri campi del sapere. La ragione moderna venne organizzata prima come legge scientifica e poi come legge dello Stato, la Costituzione fondamentale, e poi ancora come legge filosofica, le categorie dell'intelletto. Tutto il sistema di pensiero moderno venne modellato su assiomi fondamentali da cui derivare per deduzione le verità particolari.
Questa mirabile costruzione è travolta perché le nuove scienze del XXI secolo hanno progredito enormemente, senza che la cultura sia stata in grado di fornirne una comprensione autentica. Oggi usiamo furiosamente le conseguenze tecnologiche di queste scienze, ma non si vedono in giro gli Hobbes e i Kant capaci di proporci nuovi ordini politici e filosofici per capire davvero la rivoluzione di internet o della post-genomica. E' una di quelle fasi storiche in cui la potenza di trasformazione sopravanza la capacità di regolare i processi. C'è un'asimmetria tra la forza della scienza e la debolezza del pensiero. In questo scarto nasce l'inquietudine contemporanea e il senso di smarrimento, quella sottile contraddizione dello Sciamano in elicottero, per riprendere un testo di Marco D'Eramo, che mescola nella confusa postmodernità sia l'innovazione sia la regressione culturale.
Questo squilibrio apre la strada a due esagerazioni. Da una parte la sicumera di alcuni settori scientifici e soprattutto tecnologici, i quali, sapendo di essere più avanti, spargono le illusioni di magnifiche sorti e progressive, riproponendo tra tutte le culture scientifiche il più consunto positivismo, anche se ormai molto invecchiato rispetto alla complessità dei loro saperi.
Dall'altro estremo la Chiesa cattolica si offre di sanare lo squilibrio con la subordinazione della ragione alla fede. Si parla di integralismo, fondamentalismo, oscurantismo, ma sono tutte parole fuori gioco. Il lessico distratto dei laici è inadeguato a descrivere l'ambizioso progetto ecclesiastico. Esso opera dentro la grande contraddizione contemporanea, avendone avvertito per primo la portata e il significato, con l'ambizione di guidare il futuro conservando il passato, come seppero fare i grandi papi della Controriforma.
Il problema alla fine non è Ratzinger, ma l'impreparazione della cultura laica di fronte a queste sfide. Il continuo scivolare verso la facile risposta del libero confronto di opinioni, anche senza avere alcuna opinione. La rimozione di domande forti a favore di banali problemi di metodo. La paura di un vera polemica con la religione, dimenticando che i frutti migliori della cultura occidentale sono quasi tutti concetti religiosi secolarizzati, cioè proprio il frutto di questo scontro di idee, che oggi potremmo gestire più serenamente non essendoci più né roghi né inquisizioni.
La polemica religiosa quando è creativa di tensione culturale e ispirata ad un avanzamento dello spirito pubblico è sempre una risorsa per la civiltà di un popolo. Colpisce, al contrario, l'unanimità della politica laica nel condannare i professori di scienze, nel prendere sdegnosamente la distanza da loro, nell'affannarsi a chi la sparava più grossa per non correre il rischio di essere accusati di anticlericalismo. In quell'aderire compatta alle ragioni del Vaticano la cultura laica è apparsa in tutta la sua debolezza, come un pugile suonato che, allo stremo delle forze, abbraccia l'avversario nella speranza di non cadere al tappeto. E gran parte della classe politica mentre quasi si commuoveva per Mastella trovava l'unanimità per rampognare i professori.
Così in questo bizzarro Paese, in cui ogni giorno agiscono indisturbati mafiosi, inquinatori, evasori fiscali, arricchiti a spese del bene comune, politici corrotti e imbroglioni di ogni risma, in questa babilonia di illegalità e di arroganza, sono finiti sul banco degli imputati un gruppo di scienziati. Conosco personalmente gran parte di loro, sono ricercatori che danno prestigio all'Italia nel mondo nonostante il cattivo esempio di gran parte della classe dirigente, sono formatori di giovani brillanti costretti ad andarsene perché qui la ricerca non si può fare, sono persone miti e anche un po' ingenue al contrario di molti furbacchioni che li hanno accusati, sono dipendenti dello Stato che dedicano tutte le loro energie dalla mattina alla sera ad educare i nostri giovani non solo alla scienza, ma alla democrazia e al bene comune. Sono eroi civili di un Italia che neppure sa di averli come risorsa per il futuro. Sono stati messi all'indice come cattivi maestri. Mai come oggi la povera Italia avrebbe tanto bisogno di questi cattivi maestri.

*Direttore del Crs, deputato Pd