Corriere della Sera 19.1.08
L'inaugurazione dell’anno Accademico
Il no del Pontefice alla Sapienza Libertà di dire, e di non ascoltare
di Alberto Asor Rosa
Professore emerito della «Sapienza» di Roma
Siamo in una fase in cui la Chiesa di Roma tende a espandere i confini del proprio intervento, della propria libertà di parola e del proprio diritto di censura. Questa è la situazione: non certo quella opposta
Caro Direttore, qualche anno or sono Padre Vittorio Liberti S.J., cappellano alla «Sapienza» di Roma, organizzò una serie d'incontri fra credenti e non credenti intorno a temi fondamentali della fede cristiana e della ragione umana (intrecciati fra loro, ovviamente). A me capitò di ragionare con il Vescovo Monsignor Clemente Riva intorno al tema se sia possibile un'etica che prescinda dalla fede. Io sostenevo (ovviamente) di sì: monsignor Riva (ovviamente) di no. E però... (i testi sono stati raccolti accuratamente in un volume,
Sulla soglia del tempio, 1997, con un'introduzione del Cardinal Carlo Maria Martini: chi ne abbia curiosità, può andare a leggerseli).
È stato un bell'esempio, io credo, di «dialogo». Tutt'altra cosa la vicenda riguardante l'invito a Benedetto XVI ad intervenire con un suo proprio discorso all'inaugurazione dell'anno accademico all'Università di Roma «La Sapienza ». Chi non lo capisce — vorrei esser molto chiaro — è un grullo. E, a giudicare dalle reazioni, di grulli ce n'è parecchi in Italia.
L'inaugurazione di un anno accademico è una cerimonia ufficiale, a cui hanno l'obbligo di presenziare tutti i componenti del corpo docente (e la libertà di farlo, secondo me, degli studenti o almeno di loro larghe rappresentanze). Ora, la libertà di parola (lo ricordo ai molti che ne hanno strillato) si compone di due aspetti: la libertà di dire (o non dire); e la libertà di ascoltare (o non ascoltare).
Se la cerimonia è organizzata da un privato qualsiasi, nulla quaestio: ci si va o non ci si va a seconda dei casi. Ma se la cerimonia è ufficiale, e io ho non solo il diritto ma il dovere di parteciparvi in quanto membro effettivo di quella comunità, non mi si può togliere la libertà di non ascoltare, se desidero farlo — di non ascoltare a casa mia, intendo.
Lasciamo stare che in questa grandiosa commedia degli equivoci innescata da una scelta puerilmente malaccorta, si è pensato di risolvere la difficoltà facendo sì che l'inaugurazione accademica di cui si parla fosse ad inviti
e non libera (certo, pre-selezionando il pubblico, s'ottiene l'effetto che si vuole). Resta il fatto che, mancando (ancora una volta ovviamente, data la natura dell'interlocutore) qualsiasi «dialogo» e tanto meno contraddittorio, una parte del pubblico libero potenzialmente dissenziente sarebbe stato costretto ad ascoltare per forza un discorso che non avrebbe voluto ascoltare né lì né altrove.
È per questo che gli accademici d'altri tempi, tradizionalmente prudenti, hanno risolto il problema, dando la parola in consimili occasioni a uno di loro: nel peggiore dei casi (destinato peraltro a verificarsi spesso, ma questo fa parte dei normali casi della vita) non ascolterebbero che le parole di uno di loro, soppesate con il punto di vista della «criticità» e non dell' «autorità».
Nell'invito al Pontefice — il quale, rinunciando a venire ha dato prova di grande saggezza — c'erano dunque un calcolo sbagliato, una concezione abnorme dell'istituzione universitaria, una scarsissima considerazione degli orientamenti del proprio corpo docente e anche, se mi è consentito, un po' di stupidità.
Gli stessi elementi, tuttavia, che ho ritrovato in molti di quel coro che s'è levato quando il Pontefice ha rinunciato a venire. Farei queste due rapide considerazioni.
Quando Veltroni e Ferrara, Casini e Mussi, Turco e Bondi — e altri non meno importanti — dicono esattamente le stesse cose, usando le stesse parole, vuol dire che il senso delle distinzioni su cui uno Stato laico si fonda, si sta perdendo, annegato in quel «comune sentire», che costituisce la «cultura unica» del ceto politico-intellettuale oggi dominante (trasversalismo spinto, direi, altro che legge elettorale).
Quando, di qui a cinquant'anni, uno storico giudicherà questo nostro periodo, non potrà non dire che siamo in una fase in cui la Chiesa di Roma tende continuamente e sempre di più a espandere i confini del proprio intervento, della propria libertà di parola e del proprio diritto di censura. Questa è la situazione: non certo quella opposta. Anche per questo sfondo storico la presenza di Benedetto XVI è stata intesa da molti come uno sviluppo e un'espressione altamente simbolica di questa costante espansione.
Caro Direttore, mettendo insieme questi due «quando », ne esce il quadro di un'Italia confusa, subalterna e divisa — divisa anche su questioni fondamentali. Suggerirei di riprendere e praticare il metodo Liberti, allontanando per sempre quello Guarini. Disponibile, anzi disponibilissimo, al «dialogo »: se è un dialogo.
L'inaugurazione dell’anno Accademico
Il no del Pontefice alla Sapienza Libertà di dire, e di non ascoltare
di Alberto Asor Rosa
Professore emerito della «Sapienza» di Roma
Siamo in una fase in cui la Chiesa di Roma tende a espandere i confini del proprio intervento, della propria libertà di parola e del proprio diritto di censura. Questa è la situazione: non certo quella opposta
Caro Direttore, qualche anno or sono Padre Vittorio Liberti S.J., cappellano alla «Sapienza» di Roma, organizzò una serie d'incontri fra credenti e non credenti intorno a temi fondamentali della fede cristiana e della ragione umana (intrecciati fra loro, ovviamente). A me capitò di ragionare con il Vescovo Monsignor Clemente Riva intorno al tema se sia possibile un'etica che prescinda dalla fede. Io sostenevo (ovviamente) di sì: monsignor Riva (ovviamente) di no. E però... (i testi sono stati raccolti accuratamente in un volume,
Sulla soglia del tempio, 1997, con un'introduzione del Cardinal Carlo Maria Martini: chi ne abbia curiosità, può andare a leggerseli).
È stato un bell'esempio, io credo, di «dialogo». Tutt'altra cosa la vicenda riguardante l'invito a Benedetto XVI ad intervenire con un suo proprio discorso all'inaugurazione dell'anno accademico all'Università di Roma «La Sapienza ». Chi non lo capisce — vorrei esser molto chiaro — è un grullo. E, a giudicare dalle reazioni, di grulli ce n'è parecchi in Italia.
L'inaugurazione di un anno accademico è una cerimonia ufficiale, a cui hanno l'obbligo di presenziare tutti i componenti del corpo docente (e la libertà di farlo, secondo me, degli studenti o almeno di loro larghe rappresentanze). Ora, la libertà di parola (lo ricordo ai molti che ne hanno strillato) si compone di due aspetti: la libertà di dire (o non dire); e la libertà di ascoltare (o non ascoltare).
Se la cerimonia è organizzata da un privato qualsiasi, nulla quaestio: ci si va o non ci si va a seconda dei casi. Ma se la cerimonia è ufficiale, e io ho non solo il diritto ma il dovere di parteciparvi in quanto membro effettivo di quella comunità, non mi si può togliere la libertà di non ascoltare, se desidero farlo — di non ascoltare a casa mia, intendo.
Lasciamo stare che in questa grandiosa commedia degli equivoci innescata da una scelta puerilmente malaccorta, si è pensato di risolvere la difficoltà facendo sì che l'inaugurazione accademica di cui si parla fosse ad inviti
e non libera (certo, pre-selezionando il pubblico, s'ottiene l'effetto che si vuole). Resta il fatto che, mancando (ancora una volta ovviamente, data la natura dell'interlocutore) qualsiasi «dialogo» e tanto meno contraddittorio, una parte del pubblico libero potenzialmente dissenziente sarebbe stato costretto ad ascoltare per forza un discorso che non avrebbe voluto ascoltare né lì né altrove.
È per questo che gli accademici d'altri tempi, tradizionalmente prudenti, hanno risolto il problema, dando la parola in consimili occasioni a uno di loro: nel peggiore dei casi (destinato peraltro a verificarsi spesso, ma questo fa parte dei normali casi della vita) non ascolterebbero che le parole di uno di loro, soppesate con il punto di vista della «criticità» e non dell' «autorità».
Nell'invito al Pontefice — il quale, rinunciando a venire ha dato prova di grande saggezza — c'erano dunque un calcolo sbagliato, una concezione abnorme dell'istituzione universitaria, una scarsissima considerazione degli orientamenti del proprio corpo docente e anche, se mi è consentito, un po' di stupidità.
Gli stessi elementi, tuttavia, che ho ritrovato in molti di quel coro che s'è levato quando il Pontefice ha rinunciato a venire. Farei queste due rapide considerazioni.
Quando Veltroni e Ferrara, Casini e Mussi, Turco e Bondi — e altri non meno importanti — dicono esattamente le stesse cose, usando le stesse parole, vuol dire che il senso delle distinzioni su cui uno Stato laico si fonda, si sta perdendo, annegato in quel «comune sentire», che costituisce la «cultura unica» del ceto politico-intellettuale oggi dominante (trasversalismo spinto, direi, altro che legge elettorale).
Quando, di qui a cinquant'anni, uno storico giudicherà questo nostro periodo, non potrà non dire che siamo in una fase in cui la Chiesa di Roma tende continuamente e sempre di più a espandere i confini del proprio intervento, della propria libertà di parola e del proprio diritto di censura. Questa è la situazione: non certo quella opposta. Anche per questo sfondo storico la presenza di Benedetto XVI è stata intesa da molti come uno sviluppo e un'espressione altamente simbolica di questa costante espansione.
Caro Direttore, mettendo insieme questi due «quando », ne esce il quadro di un'Italia confusa, subalterna e divisa — divisa anche su questioni fondamentali. Suggerirei di riprendere e praticare il metodo Liberti, allontanando per sempre quello Guarini. Disponibile, anzi disponibilissimo, al «dialogo »: se è un dialogo.