Nel curato di Manzoni un avo degli atei devoti
di Massimo Raffaeli
Il Manifesto del 06/01/2008
Un apologo sull'opportunismo degli italiani nel singolare saggio di Angelandrea Zottoli, «Il sistema di Don Abbondio», uscito per Laterza nel '33 e meritevole di essere ristampato
Il papato di Ratzinger ha portato con sé l'ossimoro dei cosiddetti «atei devoti». Nella maggioranza ex comunisti o comunque transfughi dalla cultura laica, costoro non sono affatto dei convertiti al vangelo, o non lo sono necessariamente; obbediscono piuttosto al magistero ecclesiastico e guardano alla Chiesa cattolica quale instrumentum regni: va da sé che sospettano tutto quanto proceda dal Concilio Vaticano Secondo mentre apprezzano il tradizionalismo di ritorno, la rigida clausura intellettuale del presente pontificato insieme con la metafisica identitaria che ciò comporta. Quello degli atei devoti non è affatto un fenomeno nuovo, inediti sono semmai l'aggressività e il compiaciuto cinismo col quale si allinea, o per meglio dire consuona coi pronunciamenti vaticani. Non è un cuor di leone, e neanche un insolente, il primo e più celebre degli atei devoti, cioè Don Abbondio: pauroso della sua stessa ombra, vile in senso etimologico (vale a dire debole), nell'ardore evangelico egli vede soltanto un pericolo, un possibile attentato alla pace domestica in cui vorrebbe dimorare a vita, sordo e cieco. Miscredente per elezione, non è mai sfiorato dalla fede nemmeno davanti al travaglio ovvero al miracolo dei convertiti. Il potere, ogni potere, può solo allarmarlo, mai farne un adepto: si tratti di don Rodrigo, dell'ex criminale Innominato o persino del cardinal Borromeo, al solo nome si sente assoggettato alla paura, al panico di dover schierarsi e agire, il quale si riassume nella scusante, presto divenuta proverbiale, secondo cui uno il coraggio non se lo può dare. C'è da giurare che gli atei devoti di oggi, così tronfi e sfacciati, trovino deplorevole, anzi imbarazzante, quel loro umanissimo archetipo.
Quasi ottant'anni fa, nei mesi immediatamente successivi al primo Concordato, Angelandrea Zottoli gli dedicò un libro molto singolare, tuttora un unicum nella bibliografia su Manzoni, Il sistema di Don Abbondio (Bari, Laterza & Figli, 1933) che sul serio meriterebbe la ristampa. (Zottoli, nato a Salerno nel 1879 e morto a Roma nel 1956, di formazione giuridica, per essersi rifiutato di prestare il giuramento fascista uscì dalla pubblica amministrazione e, amico di Cesare De Lollis e Pietro Paolo Trompeo, si dedicò alla letteratura firmando, fra gli altri, studi ed edizioni di Leopardi, Casanova e Matteo Maria Boiardo. Il suo libretto manzoniano piaceva molto a Leonardo Sciascia, che infatti lo menziona nelle pagine di Per un ritratto dell'artista da giovane).
Scritto in uno stile molto rapido e limpido, quasi scevro di note a pié di pagina, si tratta in realtà di un apologo sul carattere degli italiani e specialmente sul loro opportunismo. Del povero curato, scrive Zottoli in effetti: «Per chi non pensa che al proprio tornaconto, la dignità non conta. Don Abbondio non si dà pensiero del bene e del male che fa, ma solo della giustezza dei suoi calcoli, e nei calcoli ha ragione contro Perpetua come ha ragione contro tutti»; e ancora, più precisamente: «Per chi calcola, il torto e la ragione sono materia di scherzo: l'unica cosa seria è la forza». Detto qui-e-ora, a termini invertiti: come si fa a votarsi a una fede pur continuando a proclamarsi increduli? Tutto è grazia dirà, crepando, il povero curato di Bernanos: viceversa, per il curato di Manzoni, nulla lo è né potrà mai esserlo.
Non la grazia ma il suo antipode esatto, il potere, amava Don Abbondio, così vigliacco da non dirlo nemmeno a se stesso: gli atei devoti di oggi non solo se lo dicono, ma se ne vantano.
di Massimo Raffaeli
Il Manifesto del 06/01/2008
Un apologo sull'opportunismo degli italiani nel singolare saggio di Angelandrea Zottoli, «Il sistema di Don Abbondio», uscito per Laterza nel '33 e meritevole di essere ristampato
Il papato di Ratzinger ha portato con sé l'ossimoro dei cosiddetti «atei devoti». Nella maggioranza ex comunisti o comunque transfughi dalla cultura laica, costoro non sono affatto dei convertiti al vangelo, o non lo sono necessariamente; obbediscono piuttosto al magistero ecclesiastico e guardano alla Chiesa cattolica quale instrumentum regni: va da sé che sospettano tutto quanto proceda dal Concilio Vaticano Secondo mentre apprezzano il tradizionalismo di ritorno, la rigida clausura intellettuale del presente pontificato insieme con la metafisica identitaria che ciò comporta. Quello degli atei devoti non è affatto un fenomeno nuovo, inediti sono semmai l'aggressività e il compiaciuto cinismo col quale si allinea, o per meglio dire consuona coi pronunciamenti vaticani. Non è un cuor di leone, e neanche un insolente, il primo e più celebre degli atei devoti, cioè Don Abbondio: pauroso della sua stessa ombra, vile in senso etimologico (vale a dire debole), nell'ardore evangelico egli vede soltanto un pericolo, un possibile attentato alla pace domestica in cui vorrebbe dimorare a vita, sordo e cieco. Miscredente per elezione, non è mai sfiorato dalla fede nemmeno davanti al travaglio ovvero al miracolo dei convertiti. Il potere, ogni potere, può solo allarmarlo, mai farne un adepto: si tratti di don Rodrigo, dell'ex criminale Innominato o persino del cardinal Borromeo, al solo nome si sente assoggettato alla paura, al panico di dover schierarsi e agire, il quale si riassume nella scusante, presto divenuta proverbiale, secondo cui uno il coraggio non se lo può dare. C'è da giurare che gli atei devoti di oggi, così tronfi e sfacciati, trovino deplorevole, anzi imbarazzante, quel loro umanissimo archetipo.
Quasi ottant'anni fa, nei mesi immediatamente successivi al primo Concordato, Angelandrea Zottoli gli dedicò un libro molto singolare, tuttora un unicum nella bibliografia su Manzoni, Il sistema di Don Abbondio (Bari, Laterza & Figli, 1933) che sul serio meriterebbe la ristampa. (Zottoli, nato a Salerno nel 1879 e morto a Roma nel 1956, di formazione giuridica, per essersi rifiutato di prestare il giuramento fascista uscì dalla pubblica amministrazione e, amico di Cesare De Lollis e Pietro Paolo Trompeo, si dedicò alla letteratura firmando, fra gli altri, studi ed edizioni di Leopardi, Casanova e Matteo Maria Boiardo. Il suo libretto manzoniano piaceva molto a Leonardo Sciascia, che infatti lo menziona nelle pagine di Per un ritratto dell'artista da giovane).
Scritto in uno stile molto rapido e limpido, quasi scevro di note a pié di pagina, si tratta in realtà di un apologo sul carattere degli italiani e specialmente sul loro opportunismo. Del povero curato, scrive Zottoli in effetti: «Per chi non pensa che al proprio tornaconto, la dignità non conta. Don Abbondio non si dà pensiero del bene e del male che fa, ma solo della giustezza dei suoi calcoli, e nei calcoli ha ragione contro Perpetua come ha ragione contro tutti»; e ancora, più precisamente: «Per chi calcola, il torto e la ragione sono materia di scherzo: l'unica cosa seria è la forza». Detto qui-e-ora, a termini invertiti: come si fa a votarsi a una fede pur continuando a proclamarsi increduli? Tutto è grazia dirà, crepando, il povero curato di Bernanos: viceversa, per il curato di Manzoni, nulla lo è né potrà mai esserlo.
Non la grazia ma il suo antipode esatto, il potere, amava Don Abbondio, così vigliacco da non dirlo nemmeno a se stesso: gli atei devoti di oggi non solo se lo dicono, ma se ne vantano.