Se ritorna il Papa re
La Repubblica del 18 gennaio 2008, pag. 1
di Adriano Prosperi
Le piogge degli ultimi giorni hanno gonfiato le acque del Tevere. Ma la distanza tra le due rive resta quella di sempre. Sta cambiando invece la distanza immateriale che divide le due Rome. Quella che ha la vetta più alta nel colle del Quirinale e quella su cui si protendono le ampie braccia del colonnato di San Pietro.
L’appello del cardinal Ruini riapre clamorosamente un antico problema della storia dell'Italia unita: come regolare la compresenza di due autorità politiche nella stessa città, quella del Papa-Re e quella del capo dello Stato italiano. L'appello a varcare il Tevere per gridare la parola "Libertà" al Papa ritiratosi davanti alla contestazione universitaria è rivolto a tutti i cattolici italiani al di sopra e al di là dei loro legittimi rappresentanti. Con questo l'incidente casuale che speravamo chiuso dall'invito alla pazienza e dai modi gentili e spesso anche eccessivamente contriti delle generali condoglianze, si ingigantisce, fa sospettare una provocazione tattica e rivela un sicuro disegno strategico: il Papa qui non è più il mite professore tedesco esperto di studi e di libri a cui alcuni di noi hanno immaginato diretto l'invito, né "quell'erede di una grande tradizione etica" (cosi, se non erro, ha detto il cardinal Bertone) cioè una specie di Dalai Lama che in quanto tale poteva avere qualcosa da insegnare agli studenti universitari: è il "Papa Re", colui che lo storico Paolo Prodi ha descritto come chi alberga nel suo corpo di uomo le due anime del sommo potere spirituale e del supremo potere di indirizzo degli uomini sulla terra. L'urgenza della convocazione a San Pietro per domenica prossima contraddice la pacatezza dell'esortazione del cardinal Bagnasco a guardare lontano - o forse aiuta a capire finalmente a quale orizzonte lontano si stia guardando da parte di alcuni. Con la pubblica uscita di Ruini l'appuntamento di domenica si configura come il secondo atto di quel duro avvertimento del Papa al sindaco di Roma sul degrado della città di pochi giorni fa: e già lì alcuni avevano intravisto per un attimo la reincarnazione di Pio XII "protector civitatis" disceso tra i cittadini di una Roma bombardata e vilmente disertata dai Savoia a rincuorarli come loro vero e paterno sovrano.
Ma la Roma attuale non è abbandonata dal governo legittimo. Perciò quelle parole avevano avuto un suono strano. Poi altre voci avevano cercato di dissipare quell'impressione. Oggi è difficile avere dubbi: è il popolo cattolico che deve risarcire il Papa dell'affronto subito, non bastano le parole pacate del Presidente Napolitano né il dolore che ha incavato le rughe sul volto del primo ministro Prodi. Ruini è di Reggio Emilia, concittadino di Prodi. Un'altra città li ospita e li divide: quella Roma "onde Cristo è romano", come disse qualcuno. Ma li divide anche la concezione del rapporto tra le due città del cristiano, quella terrena e quella del Regno dei Cieli. Da un lato c'è l'idea che si possa agire come cittadini obbedendo alle leggi dello Stato democratico anche se dispiacciono al Papa, dall'altra si avanza il progetto di scardinare la formazione delle leggi buttando sul piatto politico moltitudini incitate folle fanatizzate da improvvisati ayatollah cristiani. L'Italia non è l'Iran, si dirà; ma anche l'Iran ha messo del tempo per diventare quello che è.
Resta il fatto che dietro il contrasto dei due reggiani, il laico e l'ecclesiastico, si riconosce il destino politico dell'Italia nel primo secolo del millennio. E' un destino che si gioca sulla parola "libertà": quella parola — molti lo ricorderanno — fu riesumata dai gonfaloni dei Comuni medievali per l'atto di nascita del primo partito politico dei cattolici. Quel partito è morto. Non morremo democristiani, si disse allora con soddisfazione. Oggi ci tocca rimpiangere quel partito? La sua eredità è incerta: un partito si è aggiudicato faticosamente l'aggettivo "democratico". L'altro aggettivo — "cristiano" — resta al centro di una confusa partita tra aspiranti che appaiono, per la verità, tanto arroganti nelle rivendicazioni quanto poco rappresentativi della grande "tradizione etica". Dietro di loro si avverte l'impazienza di chi vuole regolare direttamente la partita, approfittando della crisi che l'età della globalizzazione e dell'informatica ha portato nei lenti processi tradizionali di formazione del consenso e di funzionamento degli organi del potere legislativo ed esecutivo.
Ma se questo è vero, o almeno se queste impressioni hanno qualche base di verità, allora si tratta di richiamare con fermezza tutti alla sostanza della partita in gioco. L'Italia è, con tutti i suoi problemi, un grande paese moderno. La lotta politica che la divide è una schiuma superficiale rispetto alle cose che stanno a cuore quotidianamente ai suoi cittadini. Il cattolicesimo vissuto della maggioranza è un adattamento tranquillo di principi generali alla complessità delle situazioni di vita e di morte che tutti debbono affrontare. La legge sul divorzio e quella sull'aborto furono frutto anche di questo adattamento, governato con saggezza dal partito democristiano di allora. La libertà che si chiede per il Papa è garantita dalle leggi italiane nel modo più ampio. In cambio, si chiede solo al sovrano dello Stato della Città del Vaticano di mostrare altrettanto rispetto per la Repubblica italiana, per i suoi rappresentanti, come pure per le dinamiche dell'autonomia della ricerca e dell'insegnamento nelle moderne università, che includono anche il diritto di contestare ogni professore troppo sicuro della sua verità.
La Repubblica del 18 gennaio 2008, pag. 1
di Adriano Prosperi
Le piogge degli ultimi giorni hanno gonfiato le acque del Tevere. Ma la distanza tra le due rive resta quella di sempre. Sta cambiando invece la distanza immateriale che divide le due Rome. Quella che ha la vetta più alta nel colle del Quirinale e quella su cui si protendono le ampie braccia del colonnato di San Pietro.
L’appello del cardinal Ruini riapre clamorosamente un antico problema della storia dell'Italia unita: come regolare la compresenza di due autorità politiche nella stessa città, quella del Papa-Re e quella del capo dello Stato italiano. L'appello a varcare il Tevere per gridare la parola "Libertà" al Papa ritiratosi davanti alla contestazione universitaria è rivolto a tutti i cattolici italiani al di sopra e al di là dei loro legittimi rappresentanti. Con questo l'incidente casuale che speravamo chiuso dall'invito alla pazienza e dai modi gentili e spesso anche eccessivamente contriti delle generali condoglianze, si ingigantisce, fa sospettare una provocazione tattica e rivela un sicuro disegno strategico: il Papa qui non è più il mite professore tedesco esperto di studi e di libri a cui alcuni di noi hanno immaginato diretto l'invito, né "quell'erede di una grande tradizione etica" (cosi, se non erro, ha detto il cardinal Bertone) cioè una specie di Dalai Lama che in quanto tale poteva avere qualcosa da insegnare agli studenti universitari: è il "Papa Re", colui che lo storico Paolo Prodi ha descritto come chi alberga nel suo corpo di uomo le due anime del sommo potere spirituale e del supremo potere di indirizzo degli uomini sulla terra. L'urgenza della convocazione a San Pietro per domenica prossima contraddice la pacatezza dell'esortazione del cardinal Bagnasco a guardare lontano - o forse aiuta a capire finalmente a quale orizzonte lontano si stia guardando da parte di alcuni. Con la pubblica uscita di Ruini l'appuntamento di domenica si configura come il secondo atto di quel duro avvertimento del Papa al sindaco di Roma sul degrado della città di pochi giorni fa: e già lì alcuni avevano intravisto per un attimo la reincarnazione di Pio XII "protector civitatis" disceso tra i cittadini di una Roma bombardata e vilmente disertata dai Savoia a rincuorarli come loro vero e paterno sovrano.
Ma la Roma attuale non è abbandonata dal governo legittimo. Perciò quelle parole avevano avuto un suono strano. Poi altre voci avevano cercato di dissipare quell'impressione. Oggi è difficile avere dubbi: è il popolo cattolico che deve risarcire il Papa dell'affronto subito, non bastano le parole pacate del Presidente Napolitano né il dolore che ha incavato le rughe sul volto del primo ministro Prodi. Ruini è di Reggio Emilia, concittadino di Prodi. Un'altra città li ospita e li divide: quella Roma "onde Cristo è romano", come disse qualcuno. Ma li divide anche la concezione del rapporto tra le due città del cristiano, quella terrena e quella del Regno dei Cieli. Da un lato c'è l'idea che si possa agire come cittadini obbedendo alle leggi dello Stato democratico anche se dispiacciono al Papa, dall'altra si avanza il progetto di scardinare la formazione delle leggi buttando sul piatto politico moltitudini incitate folle fanatizzate da improvvisati ayatollah cristiani. L'Italia non è l'Iran, si dirà; ma anche l'Iran ha messo del tempo per diventare quello che è.
Resta il fatto che dietro il contrasto dei due reggiani, il laico e l'ecclesiastico, si riconosce il destino politico dell'Italia nel primo secolo del millennio. E' un destino che si gioca sulla parola "libertà": quella parola — molti lo ricorderanno — fu riesumata dai gonfaloni dei Comuni medievali per l'atto di nascita del primo partito politico dei cattolici. Quel partito è morto. Non morremo democristiani, si disse allora con soddisfazione. Oggi ci tocca rimpiangere quel partito? La sua eredità è incerta: un partito si è aggiudicato faticosamente l'aggettivo "democratico". L'altro aggettivo — "cristiano" — resta al centro di una confusa partita tra aspiranti che appaiono, per la verità, tanto arroganti nelle rivendicazioni quanto poco rappresentativi della grande "tradizione etica". Dietro di loro si avverte l'impazienza di chi vuole regolare direttamente la partita, approfittando della crisi che l'età della globalizzazione e dell'informatica ha portato nei lenti processi tradizionali di formazione del consenso e di funzionamento degli organi del potere legislativo ed esecutivo.
Ma se questo è vero, o almeno se queste impressioni hanno qualche base di verità, allora si tratta di richiamare con fermezza tutti alla sostanza della partita in gioco. L'Italia è, con tutti i suoi problemi, un grande paese moderno. La lotta politica che la divide è una schiuma superficiale rispetto alle cose che stanno a cuore quotidianamente ai suoi cittadini. Il cattolicesimo vissuto della maggioranza è un adattamento tranquillo di principi generali alla complessità delle situazioni di vita e di morte che tutti debbono affrontare. La legge sul divorzio e quella sull'aborto furono frutto anche di questo adattamento, governato con saggezza dal partito democristiano di allora. La libertà che si chiede per il Papa è garantita dalle leggi italiane nel modo più ampio. In cambio, si chiede solo al sovrano dello Stato della Città del Vaticano di mostrare altrettanto rispetto per la Repubblica italiana, per i suoi rappresentanti, come pure per le dinamiche dell'autonomia della ricerca e dell'insegnamento nelle moderne università, che includono anche il diritto di contestare ogni professore troppo sicuro della sua verità.