Corriere della Sera 19.1.08
Benedetto XVI afferma che né il cristianesimo né la cultura laica possono proporre qualcosa «su cui tutti siano d'accordo»
Se il Papa è relativista
Quando dice che la ragione non regge senza l'ausilio della fede sottrae alla filosofia il compito di ricercare verità indiscutibili
di Emanuele Severino
Antiche radici. La sapienza greca nasce come critica della religione
La divergenza. Ratzinger non segue Tommaso d'Aquino sul «diritto naturale»
Episodi di intolleranza come quello verificatosi in questi giorni nei confronti del Pontefice danneggiano il dialogo sui grandi temi della ragione e della fede. Ma ancora maggiore sarebbe il danno se tale dialogo si interrompesse. Lo sostengo in riferimento al felice libro di Benedetto XVI Perché siamo ancora nella Chiesa
(Rizzoli). Insieme a quella latina, cristiana e moderna, egli indica l'«eredità» greca dell'Europa: la fondazione della democrazia su ciò che Platone chiama eunomia, «buona legge», («buon diritto»), che è buona perché, dice il Pontefice, è la «supremazia, valida per tutti, del nomos » («legge»), «di ciò che è giusto per intima essenza». Ma questa — osservo — è la supremazia della filosofia, che ha sempre inteso indicare, in modo «valido per tutti», la verità. Una giustizia, una virtù, un Dio che non siano veri — dice Platone — li si può e li si deve abbandonare. Solo la verità può mostrare in modo incontrovertibile l'«intima essenza» delle cose. La filosofia respinge tutto ciò che assicura di essere verità senza esserlo, innanzitutto il mito, la religione, il potere e la negazione di esso che siano privi di verità.
Nel libro del Pontefice questo tratto essenziale della filosofia non può essere presente. La relativa distanza di queste pagine dall'essenza della filosofia è il presentimento che non solo quella moderna, ma la filosofia in quanto tale, dunque anche e innanzitutto quella greca, è critica della religione e del mito. Se la filosofia vede che il Dio (e giustizia, virtù, ecc...) delle religioni non può avere verità, e se il cristianesimo (ogni religione) non può accettare che il Dio della filosofia sia «vero», tuttavia il senso dell'incontrovertibile e della «verità» è stato esplorato dalla filosofia, non dalle religioni (e nemmeno dalla scienza). Il Pontefice afferma che «la speranza del cristianesimo... dipende in ultima istanza dal fatto che esso dice la verità», ma questa non può essere la verità a cui la filosofia si rivolge — e si rivolge tuttora quando riesce a mostrare l'impossibilità di un Dio eterno che crea, ama e domina il mondo del divenire. L'eunomia è il «diritto naturale», qualcosa che però, nel dialogo col filosofo Jürgen Habermas — incluso in questo libro e considerato dal curatore come il testo fornito di «maggiore incisività» —, il Pontefice non intende sfruttare. Per semplificare il dialogo adotta una strategia, che però non raggiunge l'intento. Egli enuncia la «regola fondamentale» per evitare i contrasti tra le diverse culture: la «necessaria correlazionalità» o «complementarietà » «tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate a una reciproca chiarificazione e cura, che hanno bisogno l'una dell'altra e che lo devono riconoscere». «I due partner principali in questa correlazionalità sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale ». Per il Pontefice il fondamento di questa «regola» è che, «di fatto», nessuno dei due partner è in grado di proporre qualcosa «su cui tutti siano d'accordo» — anche perché sia la religione sia la ragione sono affette da pericolose «patologie». Un discorso audace, ma controproducente. Le premesse non giustificano le conseguenze.
Infatti la ragione — pur riconoscendo le patologie della cattiva ragione e la possibilità di non riscuotere il consenso di tutti — può non sentire il bisogno della religione. Anzi non deve sentirlo. Nella sua forma fondamentale, infatti, la ragione è il sapere incontrovertibile. Il Pontefice (insieme con molti altri) non lo ricorda. Ma se la filosofia ha evocato il senso — l'idea — di un sapere che non possa esser travolto e smentito nemmeno da un Dio onnipotente, allora la filosofia nasce negando di «aver bisogno» della religione e del mito, ossia di un sapere smentibile. Nessun disprezzo, in questo fatto, se Aristotele ha potuto dire che anche «l'amante del mito», il philomythos, è in qualche modo philosophos; ma bisogna che ogni cosa sia chiamata col suo nome, e che quindi ogni altra forma di sapere diversa dalla filosofia sia chiamata sapere controvertibile.
Giacché la fede cristiana intende, sì, essere rationabile obsequium, cioè fede «ragionevole », ma questa «ragionevolezza» (la stessa fede lo riconosce) non può essere la verità incontrovertibile che può apparire nell'uomo in quanto tale. La fede non può essere l'incontrovertibile perché altrimenti essa non sarebbe dono soprannaturale, «grazia», rivelazione di Cristo a cui l'uomo non può giungere (daccapo secondo la fede) con le sole sue forze. Ne viene che la «ragione» autentica, l'«incontrovertibile », non può aver bisogno di alcuna religione, appunto perché l'incontrovertibile, per esser tale, non può aver bisogno del controvertibile. Il relativismo e lo scetticismo, contro cui la Chiesa e il Pontefice continuano a combattere, consistono proprio nella tesi sostenuta dal Pontefice, cioè che la ragione, in quanto incontrovertibilità, non esiste appunto perché essa ha bisogno della religione, cioè del controvertibile — e se fossero certi scienziati a prender la parola arriverebbero alla stessa conclusione, perché direbbero, in modo analogo, che la filosofia ha bisogno della scienza — un sapere, la scienza, che per la sua struttura concettuale ha sì la massima potenza, ma ormai esclude esso stesso di essere incontrovertibile.
La tesi del Pontefice che la ragione abbia bisogno della religione cattolica, non è la tesi di Tommaso d'Aquino, «dottore della Chiesa» e santo che, almeno nelle intenzioni, sostiene una filosofia basata sulla «ragione naturale», «alla quale tutti sono costretti a dare il proprio assenso» e che ha appunto i tratti dell'incontrovertibilità — mentre per lui la fede cattolica non è un sapere a cui tutti siano costretti a dare il loro assenso («i maomettani e i pagani non la accettano») e appunto per questo non è da lui assunta (o almeno egli si propone di non assumerla) come fondamento del suo filosofare. Dove, si noti, quell'esser qualcosa «su cui tutti siano d'accordo» a cui si riferisce il Pontefice — e che per lui né fede cattolica né ragione laica riescono ad essere —, non va confuso con quell'«esser costretti a dare il proprio assenso» che Tommaso riferisce alla «ragione naturale». Per Tommaso, infatti, anche se «di fatto» nessuno fosse d'accordo con la «ragione naturale», essa sarebbe egualmente ciò a cui tutti — qualora non fossero obnubilati — sarebbero costretti a dare il proprio assenso; mentre nella strategia di queste pagine del Pontefice la «patologia» dell'obnubilazione compete alla ragione in quanto tale, e anche alla fede; le quali, per il fatto di non esser condivise da tutti, sono come due zoppi che per camminare hanno bisogno di appoggiarsi l'uno all'altro, dando luogo comunque a una complessiva claudicazione.
Se si accettasse questo modo di pensare, si dovrebbe dire che quando Gesù fu alla fine, e nessuno fu più d'accordo con lui, allora, per questo disaccordo, la sua fede si sarebbe dovuta appoggiare («correlazionarsi») alla ragione, avrebbe dovuto «aver bisogno» di essa, farsi da essa «chiarificare» (per usare le espressioni del Pontefice richiamate all'inizio). Sembra allora più rispondente allo spirito del cristianesimo (ma anch'essa gravata, si è visto sopra, da gigantesche aporie) l'altra strategia, quella del «diritto naturale» che — il Pontefice riconosce — è la «figura argomentativa » preferita dalla Chiesa nei dibattiti con i non cattolici.
Benedetto XVI afferma che né il cristianesimo né la cultura laica possono proporre qualcosa «su cui tutti siano d'accordo»
Se il Papa è relativista
Quando dice che la ragione non regge senza l'ausilio della fede sottrae alla filosofia il compito di ricercare verità indiscutibili
di Emanuele Severino
Antiche radici. La sapienza greca nasce come critica della religione
La divergenza. Ratzinger non segue Tommaso d'Aquino sul «diritto naturale»
Episodi di intolleranza come quello verificatosi in questi giorni nei confronti del Pontefice danneggiano il dialogo sui grandi temi della ragione e della fede. Ma ancora maggiore sarebbe il danno se tale dialogo si interrompesse. Lo sostengo in riferimento al felice libro di Benedetto XVI Perché siamo ancora nella Chiesa
(Rizzoli). Insieme a quella latina, cristiana e moderna, egli indica l'«eredità» greca dell'Europa: la fondazione della democrazia su ciò che Platone chiama eunomia, «buona legge», («buon diritto»), che è buona perché, dice il Pontefice, è la «supremazia, valida per tutti, del nomos » («legge»), «di ciò che è giusto per intima essenza». Ma questa — osservo — è la supremazia della filosofia, che ha sempre inteso indicare, in modo «valido per tutti», la verità. Una giustizia, una virtù, un Dio che non siano veri — dice Platone — li si può e li si deve abbandonare. Solo la verità può mostrare in modo incontrovertibile l'«intima essenza» delle cose. La filosofia respinge tutto ciò che assicura di essere verità senza esserlo, innanzitutto il mito, la religione, il potere e la negazione di esso che siano privi di verità.
Nel libro del Pontefice questo tratto essenziale della filosofia non può essere presente. La relativa distanza di queste pagine dall'essenza della filosofia è il presentimento che non solo quella moderna, ma la filosofia in quanto tale, dunque anche e innanzitutto quella greca, è critica della religione e del mito. Se la filosofia vede che il Dio (e giustizia, virtù, ecc...) delle religioni non può avere verità, e se il cristianesimo (ogni religione) non può accettare che il Dio della filosofia sia «vero», tuttavia il senso dell'incontrovertibile e della «verità» è stato esplorato dalla filosofia, non dalle religioni (e nemmeno dalla scienza). Il Pontefice afferma che «la speranza del cristianesimo... dipende in ultima istanza dal fatto che esso dice la verità», ma questa non può essere la verità a cui la filosofia si rivolge — e si rivolge tuttora quando riesce a mostrare l'impossibilità di un Dio eterno che crea, ama e domina il mondo del divenire. L'eunomia è il «diritto naturale», qualcosa che però, nel dialogo col filosofo Jürgen Habermas — incluso in questo libro e considerato dal curatore come il testo fornito di «maggiore incisività» —, il Pontefice non intende sfruttare. Per semplificare il dialogo adotta una strategia, che però non raggiunge l'intento. Egli enuncia la «regola fondamentale» per evitare i contrasti tra le diverse culture: la «necessaria correlazionalità» o «complementarietà » «tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate a una reciproca chiarificazione e cura, che hanno bisogno l'una dell'altra e che lo devono riconoscere». «I due partner principali in questa correlazionalità sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale ». Per il Pontefice il fondamento di questa «regola» è che, «di fatto», nessuno dei due partner è in grado di proporre qualcosa «su cui tutti siano d'accordo» — anche perché sia la religione sia la ragione sono affette da pericolose «patologie». Un discorso audace, ma controproducente. Le premesse non giustificano le conseguenze.
Infatti la ragione — pur riconoscendo le patologie della cattiva ragione e la possibilità di non riscuotere il consenso di tutti — può non sentire il bisogno della religione. Anzi non deve sentirlo. Nella sua forma fondamentale, infatti, la ragione è il sapere incontrovertibile. Il Pontefice (insieme con molti altri) non lo ricorda. Ma se la filosofia ha evocato il senso — l'idea — di un sapere che non possa esser travolto e smentito nemmeno da un Dio onnipotente, allora la filosofia nasce negando di «aver bisogno» della religione e del mito, ossia di un sapere smentibile. Nessun disprezzo, in questo fatto, se Aristotele ha potuto dire che anche «l'amante del mito», il philomythos, è in qualche modo philosophos; ma bisogna che ogni cosa sia chiamata col suo nome, e che quindi ogni altra forma di sapere diversa dalla filosofia sia chiamata sapere controvertibile.
Giacché la fede cristiana intende, sì, essere rationabile obsequium, cioè fede «ragionevole », ma questa «ragionevolezza» (la stessa fede lo riconosce) non può essere la verità incontrovertibile che può apparire nell'uomo in quanto tale. La fede non può essere l'incontrovertibile perché altrimenti essa non sarebbe dono soprannaturale, «grazia», rivelazione di Cristo a cui l'uomo non può giungere (daccapo secondo la fede) con le sole sue forze. Ne viene che la «ragione» autentica, l'«incontrovertibile », non può aver bisogno di alcuna religione, appunto perché l'incontrovertibile, per esser tale, non può aver bisogno del controvertibile. Il relativismo e lo scetticismo, contro cui la Chiesa e il Pontefice continuano a combattere, consistono proprio nella tesi sostenuta dal Pontefice, cioè che la ragione, in quanto incontrovertibilità, non esiste appunto perché essa ha bisogno della religione, cioè del controvertibile — e se fossero certi scienziati a prender la parola arriverebbero alla stessa conclusione, perché direbbero, in modo analogo, che la filosofia ha bisogno della scienza — un sapere, la scienza, che per la sua struttura concettuale ha sì la massima potenza, ma ormai esclude esso stesso di essere incontrovertibile.
La tesi del Pontefice che la ragione abbia bisogno della religione cattolica, non è la tesi di Tommaso d'Aquino, «dottore della Chiesa» e santo che, almeno nelle intenzioni, sostiene una filosofia basata sulla «ragione naturale», «alla quale tutti sono costretti a dare il proprio assenso» e che ha appunto i tratti dell'incontrovertibilità — mentre per lui la fede cattolica non è un sapere a cui tutti siano costretti a dare il loro assenso («i maomettani e i pagani non la accettano») e appunto per questo non è da lui assunta (o almeno egli si propone di non assumerla) come fondamento del suo filosofare. Dove, si noti, quell'esser qualcosa «su cui tutti siano d'accordo» a cui si riferisce il Pontefice — e che per lui né fede cattolica né ragione laica riescono ad essere —, non va confuso con quell'«esser costretti a dare il proprio assenso» che Tommaso riferisce alla «ragione naturale». Per Tommaso, infatti, anche se «di fatto» nessuno fosse d'accordo con la «ragione naturale», essa sarebbe egualmente ciò a cui tutti — qualora non fossero obnubilati — sarebbero costretti a dare il proprio assenso; mentre nella strategia di queste pagine del Pontefice la «patologia» dell'obnubilazione compete alla ragione in quanto tale, e anche alla fede; le quali, per il fatto di non esser condivise da tutti, sono come due zoppi che per camminare hanno bisogno di appoggiarsi l'uno all'altro, dando luogo comunque a una complessiva claudicazione.
Se si accettasse questo modo di pensare, si dovrebbe dire che quando Gesù fu alla fine, e nessuno fu più d'accordo con lui, allora, per questo disaccordo, la sua fede si sarebbe dovuta appoggiare («correlazionarsi») alla ragione, avrebbe dovuto «aver bisogno» di essa, farsi da essa «chiarificare» (per usare le espressioni del Pontefice richiamate all'inizio). Sembra allora più rispondente allo spirito del cristianesimo (ma anch'essa gravata, si è visto sopra, da gigantesche aporie) l'altra strategia, quella del «diritto naturale» che — il Pontefice riconosce — è la «figura argomentativa » preferita dalla Chiesa nei dibattiti con i non cattolici.