l’Unità 18.1.08
Ma io quei professori li difendo
di Pietro Greco
Saranno anche stati ingenui, politicamente. Ma non meritano certo la pubblica gogna cui sono sottoposti in queste ore dalla gran parte dei giornali, delle radio e delle televisioni i 67 professori che hanno giudicato “incongruo” l’invito che il loro Rettore, Renato Guarini, ha rivolto al Papa, Benedetto XVI, affinché inaugurasse il nuovo anno accademico dell’università La Sapienza di Roma. Anzi, il loro comportamento è stato del tutto corretto nel metodo e sufficientemente fondato nel merito.
Cosa hanno fatto, dunque, i 67? Hanno scritto, nel lontano mese di novembre, una cortese, anche se ferma, lettera al loro Rettore per criticare un'iniziativa che giudicavano “incongrua”. Non hanno contestato la legittimità dell'invito che Renato Guarini ha rivolto al Papa. Né hanno minacciato le barricate. Si sono limitati a esprimere per iscritto un giudizio di congruità, esercitando un loro diritto. Anzi, un loro dovere. Qualsiasi atto nell’università, anche se proposto dal Rettore e approvato a maggioranza dal Senato accademico, può essere sottoposto a critica. E se un docente o uno studente giudica “incongruo” che ad aprire l’anno accademico - atto di notevole pregnanza simbolica - sia Tizio piuttosto che Caio, ha tutto il diritto di farlo presente al suo Rettore. E quell'espressione di un giudizio non può essere in alcun modo considerata un tentativo di censura. Tanto più nel mondo delle scienze, naturali e umanistiche, dove l’analisi critica, palese e anonima, è la norma assoluta. E dove - come insegna il sociologo Robert Merton - non vale, in alcun caso, l’ipse dixit. Nell’università una critica, a chicchessia - fosse anche al Papa - non può essere considerata di per sé un atto di intolleranza, ma al contrario è un'interpretazione piena di laicità e democrazia vissuta.
Naturalmente, la critica può essere a sua volta criticata. E giudicata sbagliata nel merito. C’è, dunque, un palese errore di merito nel giudizio di “incongruità” espresso dai 67 professori al loro Rettore sul fatto che a inaugurare con una “lectio magistralis” (di questo si parlava a novembre) l’anno accademico 2007/08 dell’università La Sapienza di Roma fosse il Papa, Benedetto XVI? Francamente, non pensiamo. In discussione, infatti, non è se un Papa possa parlare in un’università. È già successo, in molte università e in molti paesi. Con soddisfazione di tutti. È successo anche alla Sapienza: per esempio, il 17 maggio 2003 quando Giovanni Paolo II che fece un applaudito intervento ricevendo una laurea “honoris causa”.
I 67 professori hanno messo in discussione due cose. Primo: se è congruo che un Papa o una qualsiasi autorità religiosa inauguri l’anno accademico, ovvero compia un gesto di alto valore simbolico (nessuno più dei religiosi conosce il valore dei simboli) in un’istituzione laica. È un po’ come se a tenere l'udienza il primo mercoledì dell’anno in sala Nervi in Vaticano venisse chiamato il Presidente della Repubblica italiana. L’evento sarebbe da molti giudicato non congruo.
Secondo: i 67 si sono chiesti se è congruo che a inaugurare l’accademico all’università di Roma sia quest’anno, questo Papa, Benedetto XVI. Che nei suoi tre anni di magistero non solo si è trovato, più volte, a polemizzare con svariati ambienti scientifici su singole questioni (dalla ricerca sulle staminali embrionali al darwinismo), ma ha addirittura affermato (proprio in un’università, a Regensburg) che una scienza senza la guida della fede è cieca. Il Papa può legittimamente proporre questo rapporto asimmetrico tra scienza e fede. Ma è altrettanto legittimo (anzi, è auspicabile) che uno scienziato - o una qualsiasi persona laica - possa contestarlo. La scienza rivendica come suo valore fondante l’universalismo. Può contribuire pienamente al suo sviluppo chiunque: a prescindere dal sesso, dalla razza e, appunto, dalla fede religiosa. I cattolici non fanno scienza meglio dei protestanti, degli islamici o dei non credenti. E affermarlo, come hanno fatto i 67, può essere politicamente ingenuo (bisogna sempre calcolare gli effetti indesiderati di ogni propria azione), ma non è affatto oltraggioso. Anzi, è addirittura meritorio.
Invece, i 67 che hanno esercitato questo diritto di critica - corretto nel metodo, e ben fondato nel merito - sono stati messi alla pubblica gogna. La gran parte degli editorialisti li ha accusati di intolleranza, di attentato alla laicità e alla democrazia. Un ex ministro ne ha chiesto il licenziamento, come successe ai tempi del fascismo a chi rifiutò il giuramento al regime. Un ex segretario di partito li ha definiti ignoranti e un ex Presidente della Camera li ha definiti imbecilli - senza forse sapere che tra quei 67 più d’uno è in odore di Nobel.
Non dobbiamo preoccuparci per il giudizio - certo criticabile, ma legittimo nel metodo e ben fondato nel merito, espresso dai 67 - ma faremmo bene a preoccuparci del conformismo di un paese che tratta così sessantasette persone che hanno l’unico torto di aver fatto emergere con ingenua determinazione l’esistenza di un nodo, quello dei rapporti tra chiesa e società, che negli ultimi tempi si è aggrovigliato e si è stretto fino a diventare a volte doloroso.
Ma io quei professori li difendo
di Pietro Greco
Saranno anche stati ingenui, politicamente. Ma non meritano certo la pubblica gogna cui sono sottoposti in queste ore dalla gran parte dei giornali, delle radio e delle televisioni i 67 professori che hanno giudicato “incongruo” l’invito che il loro Rettore, Renato Guarini, ha rivolto al Papa, Benedetto XVI, affinché inaugurasse il nuovo anno accademico dell’università La Sapienza di Roma. Anzi, il loro comportamento è stato del tutto corretto nel metodo e sufficientemente fondato nel merito.
Cosa hanno fatto, dunque, i 67? Hanno scritto, nel lontano mese di novembre, una cortese, anche se ferma, lettera al loro Rettore per criticare un'iniziativa che giudicavano “incongrua”. Non hanno contestato la legittimità dell'invito che Renato Guarini ha rivolto al Papa. Né hanno minacciato le barricate. Si sono limitati a esprimere per iscritto un giudizio di congruità, esercitando un loro diritto. Anzi, un loro dovere. Qualsiasi atto nell’università, anche se proposto dal Rettore e approvato a maggioranza dal Senato accademico, può essere sottoposto a critica. E se un docente o uno studente giudica “incongruo” che ad aprire l’anno accademico - atto di notevole pregnanza simbolica - sia Tizio piuttosto che Caio, ha tutto il diritto di farlo presente al suo Rettore. E quell'espressione di un giudizio non può essere in alcun modo considerata un tentativo di censura. Tanto più nel mondo delle scienze, naturali e umanistiche, dove l’analisi critica, palese e anonima, è la norma assoluta. E dove - come insegna il sociologo Robert Merton - non vale, in alcun caso, l’ipse dixit. Nell’università una critica, a chicchessia - fosse anche al Papa - non può essere considerata di per sé un atto di intolleranza, ma al contrario è un'interpretazione piena di laicità e democrazia vissuta.
Naturalmente, la critica può essere a sua volta criticata. E giudicata sbagliata nel merito. C’è, dunque, un palese errore di merito nel giudizio di “incongruità” espresso dai 67 professori al loro Rettore sul fatto che a inaugurare con una “lectio magistralis” (di questo si parlava a novembre) l’anno accademico 2007/08 dell’università La Sapienza di Roma fosse il Papa, Benedetto XVI? Francamente, non pensiamo. In discussione, infatti, non è se un Papa possa parlare in un’università. È già successo, in molte università e in molti paesi. Con soddisfazione di tutti. È successo anche alla Sapienza: per esempio, il 17 maggio 2003 quando Giovanni Paolo II che fece un applaudito intervento ricevendo una laurea “honoris causa”.
I 67 professori hanno messo in discussione due cose. Primo: se è congruo che un Papa o una qualsiasi autorità religiosa inauguri l’anno accademico, ovvero compia un gesto di alto valore simbolico (nessuno più dei religiosi conosce il valore dei simboli) in un’istituzione laica. È un po’ come se a tenere l'udienza il primo mercoledì dell’anno in sala Nervi in Vaticano venisse chiamato il Presidente della Repubblica italiana. L’evento sarebbe da molti giudicato non congruo.
Secondo: i 67 si sono chiesti se è congruo che a inaugurare l’accademico all’università di Roma sia quest’anno, questo Papa, Benedetto XVI. Che nei suoi tre anni di magistero non solo si è trovato, più volte, a polemizzare con svariati ambienti scientifici su singole questioni (dalla ricerca sulle staminali embrionali al darwinismo), ma ha addirittura affermato (proprio in un’università, a Regensburg) che una scienza senza la guida della fede è cieca. Il Papa può legittimamente proporre questo rapporto asimmetrico tra scienza e fede. Ma è altrettanto legittimo (anzi, è auspicabile) che uno scienziato - o una qualsiasi persona laica - possa contestarlo. La scienza rivendica come suo valore fondante l’universalismo. Può contribuire pienamente al suo sviluppo chiunque: a prescindere dal sesso, dalla razza e, appunto, dalla fede religiosa. I cattolici non fanno scienza meglio dei protestanti, degli islamici o dei non credenti. E affermarlo, come hanno fatto i 67, può essere politicamente ingenuo (bisogna sempre calcolare gli effetti indesiderati di ogni propria azione), ma non è affatto oltraggioso. Anzi, è addirittura meritorio.
Invece, i 67 che hanno esercitato questo diritto di critica - corretto nel metodo, e ben fondato nel merito - sono stati messi alla pubblica gogna. La gran parte degli editorialisti li ha accusati di intolleranza, di attentato alla laicità e alla democrazia. Un ex ministro ne ha chiesto il licenziamento, come successe ai tempi del fascismo a chi rifiutò il giuramento al regime. Un ex segretario di partito li ha definiti ignoranti e un ex Presidente della Camera li ha definiti imbecilli - senza forse sapere che tra quei 67 più d’uno è in odore di Nobel.
Non dobbiamo preoccuparci per il giudizio - certo criticabile, ma legittimo nel metodo e ben fondato nel merito, espresso dai 67 - ma faremmo bene a preoccuparci del conformismo di un paese che tratta così sessantasette persone che hanno l’unico torto di aver fatto emergere con ingenua determinazione l’esistenza di un nodo, quello dei rapporti tra chiesa e società, che negli ultimi tempi si è aggrovigliato e si è stretto fino a diventare a volte doloroso.