l'Unità 5.1.08
La storia della 194. Prezzemolo e cucchiai d’oro
l’Italia ai tempi delle mammane
di Adele Cambria
C’è qualcuno che si è incaricato di svegliare le coscienze, a cominciare da quelle delle donne incinte, le donne con la pancia… Ma avete mai sentito parlare di quei rituali primitivi in cui i maschi della tribù mimano le doglie del parto, nel momento in cui la loro donna le affronta? Avete mai sentito parlare di invidia (maschile) della gravidanza? È un pensiero che, lo ammetto, ha avuto il potere di riportarmi indietro di oltre quarant’anni. Una curiosità, però, vorrei che qualcuno me la sciogliesse…La moratoria delle pance, chiamiamola così, e perdonate se noi donne fummo materialiste ben prima di Carlo Marx, come si ottiene? Con un filtro magico alla Harry Potter che congelerà tutte le pance femminili gravide - e non solo quelle italiane ma pare anche europee - in attesa che «si riapra il dibattito»?
La questione dell’aborto. Quella era, lo scrissi su Tempo Presente nel 1974, «una lotta arretrata in un Paese arretrato, come nell’ultimo scorcio dell’Ottocento lo erano state le lotte operaie e contadine al grido di "Pane e lavoro!"». Quando di aborto si arrivò a discutere pubblicamente - avevano cominciato a farlo i radicali e le donne del Movimento di Liberazione della Donna - io avevo già avuto la fortuna di incontrare una ginecologa (triestina), che nel 1962, dopo la nascita del mio secondo bambino, mi aveva svelato l’esistenza del diaframma (più tardi avrei letto Il gruppo, istruttivo e divertente romanzo di Mary MacCarthy, pubblicato in Italia soltanto nel ’64). Avevo potuto quindi rendermi conto dell’enorme privilegio costituito dall’informazione, specie per le donne, anche se il titolare e i commessi dell’unica farmacia romana in cui il diaframma era in vendita - dietro presentazione di una ricetta medica ovviamente ambigua - ti porgevano l’oggetto e ,periodicamente, la crema di cui era necessario rifornirsi girando la testa dall’altra parte…
E fu così che in un pomeriggio nuvoloso del 1967, mi ritrovai al sit-in organizzato dai radicali e dallo Mld (Movimento di liberazione della Donna) in piazza Montecitorio, anzi seduta per terra attorno all’obelisco, insieme a forse una dozzina di donne: c’era Edda Billi, pioniera del femminismo romano, con un cartello dal significato parzialmente oscuro ai celerini che ci sorvegliavano,«Aborto libero e vasectomia», («Signora, che cos’è la vasectomia?», mi chiese uno di loro). E c’era una giovanissima Eugenia Roccella, credo sedicenne, con sua madre. L’impegno politico di Wanda si sarebbe presto rivelato costante: dalle labbra rosse del poster che disegnò per dire un gigantesco «No» alla abolizione referendaria della legge che introduceva il divorzio in Italia, alla partecipazione militante al centro antiviolenza di Palazzo Nardini al Governo Vecchio, occupato, nel 1976, per l’iniziativa della figlia.
I pochi uomini del Partito Radicale presenti quel giorno al sit-in, e che scandivano insieme a noi gli slogan - «Anticoncezionali gratuiti per non abortire, aborto libero per non morire» - ricordo che erano giovanissimi, ma non saprei dire se ci fosse, tra loro, anche Francesco Rutelli.
Nel 1970, al suo primo congresso, il Movimento di Liberazione della Donna lancia il dibattito politico sull’aborto,affermando: «La lotta per la liberalizzazione dell’aborto viene scelta dallo Mld come una battaglia per scardinare la sudditanza sociale della donna».
Il 1973 fu una data importante: con la pubblicazione di Effe, il mensile che, fin dal primo numero, esprimeva la doppia anima del movimento femminista italiano: quella «rivendicazionista» e l’altra, di ancor più lungo periodo, di trasformazione culturale. Tra le prime rivendicazioni, la fuoriuscita dall’aborto clandestino di massa. Il Codice Penale, (Codice Rocco, licenziato nel 1931 in regime fascista, e tuttora in gran parte vigente), definiva l’aborto un reato, e comminava 5 anni sia per la donna che abortiva - nel caso fosse sopravvissuta alle pratiche delle mammane - sia per chi la faceva abortire. Nello stesso Titolo decimo, «Dei delitti contro la sanità e l’integrità della stirpe», era incluso il reato di «Incitamento a pratiche contro la procreazione». Fino al 1971, quando una sentenza della Corte Costituzionale ha abolito questo articolo, il 553, e liberalizzato gli anticoncezionali.
E sempre nel 1973, quando il movimento delle donne cominciava già a disturbare la quiete pubblica, che il Tribunale di Padova decise di «dare un esempio»: conducendo sul banco degli imputati una ragazza «colpevole» di avere abortito quando aveva sedici anni, Gigliola Pierobon. La legge, pur severissima, restava fin’allora largamente inapplicata, perché si era ben consapevoli, anche da parte degli stessi magistrati, di quanto fosse inapplicabile: in un Paese in cui si stimavano da 800.000 a due milioni di aborti volontari all’anno. «I processi per aborto che si celebravano ogni anno erano sì e no uno ogni 10.000 aborti procurati» scrivono Elena Marinucci e Laura Remiddi, in un testo, Guida all’aborto legale, edito da Marsilio nel 1978, che ricostruisce anche la storia di «Otto anni di lotte in parlamento e nel paese».
Per Gigliola Pierobon cominciammo a raccogliere le firme con la seguente dichiarazione: «Ho abortito e/o ho aiutato un’altra donna ad abortire». Ne furono raccolte cinquemila. Consegnate al settimanale L’Espresso, non ricordo se furono mai pubblicate. Personalmente fui incaricata di telefonare a donne vip. Attrici, imprenditrici, collezioniste d’arte... Alcune si sottrassero protestando giustificazioni puerili. Monica Vitti: «Firmerei subito, ma i miei genitori stanno a Città del Messico, se leggono la notizia sul giornale gli prende un colpo!». Luisa Spagnoli: «Non posso coinvolgere l’impresa che ha il mio stesso nome». Avrei capito meglio un rifiuto leale. Come quello, comprensibile, di non poter aderire alla formula proposta perché non rispondente ai fatti del proprio vissuto.
Il processo a Gigliola diventò comunque il primo processo politico del Movimento femminista italiano: i magistrati se la cavarono con una sentenza di «perdono giudiziale», perché all’epoca la ragazza era minorenne; le militanti femministe più coraggiose, dalla Grande Madre del movimento romano, Alma Sabatini, alle più giovani Lara Foletti ed Antonella Del Mercato, si schierarono in prima fila tra il pubblico, e cominciarono a scandire lo slogan che ho citato. Furono fermate e poi denunciate.
Accelero il ritmo del mio calendario. Il 1975 vede un’immensa manifestazione di donne a Firenze… Ricordo una ragazza dai riccioli fulvi in gonnellone fiorito arrampicata sul Davide di Michelangelo, con il cartello «Più devianze meno gravidanze», ma c’è anche una giovanissima Emma Bonino… Il corteo protesta contro l’arresto di un medico, Canciani, che con il Cisa, fondato dalla radicale Adele Faccio, pratica l’aborto militante con il metodo karmann. L’arresto di Adele Faccio avverrà in pubblico, il 26 gennaio 1975, sul palcoscenico del Cinema Adriano a Roma. Con lei si consegna alle forze dell’ordine il segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia.
Nel 1976 accetto l’invito delle donne del Mld a candidarmi alle politiche in Calabria e in Puglia. Avevo detto sì perché donne che stimavo me l’avevano chiesto. Eppure vivevo un momento di rifiuto della «festa» femminista. Sentivo la fatica dell’appartenenza ad un popolo di vittime. Vittime dell’aborto clandestino. Nel mio viaggio di ritorno al Sud, dovunque ci fosse anche un piccolo gruppo di ragazze vibranti di passione intellettuale ed esistenziale per la scoperta del femminismo, c’era purtroppo quasi sempre una richiesta di aiutare una compagna che non poteva permettersi di avere un bambino… E non potevo non ammirare il coraggio e la solidarietà delle ragazze dello Mld che intervenivano con l’aborto militante… Le storie di aborti che ormai raccoglievo da anni non le ho dimenticate. Ne cito soltanto due: una giovane donna della Magliana, a Roma, venne a trovarmi a casa e mi raccontò l’incredibile comportamento dei medici: le avevano diagnosticato un «utero bicorne», per cui una ulteriore gravidanza - aveva già due figli - avrebbe messo a rischio la sua vita, e poi, senza darle informazioni sui contraccettivi, l’abbandonavano in pratica in mano alle mammane. La seconda storia me la raccontò Maria Occhipinti, l’eroina siciliana della rivolta dei «non-si-parte» (l’avrebbe poi scritta in un suo libro di racconti, Il carrubo). Una contadina della campagna vicino a Ragusa,aveva avuto sette figli e fatto altrettanti aborti dalla levatrice. Ma poiché suo marito «non si contentava» - mi raccontava pudicamente Maria- una notte scese nella stalla e senza mutande si sedette sullo strame, per prendere una infezione che la rendesse sterile».
Ancora a proposito di Sicilia: quando il Pci decise di impegnarsi su una legge che consentisse l’interruzione legale della gravidanza, Giglia Tedesco, donna indomita, partì per l’isola per parlare con le donne. «Ma lo sai che moltissime, tra le donne del popolo, sostenevano che la legge dell’aborto c’era già, però l’aborto dovevano farlo con le mammane, perché erano povere?!».
Dopo, nel 1978, fu la legge, la 194. Confermata dal referendum del 1981. Come i radicali (e anche tante femministe, a cominciare da Lidia Menapace), credevo che sarebbe stato meglio, innanzitutto per le donne, la "fuoriuscita" dal Codice Penale del reato d’aborto. Senza nessun’altra normativa se non quella che includesse l’intervento, in determinate condizioni di reddito, nell’ambito delle prestazioni riconosciute dal Servizio Sanitario Nazionale.
Oggi sono persuasa - come del resto Umberto Veronesi ha scritto ieri su La Repubblica - che l’informazione sulla contraccezione sia fondamentale. Ed aggiungo che -almeno per le cittadine italiane adulte, e ancora più per i loro partner- ormai non dovrebbe essere accettata la «distrazione» in materia… Da anni, poi, ritengo che la pillola RU486 aiuti qualsiasi donna ad assumersi la piena responsabilità della sua scelta. Senza voci soprattutto maschili a frastornarla.
La storia della 194. Prezzemolo e cucchiai d’oro
l’Italia ai tempi delle mammane
di Adele Cambria
C’è qualcuno che si è incaricato di svegliare le coscienze, a cominciare da quelle delle donne incinte, le donne con la pancia… Ma avete mai sentito parlare di quei rituali primitivi in cui i maschi della tribù mimano le doglie del parto, nel momento in cui la loro donna le affronta? Avete mai sentito parlare di invidia (maschile) della gravidanza? È un pensiero che, lo ammetto, ha avuto il potere di riportarmi indietro di oltre quarant’anni. Una curiosità, però, vorrei che qualcuno me la sciogliesse…La moratoria delle pance, chiamiamola così, e perdonate se noi donne fummo materialiste ben prima di Carlo Marx, come si ottiene? Con un filtro magico alla Harry Potter che congelerà tutte le pance femminili gravide - e non solo quelle italiane ma pare anche europee - in attesa che «si riapra il dibattito»?
La questione dell’aborto. Quella era, lo scrissi su Tempo Presente nel 1974, «una lotta arretrata in un Paese arretrato, come nell’ultimo scorcio dell’Ottocento lo erano state le lotte operaie e contadine al grido di "Pane e lavoro!"». Quando di aborto si arrivò a discutere pubblicamente - avevano cominciato a farlo i radicali e le donne del Movimento di Liberazione della Donna - io avevo già avuto la fortuna di incontrare una ginecologa (triestina), che nel 1962, dopo la nascita del mio secondo bambino, mi aveva svelato l’esistenza del diaframma (più tardi avrei letto Il gruppo, istruttivo e divertente romanzo di Mary MacCarthy, pubblicato in Italia soltanto nel ’64). Avevo potuto quindi rendermi conto dell’enorme privilegio costituito dall’informazione, specie per le donne, anche se il titolare e i commessi dell’unica farmacia romana in cui il diaframma era in vendita - dietro presentazione di una ricetta medica ovviamente ambigua - ti porgevano l’oggetto e ,periodicamente, la crema di cui era necessario rifornirsi girando la testa dall’altra parte…
E fu così che in un pomeriggio nuvoloso del 1967, mi ritrovai al sit-in organizzato dai radicali e dallo Mld (Movimento di liberazione della Donna) in piazza Montecitorio, anzi seduta per terra attorno all’obelisco, insieme a forse una dozzina di donne: c’era Edda Billi, pioniera del femminismo romano, con un cartello dal significato parzialmente oscuro ai celerini che ci sorvegliavano,«Aborto libero e vasectomia», («Signora, che cos’è la vasectomia?», mi chiese uno di loro). E c’era una giovanissima Eugenia Roccella, credo sedicenne, con sua madre. L’impegno politico di Wanda si sarebbe presto rivelato costante: dalle labbra rosse del poster che disegnò per dire un gigantesco «No» alla abolizione referendaria della legge che introduceva il divorzio in Italia, alla partecipazione militante al centro antiviolenza di Palazzo Nardini al Governo Vecchio, occupato, nel 1976, per l’iniziativa della figlia.
I pochi uomini del Partito Radicale presenti quel giorno al sit-in, e che scandivano insieme a noi gli slogan - «Anticoncezionali gratuiti per non abortire, aborto libero per non morire» - ricordo che erano giovanissimi, ma non saprei dire se ci fosse, tra loro, anche Francesco Rutelli.
Nel 1970, al suo primo congresso, il Movimento di Liberazione della Donna lancia il dibattito politico sull’aborto,affermando: «La lotta per la liberalizzazione dell’aborto viene scelta dallo Mld come una battaglia per scardinare la sudditanza sociale della donna».
Il 1973 fu una data importante: con la pubblicazione di Effe, il mensile che, fin dal primo numero, esprimeva la doppia anima del movimento femminista italiano: quella «rivendicazionista» e l’altra, di ancor più lungo periodo, di trasformazione culturale. Tra le prime rivendicazioni, la fuoriuscita dall’aborto clandestino di massa. Il Codice Penale, (Codice Rocco, licenziato nel 1931 in regime fascista, e tuttora in gran parte vigente), definiva l’aborto un reato, e comminava 5 anni sia per la donna che abortiva - nel caso fosse sopravvissuta alle pratiche delle mammane - sia per chi la faceva abortire. Nello stesso Titolo decimo, «Dei delitti contro la sanità e l’integrità della stirpe», era incluso il reato di «Incitamento a pratiche contro la procreazione». Fino al 1971, quando una sentenza della Corte Costituzionale ha abolito questo articolo, il 553, e liberalizzato gli anticoncezionali.
E sempre nel 1973, quando il movimento delle donne cominciava già a disturbare la quiete pubblica, che il Tribunale di Padova decise di «dare un esempio»: conducendo sul banco degli imputati una ragazza «colpevole» di avere abortito quando aveva sedici anni, Gigliola Pierobon. La legge, pur severissima, restava fin’allora largamente inapplicata, perché si era ben consapevoli, anche da parte degli stessi magistrati, di quanto fosse inapplicabile: in un Paese in cui si stimavano da 800.000 a due milioni di aborti volontari all’anno. «I processi per aborto che si celebravano ogni anno erano sì e no uno ogni 10.000 aborti procurati» scrivono Elena Marinucci e Laura Remiddi, in un testo, Guida all’aborto legale, edito da Marsilio nel 1978, che ricostruisce anche la storia di «Otto anni di lotte in parlamento e nel paese».
Per Gigliola Pierobon cominciammo a raccogliere le firme con la seguente dichiarazione: «Ho abortito e/o ho aiutato un’altra donna ad abortire». Ne furono raccolte cinquemila. Consegnate al settimanale L’Espresso, non ricordo se furono mai pubblicate. Personalmente fui incaricata di telefonare a donne vip. Attrici, imprenditrici, collezioniste d’arte... Alcune si sottrassero protestando giustificazioni puerili. Monica Vitti: «Firmerei subito, ma i miei genitori stanno a Città del Messico, se leggono la notizia sul giornale gli prende un colpo!». Luisa Spagnoli: «Non posso coinvolgere l’impresa che ha il mio stesso nome». Avrei capito meglio un rifiuto leale. Come quello, comprensibile, di non poter aderire alla formula proposta perché non rispondente ai fatti del proprio vissuto.
Il processo a Gigliola diventò comunque il primo processo politico del Movimento femminista italiano: i magistrati se la cavarono con una sentenza di «perdono giudiziale», perché all’epoca la ragazza era minorenne; le militanti femministe più coraggiose, dalla Grande Madre del movimento romano, Alma Sabatini, alle più giovani Lara Foletti ed Antonella Del Mercato, si schierarono in prima fila tra il pubblico, e cominciarono a scandire lo slogan che ho citato. Furono fermate e poi denunciate.
Accelero il ritmo del mio calendario. Il 1975 vede un’immensa manifestazione di donne a Firenze… Ricordo una ragazza dai riccioli fulvi in gonnellone fiorito arrampicata sul Davide di Michelangelo, con il cartello «Più devianze meno gravidanze», ma c’è anche una giovanissima Emma Bonino… Il corteo protesta contro l’arresto di un medico, Canciani, che con il Cisa, fondato dalla radicale Adele Faccio, pratica l’aborto militante con il metodo karmann. L’arresto di Adele Faccio avverrà in pubblico, il 26 gennaio 1975, sul palcoscenico del Cinema Adriano a Roma. Con lei si consegna alle forze dell’ordine il segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia.
Nel 1976 accetto l’invito delle donne del Mld a candidarmi alle politiche in Calabria e in Puglia. Avevo detto sì perché donne che stimavo me l’avevano chiesto. Eppure vivevo un momento di rifiuto della «festa» femminista. Sentivo la fatica dell’appartenenza ad un popolo di vittime. Vittime dell’aborto clandestino. Nel mio viaggio di ritorno al Sud, dovunque ci fosse anche un piccolo gruppo di ragazze vibranti di passione intellettuale ed esistenziale per la scoperta del femminismo, c’era purtroppo quasi sempre una richiesta di aiutare una compagna che non poteva permettersi di avere un bambino… E non potevo non ammirare il coraggio e la solidarietà delle ragazze dello Mld che intervenivano con l’aborto militante… Le storie di aborti che ormai raccoglievo da anni non le ho dimenticate. Ne cito soltanto due: una giovane donna della Magliana, a Roma, venne a trovarmi a casa e mi raccontò l’incredibile comportamento dei medici: le avevano diagnosticato un «utero bicorne», per cui una ulteriore gravidanza - aveva già due figli - avrebbe messo a rischio la sua vita, e poi, senza darle informazioni sui contraccettivi, l’abbandonavano in pratica in mano alle mammane. La seconda storia me la raccontò Maria Occhipinti, l’eroina siciliana della rivolta dei «non-si-parte» (l’avrebbe poi scritta in un suo libro di racconti, Il carrubo). Una contadina della campagna vicino a Ragusa,aveva avuto sette figli e fatto altrettanti aborti dalla levatrice. Ma poiché suo marito «non si contentava» - mi raccontava pudicamente Maria- una notte scese nella stalla e senza mutande si sedette sullo strame, per prendere una infezione che la rendesse sterile».
Ancora a proposito di Sicilia: quando il Pci decise di impegnarsi su una legge che consentisse l’interruzione legale della gravidanza, Giglia Tedesco, donna indomita, partì per l’isola per parlare con le donne. «Ma lo sai che moltissime, tra le donne del popolo, sostenevano che la legge dell’aborto c’era già, però l’aborto dovevano farlo con le mammane, perché erano povere?!».
Dopo, nel 1978, fu la legge, la 194. Confermata dal referendum del 1981. Come i radicali (e anche tante femministe, a cominciare da Lidia Menapace), credevo che sarebbe stato meglio, innanzitutto per le donne, la "fuoriuscita" dal Codice Penale del reato d’aborto. Senza nessun’altra normativa se non quella che includesse l’intervento, in determinate condizioni di reddito, nell’ambito delle prestazioni riconosciute dal Servizio Sanitario Nazionale.
Oggi sono persuasa - come del resto Umberto Veronesi ha scritto ieri su La Repubblica - che l’informazione sulla contraccezione sia fondamentale. Ed aggiungo che -almeno per le cittadine italiane adulte, e ancora più per i loro partner- ormai non dovrebbe essere accettata la «distrazione» in materia… Da anni, poi, ritengo che la pillola RU486 aiuti qualsiasi donna ad assumersi la piena responsabilità della sua scelta. Senza voci soprattutto maschili a frastornarla.