l’Unità 10.1.08
Aborto, verità e menzogne
di Carlo Flamigni
La 194 è una legge che ha dato ottima
prova di sé: ha diminuito drasticamente
il numero di aborti con un tasso
di abortività tra i più bassi nel mondo
Quante altre leggi dello Stato
hanno funzionato altrettanto bene?
In questi giorni il Cardinale Ruini ha riaperto il problema della legge 194, quella sulla interruzione volontaria di gravidanza, affermando che i grandi progressi acquisiti nel campo dell’assistenza intensiva neonatale ne impongono una revisione. Alla sua dichiarazione hanno inevitabilmente fatto eco molti parlamentari cattolici e un gran numero di cattolici «della curva nord», quelli che si divertono a fare il tifo anche se non hanno mai dato un calcio al pallone e che comunque si distinguono sempre per aggressività, violenza e maleducazione (oltre, naturalmente, per la volgarità delle motivazioni che li ispirano). A dare ancor maggior rilievo a questa iniziativa è poi arrivato l’appoggio del Pontefice, che ha inneggiato alla proposta di una moratoria sull’aborto ottenendo nuovi consensi e nuove genuflessioni.
Questa ipotesi di una moratoria da imporre a un problema che rappresenta una tragedia personale per molte migliaia di donne mi sembra così offensiva che vivo ancora nella speranza che il Papa non abbia capito perfettamente il significato della parola, la lingua italiana ha le sue trappole. Ma «sospendere a tempo indeterminato» l’interruzione volontaria delle gravidanze, avrebbe un senso se si potesse contemporaneamente sospendere la violenza carnale, il disagio economico, la malattia, la cattiva abitudine di alcuni feti di nascere malformati, dite voi. Se questo è possibile, giuro, mi associo, faccio mia la proposta; se non è così, si tratta di un tale sberleffo alla sofferenza umana che vorrei proprio evitare di dare giudizi.
Immagino che, a provocare questi interventi, ci siano due ragioni: la prima, riconoscibile in alcuni eventi recenti (un feto è sopravvissuto dopo una interruzione volontaria di gravidanza) e nella attuale polemica (che ha investito anche il Comitato Nazionale per la Bioetica) che riguarda la rianimazione dei bambini nati con un peso particolarmente basso. Il secondo motivo è squisitamente politico e non poteva essere diversamente, date le propensioni (appunto, squisitamente politiche) del Cardinale Ruini: in effetti, da questo punto di vista, non c’era momento migliore per sollevare la questione, considerata la condizione di straordinaria difficoltà in cui versa il nuovo Partito democratico, pervaso dai soliti venti di guerra tra laici e cattolici e in trepida attesa di qualche nuovo intervento divino capace di modificare i già precari equilibri parlamentari.
Non credo sia possibile immaginare un momento migliore per confondere ulteriormente le idee di questi miei poveri compagni e non credo che sarebbe possibile immaginare un argomento più velenoso. Non ho nessuna simpatia per l’astuzia, un disvalore che dovremmo imparare a disprezzare, ma so riconoscere il merito.
Non mi è ancora ben chiaro se è in ballo una vera e propria modifica della legge o se si tratta più semplicemente di un tentativo di elaborare alcune linee guida che pongano dei limiti di tempo all’interruzione, quella regolata dall’articolo 6 che riguarda l’aborto dopo il 90° giorno. Secondo me la legge 194, che è tutto sommato una legge saggia, è già in grado di evitare questa sorta di problemi, basta leggerla - e attuarla - con attenzione. L’articolo 6, infatti, stabilisce che:
-l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, può essere praticata;
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Ma all’articolo 7, dopo una premessa che riguarda gli accertamenti sulla normalità del feto troviamo che:
-quando l’interruzione di gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l’intervento può essere praticato anche senza le procedure previste…..Qualora sussista la possibilità di vita autonoma del feto l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso della lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.
Dunque, nel caso in cui il medico riconosca al feto capacità di vita autonoma, la scelta di interrompere la gravidanza potrà essere fatta solo nel caso che lo stesso medico identifichi, nel proseguimento della gestazione, un grave pericolo per la vita della donna.
Ciò ci riconduce alla prassi in uso prima del varo della legge 194, quando l’interruzione della gravidanza poteva essere eseguita legalmente solo se si creavano le condizioni di uno stato di necessità (quando cioè il feto diviene «l’assassino di sua madre» - espressione utilizzata molti anni or sono da un rabbino - e non intervenire pur essendo consapevoli del grave pericolo al quale è esposta la vita della donna, significa assumersi la responsabilità della sua morte), in presenza del quale le altre norme debbono tacere.
Il problema vero, l’unico che mi sembra di scorgere in questo momento, riguarda il momento della gravidanza nel quale può essere identificato l’inizio della possibilità di vita autonoma.
Su questo punto c’è attualmente una discussione: è vero infatti che nessun feto sopravvive se costretto a nascere entro le 22 settimane di gestazione, ma è anche vero che nessun feto nato alla ventiquattresima settimana sopravvive se la madre lo partorisce in una remota località di montagna, o se è portatore di una grave malformazione per la quale deve essere sottoposto a intervento chirurgico; ed è altresì vero che esistono spesso problemi quando si deve datare una gestazione, che la prognosi è diversa se il parto è spontaneo o operativo e così via. D’altra parte stiamo parlando di eventi assai poco frequenti e che sarebbe possibile evitare del tutto stabilendo un unico principio: che tutte le indagini relative al benessere e alla normalità del feto si debbono concludere in tempo utile perché una eventuale interruzione della gravidanza possa essere eseguita entro la ventiduesima settimana.
Sul problema della sopravvivenza dei feti nati dopo la 22ma settimana vorrei intervenire in un altro momento, il tema è complesso (ne sta discutendo il Comitato Nazionale per la Bioetica) è ha bisogno di spazio. Anticipo solo i punti sui quali la discussione è più calda: è giusto intervenire sempre, sottoponendo il feto a cure intensive, o piuttosto è opportuno valutare caso per caso le probabilità di sopravvivenza e i rischi di handicap? E quale ruolo hanno i genitori: hanno il diritto di essere consultati (e di chiedere di veder rispettata la propria decisione) o sono realmente, come qualcuno afferma, confusi, disorientati e disinformati e vanno tenuti, affettuosamente, fuori dalle scatole? E cosa mi dite delle cure che debbono essere considerate sperimentali (che sono tantissime), non sarà che, almeno in questi casi il parere dei genitori è determinante? Problemi, come vedete, seri e concreti, certamente più seri e concreti delle baggianate sulle moratorie .
Non è però detto che le richieste di modificare la legge 194 si fermino qui. Francesco D’Agostino, in un confronto che abbiamo avuto su una radio romana, ha richiamato la mia attenzione sull’articolo 4 della stessa legge, nella parte nella quale si stabiliscono i motivi di una eventuale interruzione che possono essere considerati accettabili. Secondo D’Agostino la legge affida la decisione al medico, l’unica persona competente in grado di verificare l’esistenza di «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua (della donna) salute fisica o psichica...». Per D’Agostino sarebbe dunque sufficiente, per una corretta attuazione della norma e per una lettura coerente del suo spirito, affidare realmente e completamente al medico la valutazione dell’esistenza di questo «serio pericolo».
A mio avviso questa interpretazione è del tutto sbagliata, e per due ragioni: la prima perché continuando nella lettura dell’articolo 4 si legge come questo pericolo deve essere valutato «in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvento il concepimento, o a previsioni di malformazioni o anomalie del concepito» ed è chiaro che in quasi tutti di questi ambiti il medico non ha né competenza né capacità di intervento. Se poi si continua la lettura della legge si scopre, e questo è il secondo motivo del mio dissenso, che in tutto l’articolo 5 è delineato il percorso che la donna dovrà seguire, nei casi in cui esiste e in quelli in cui non esiste una urgenza, percorso che ha come unico impedimento un periodo di 7 giorni in cui è invitata a soprassedere.
Il compito del medico è dunque quello di valutare le circostanze che inducono la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, di informarla in merito ai suoi diritti e sugli interventi di carattere sociale ai quali può fare ricorso e di verificare l’esistenza di un carattere di urgenza. Al termine di tutto ciò egli può solo consegnarle un certificato nel quale sono attestate le sue intenzioni e chiederle di attendere per sette giorni: ma al termine di questi sette giorni, e quale che sia la personale opinione del medico, la donna può presentarsi a una delle sedi autorizzate e chiedere l’interruzione di gravidanza sulla base di quel documento, un documento che il medico deve consegnarle per forza.
C’è in molti, anche come conseguenza di una sottile opera di propaganda, la convinzione che i medici non facciano il loro dovere, che i consultori siano degli abortifici, che la legge 194 venga utilizzata come strumento di controllo delle nascite. In realtà, i medici hanno saputo interpretare correttamente la legge, i consultori fanno una straordinaria opera di sostegno e di informazione e le donne che hanno utilizzato l’interruzione di gravidanza alla stregua di un mezzo anticoncezionale non dovrebbero superare, secondo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità. l’1,6%. Insomma, la 194 è una legge che ha dato buona prova di sé, che ha diminuito il numero di aborti in modo significativo (erano 234.000 nel 1982, sono stati 129.000 nel 2005) con un tasso di abortività tra i più bassi nel mondo. Quante altre leggi dello stato hanno funzionato altrettanto bene?
Aborto, verità e menzogne
di Carlo Flamigni
La 194 è una legge che ha dato ottima
prova di sé: ha diminuito drasticamente
il numero di aborti con un tasso
di abortività tra i più bassi nel mondo
Quante altre leggi dello Stato
hanno funzionato altrettanto bene?
In questi giorni il Cardinale Ruini ha riaperto il problema della legge 194, quella sulla interruzione volontaria di gravidanza, affermando che i grandi progressi acquisiti nel campo dell’assistenza intensiva neonatale ne impongono una revisione. Alla sua dichiarazione hanno inevitabilmente fatto eco molti parlamentari cattolici e un gran numero di cattolici «della curva nord», quelli che si divertono a fare il tifo anche se non hanno mai dato un calcio al pallone e che comunque si distinguono sempre per aggressività, violenza e maleducazione (oltre, naturalmente, per la volgarità delle motivazioni che li ispirano). A dare ancor maggior rilievo a questa iniziativa è poi arrivato l’appoggio del Pontefice, che ha inneggiato alla proposta di una moratoria sull’aborto ottenendo nuovi consensi e nuove genuflessioni.
Questa ipotesi di una moratoria da imporre a un problema che rappresenta una tragedia personale per molte migliaia di donne mi sembra così offensiva che vivo ancora nella speranza che il Papa non abbia capito perfettamente il significato della parola, la lingua italiana ha le sue trappole. Ma «sospendere a tempo indeterminato» l’interruzione volontaria delle gravidanze, avrebbe un senso se si potesse contemporaneamente sospendere la violenza carnale, il disagio economico, la malattia, la cattiva abitudine di alcuni feti di nascere malformati, dite voi. Se questo è possibile, giuro, mi associo, faccio mia la proposta; se non è così, si tratta di un tale sberleffo alla sofferenza umana che vorrei proprio evitare di dare giudizi.
Immagino che, a provocare questi interventi, ci siano due ragioni: la prima, riconoscibile in alcuni eventi recenti (un feto è sopravvissuto dopo una interruzione volontaria di gravidanza) e nella attuale polemica (che ha investito anche il Comitato Nazionale per la Bioetica) che riguarda la rianimazione dei bambini nati con un peso particolarmente basso. Il secondo motivo è squisitamente politico e non poteva essere diversamente, date le propensioni (appunto, squisitamente politiche) del Cardinale Ruini: in effetti, da questo punto di vista, non c’era momento migliore per sollevare la questione, considerata la condizione di straordinaria difficoltà in cui versa il nuovo Partito democratico, pervaso dai soliti venti di guerra tra laici e cattolici e in trepida attesa di qualche nuovo intervento divino capace di modificare i già precari equilibri parlamentari.
Non credo sia possibile immaginare un momento migliore per confondere ulteriormente le idee di questi miei poveri compagni e non credo che sarebbe possibile immaginare un argomento più velenoso. Non ho nessuna simpatia per l’astuzia, un disvalore che dovremmo imparare a disprezzare, ma so riconoscere il merito.
Non mi è ancora ben chiaro se è in ballo una vera e propria modifica della legge o se si tratta più semplicemente di un tentativo di elaborare alcune linee guida che pongano dei limiti di tempo all’interruzione, quella regolata dall’articolo 6 che riguarda l’aborto dopo il 90° giorno. Secondo me la legge 194, che è tutto sommato una legge saggia, è già in grado di evitare questa sorta di problemi, basta leggerla - e attuarla - con attenzione. L’articolo 6, infatti, stabilisce che:
-l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, può essere praticata;
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Ma all’articolo 7, dopo una premessa che riguarda gli accertamenti sulla normalità del feto troviamo che:
-quando l’interruzione di gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l’intervento può essere praticato anche senza le procedure previste…..Qualora sussista la possibilità di vita autonoma del feto l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso della lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.
Dunque, nel caso in cui il medico riconosca al feto capacità di vita autonoma, la scelta di interrompere la gravidanza potrà essere fatta solo nel caso che lo stesso medico identifichi, nel proseguimento della gestazione, un grave pericolo per la vita della donna.
Ciò ci riconduce alla prassi in uso prima del varo della legge 194, quando l’interruzione della gravidanza poteva essere eseguita legalmente solo se si creavano le condizioni di uno stato di necessità (quando cioè il feto diviene «l’assassino di sua madre» - espressione utilizzata molti anni or sono da un rabbino - e non intervenire pur essendo consapevoli del grave pericolo al quale è esposta la vita della donna, significa assumersi la responsabilità della sua morte), in presenza del quale le altre norme debbono tacere.
Il problema vero, l’unico che mi sembra di scorgere in questo momento, riguarda il momento della gravidanza nel quale può essere identificato l’inizio della possibilità di vita autonoma.
Su questo punto c’è attualmente una discussione: è vero infatti che nessun feto sopravvive se costretto a nascere entro le 22 settimane di gestazione, ma è anche vero che nessun feto nato alla ventiquattresima settimana sopravvive se la madre lo partorisce in una remota località di montagna, o se è portatore di una grave malformazione per la quale deve essere sottoposto a intervento chirurgico; ed è altresì vero che esistono spesso problemi quando si deve datare una gestazione, che la prognosi è diversa se il parto è spontaneo o operativo e così via. D’altra parte stiamo parlando di eventi assai poco frequenti e che sarebbe possibile evitare del tutto stabilendo un unico principio: che tutte le indagini relative al benessere e alla normalità del feto si debbono concludere in tempo utile perché una eventuale interruzione della gravidanza possa essere eseguita entro la ventiduesima settimana.
Sul problema della sopravvivenza dei feti nati dopo la 22ma settimana vorrei intervenire in un altro momento, il tema è complesso (ne sta discutendo il Comitato Nazionale per la Bioetica) è ha bisogno di spazio. Anticipo solo i punti sui quali la discussione è più calda: è giusto intervenire sempre, sottoponendo il feto a cure intensive, o piuttosto è opportuno valutare caso per caso le probabilità di sopravvivenza e i rischi di handicap? E quale ruolo hanno i genitori: hanno il diritto di essere consultati (e di chiedere di veder rispettata la propria decisione) o sono realmente, come qualcuno afferma, confusi, disorientati e disinformati e vanno tenuti, affettuosamente, fuori dalle scatole? E cosa mi dite delle cure che debbono essere considerate sperimentali (che sono tantissime), non sarà che, almeno in questi casi il parere dei genitori è determinante? Problemi, come vedete, seri e concreti, certamente più seri e concreti delle baggianate sulle moratorie .
Non è però detto che le richieste di modificare la legge 194 si fermino qui. Francesco D’Agostino, in un confronto che abbiamo avuto su una radio romana, ha richiamato la mia attenzione sull’articolo 4 della stessa legge, nella parte nella quale si stabiliscono i motivi di una eventuale interruzione che possono essere considerati accettabili. Secondo D’Agostino la legge affida la decisione al medico, l’unica persona competente in grado di verificare l’esistenza di «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua (della donna) salute fisica o psichica...». Per D’Agostino sarebbe dunque sufficiente, per una corretta attuazione della norma e per una lettura coerente del suo spirito, affidare realmente e completamente al medico la valutazione dell’esistenza di questo «serio pericolo».
A mio avviso questa interpretazione è del tutto sbagliata, e per due ragioni: la prima perché continuando nella lettura dell’articolo 4 si legge come questo pericolo deve essere valutato «in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvento il concepimento, o a previsioni di malformazioni o anomalie del concepito» ed è chiaro che in quasi tutti di questi ambiti il medico non ha né competenza né capacità di intervento. Se poi si continua la lettura della legge si scopre, e questo è il secondo motivo del mio dissenso, che in tutto l’articolo 5 è delineato il percorso che la donna dovrà seguire, nei casi in cui esiste e in quelli in cui non esiste una urgenza, percorso che ha come unico impedimento un periodo di 7 giorni in cui è invitata a soprassedere.
Il compito del medico è dunque quello di valutare le circostanze che inducono la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, di informarla in merito ai suoi diritti e sugli interventi di carattere sociale ai quali può fare ricorso e di verificare l’esistenza di un carattere di urgenza. Al termine di tutto ciò egli può solo consegnarle un certificato nel quale sono attestate le sue intenzioni e chiederle di attendere per sette giorni: ma al termine di questi sette giorni, e quale che sia la personale opinione del medico, la donna può presentarsi a una delle sedi autorizzate e chiedere l’interruzione di gravidanza sulla base di quel documento, un documento che il medico deve consegnarle per forza.
C’è in molti, anche come conseguenza di una sottile opera di propaganda, la convinzione che i medici non facciano il loro dovere, che i consultori siano degli abortifici, che la legge 194 venga utilizzata come strumento di controllo delle nascite. In realtà, i medici hanno saputo interpretare correttamente la legge, i consultori fanno una straordinaria opera di sostegno e di informazione e le donne che hanno utilizzato l’interruzione di gravidanza alla stregua di un mezzo anticoncezionale non dovrebbero superare, secondo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità. l’1,6%. Insomma, la 194 è una legge che ha dato buona prova di sé, che ha diminuito il numero di aborti in modo significativo (erano 234.000 nel 1982, sono stati 129.000 nel 2005) con un tasso di abortività tra i più bassi nel mondo. Quante altre leggi dello stato hanno funzionato altrettanto bene?