sabato 12 gennaio 2008

Usa, i controllori del buon cuore

Usa, i controllori del buon cuore
Corriere della Sera del 11 gennaio 2008, pag. 52

di Massimo Gaggi

Avete donato soldi a un'organizzazione che as­siste i poveri, a un'istituzione culturale o a un centro che combatte le malattie endemiche in Africa. Mai avuto dubbi sulla destina­zione dei vostri euro? Non siete mai stati ten­tati di scoprire come è stata usata la vostra generosità? In America il problema se lo pongono da tempo. Per anni le risposte sono venute dai rendiconti delle stesse organiz­zazioni filantropiche, ma ormai quello di misurare il suc­cesso di un'iniziativa caritatevole è diventato un vero e proprio mestiere. Man mano che la «torta» della filantro­pia cresce, spuntano ovunque società specializzate nella due diligence di queste fondazioni. Agenzie incaricate da chi ha donato grosse cifre di verificare i risultati conse­guiti.



Nel caso delle charter school, scuole private gestite da società non profit che competono con quelle comunali utilizzando contributi pubblici e il sostegno di benefatto­ri (in genere gente contraria allo statalismo), si tratta di misurare il profitto conseguito dagli studenti nelle varie materie. In altri casi quelli che si mettono al lavoro sono una sorta di «revisori dei conti» che controllano che le fondazioni non abbiano sperperato parte delle risorse lo­ro affidate. Ci sono, poi, organizzazioni come GiveWell, capaci di operare nei campi più disparati: si può chiede­re loro di valutare tanto l'efficacia di un programma sani­tario organizzato in Africa quanto il lavoro fatto da un centro che aiuta i disoccupati di New York.



Altre fondazioni come GlobalGiving.org, invece, cercano di rendere inutile l'intervento degli «ispetto­ri» esterni non solo infor­mando in tempo reale i be­nefattori sul modo in cui usano i loro soldi, ma an­che offrendo a chi è insod­disfatto la possibilità di spostare il suo contributo da un'attività caritatevole a un'altra.



Fin qui molte non profit hanno cercato di sottrarsi a controlli di questo tipo soprattutto per il timore di scopri­re inefficienze amministrative tali da obbligarle a rivolu­zionare la loro organizzazione: le charities non sono di certo flessibili, capaci di adattarsi ai cambiamenti, come una società commerciale esposta ai venti del mercato.



Ma ormai anche quello della beneficenza è diventato un mercato. Ed è sterminato: nel 2006 i filantropi ameri­cani hanno fatto donazioni per 295 miliardi di dollari. L'anno scorso, stando ai primi dati, quota 300 miliardi dovrebbe essere stata agevolmente superata, nonostante il rallentamento dell'economia.



Quella della filantropia, negli Stati Uniti, è una cultura diffusa: donano i super ricchi che non vogliono essere ricordati come capitalisti di successo ma avidi; donano i benestanti che sentono l'imperativo morale di restituire alla collettività un po' della fortuna piovuta su di loro; ma dona anche chi non è ricco (il 65% delle famiglie che gua­dagnano meno di 100 mila dollari l'anno, circa 70 mila euro). Gente generosa o che, semplicemente, detesta ver­sare tasse allo Stato (le donazioni sono deducibili dal red­dito). Ma che, comunque, vuole sapere dove finiscono i suoi soldi.