Usa, i controllori del buon cuore
Corriere della Sera del 11 gennaio 2008, pag. 52
di Massimo Gaggi
Avete donato soldi a un'organizzazione che assiste i poveri, a un'istituzione culturale o a un centro che combatte le malattie endemiche in Africa. Mai avuto dubbi sulla destinazione dei vostri euro? Non siete mai stati tentati di scoprire come è stata usata la vostra generosità? In America il problema se lo pongono da tempo. Per anni le risposte sono venute dai rendiconti delle stesse organizzazioni filantropiche, ma ormai quello di misurare il successo di un'iniziativa caritatevole è diventato un vero e proprio mestiere. Man mano che la «torta» della filantropia cresce, spuntano ovunque società specializzate nella due diligence di queste fondazioni. Agenzie incaricate da chi ha donato grosse cifre di verificare i risultati conseguiti.
Nel caso delle charter school, scuole private gestite da società non profit che competono con quelle comunali utilizzando contributi pubblici e il sostegno di benefattori (in genere gente contraria allo statalismo), si tratta di misurare il profitto conseguito dagli studenti nelle varie materie. In altri casi quelli che si mettono al lavoro sono una sorta di «revisori dei conti» che controllano che le fondazioni non abbiano sperperato parte delle risorse loro affidate. Ci sono, poi, organizzazioni come GiveWell, capaci di operare nei campi più disparati: si può chiedere loro di valutare tanto l'efficacia di un programma sanitario organizzato in Africa quanto il lavoro fatto da un centro che aiuta i disoccupati di New York.
Altre fondazioni come GlobalGiving.org, invece, cercano di rendere inutile l'intervento degli «ispettori» esterni non solo informando in tempo reale i benefattori sul modo in cui usano i loro soldi, ma anche offrendo a chi è insoddisfatto la possibilità di spostare il suo contributo da un'attività caritatevole a un'altra.
Fin qui molte non profit hanno cercato di sottrarsi a controlli di questo tipo soprattutto per il timore di scoprire inefficienze amministrative tali da obbligarle a rivoluzionare la loro organizzazione: le charities non sono di certo flessibili, capaci di adattarsi ai cambiamenti, come una società commerciale esposta ai venti del mercato.
Ma ormai anche quello della beneficenza è diventato un mercato. Ed è sterminato: nel 2006 i filantropi americani hanno fatto donazioni per 295 miliardi di dollari. L'anno scorso, stando ai primi dati, quota 300 miliardi dovrebbe essere stata agevolmente superata, nonostante il rallentamento dell'economia.
Quella della filantropia, negli Stati Uniti, è una cultura diffusa: donano i super ricchi che non vogliono essere ricordati come capitalisti di successo ma avidi; donano i benestanti che sentono l'imperativo morale di restituire alla collettività un po' della fortuna piovuta su di loro; ma dona anche chi non è ricco (il 65% delle famiglie che guadagnano meno di 100 mila dollari l'anno, circa 70 mila euro). Gente generosa o che, semplicemente, detesta versare tasse allo Stato (le donazioni sono deducibili dal reddito). Ma che, comunque, vuole sapere dove finiscono i suoi soldi.
Corriere della Sera del 11 gennaio 2008, pag. 52
di Massimo Gaggi
Avete donato soldi a un'organizzazione che assiste i poveri, a un'istituzione culturale o a un centro che combatte le malattie endemiche in Africa. Mai avuto dubbi sulla destinazione dei vostri euro? Non siete mai stati tentati di scoprire come è stata usata la vostra generosità? In America il problema se lo pongono da tempo. Per anni le risposte sono venute dai rendiconti delle stesse organizzazioni filantropiche, ma ormai quello di misurare il successo di un'iniziativa caritatevole è diventato un vero e proprio mestiere. Man mano che la «torta» della filantropia cresce, spuntano ovunque società specializzate nella due diligence di queste fondazioni. Agenzie incaricate da chi ha donato grosse cifre di verificare i risultati conseguiti.
Nel caso delle charter school, scuole private gestite da società non profit che competono con quelle comunali utilizzando contributi pubblici e il sostegno di benefattori (in genere gente contraria allo statalismo), si tratta di misurare il profitto conseguito dagli studenti nelle varie materie. In altri casi quelli che si mettono al lavoro sono una sorta di «revisori dei conti» che controllano che le fondazioni non abbiano sperperato parte delle risorse loro affidate. Ci sono, poi, organizzazioni come GiveWell, capaci di operare nei campi più disparati: si può chiedere loro di valutare tanto l'efficacia di un programma sanitario organizzato in Africa quanto il lavoro fatto da un centro che aiuta i disoccupati di New York.
Altre fondazioni come GlobalGiving.org, invece, cercano di rendere inutile l'intervento degli «ispettori» esterni non solo informando in tempo reale i benefattori sul modo in cui usano i loro soldi, ma anche offrendo a chi è insoddisfatto la possibilità di spostare il suo contributo da un'attività caritatevole a un'altra.
Fin qui molte non profit hanno cercato di sottrarsi a controlli di questo tipo soprattutto per il timore di scoprire inefficienze amministrative tali da obbligarle a rivoluzionare la loro organizzazione: le charities non sono di certo flessibili, capaci di adattarsi ai cambiamenti, come una società commerciale esposta ai venti del mercato.
Ma ormai anche quello della beneficenza è diventato un mercato. Ed è sterminato: nel 2006 i filantropi americani hanno fatto donazioni per 295 miliardi di dollari. L'anno scorso, stando ai primi dati, quota 300 miliardi dovrebbe essere stata agevolmente superata, nonostante il rallentamento dell'economia.
Quella della filantropia, negli Stati Uniti, è una cultura diffusa: donano i super ricchi che non vogliono essere ricordati come capitalisti di successo ma avidi; donano i benestanti che sentono l'imperativo morale di restituire alla collettività un po' della fortuna piovuta su di loro; ma dona anche chi non è ricco (il 65% delle famiglie che guadagnano meno di 100 mila dollari l'anno, circa 70 mila euro). Gente generosa o che, semplicemente, detesta versare tasse allo Stato (le donazioni sono deducibili dal reddito). Ma che, comunque, vuole sapere dove finiscono i suoi soldi.